testo integrale con note e bibliografia
La proposta di legge per introdurre anche in Italia il salario minimo legale, sembra avere scatenato tra le forze politiche e nel mondo sindacale e imprenditoriale una sorta di “guerra di religione”, tra favorevoli e contrari.
Il governo ha chiesto al CNEL di formulare una proposta, per affrontare il tema nella prospettiva della evidente “questione salariale”, che affligge il lavoro e deprime l’economia, a causa dell’abbassamento dei consumi.
1. La “questione salariale” e il “lavoro povero”
Nel Mezzogiorno un lavoratore su quattro guadagna meno di 9 euro l'ora. Su tre milioni di dipendenti al di sotto della soglia minima indicata nel disegno di legge promosso dalle forze di opposizione, un milione vive al Sud. E non si tratta solo di salario minimo. Dalle anticipazioni del Rapporto Svimez emerge che nel Meridione ogni aspetto del lavoro povero si declina in modo peggiorativo. Se i salari italiani tra pandemia e inflazione hanno perso il 7,5% contro il 2,2% della media Ocse, nel Mezzogiorno si è scivolati fino a una perdita in termini reali dell'8,4%, con una evidente “questione salariale”.
1.1 Il fenomeno del “lavoro povero”
E la nuova “questione salariale” è parte costitutiva del tema del lavoro povero, inteso come la crescita esponenziale di aree del lavoro dove la retribuzione non è sufficiente, generando drammatici fenomeni di povertà , che è all’attenzione della dottrina, delle istituzioni pubbliche, dei sindacati .
Il tema, in verità, era stato già acutamente analizzato sin dagli anni Ottanta del ‘900, allorquando venne proposta la questione della determinazione del salario in funzione alle strategie di contrasto alla povertà , ma che si deve inquadrare oggi, oltre il perimetro della subordinazione, includendo in esso anche i lavori non ricompresi nella nozione classica di dipendenza, ma, tuttavia, privi di tutele – si pensi solo ai “platform workers”, che si collocano in una sorta di “zona grigia”, in cui la tradizionale summa divisio del ‘900 appare sempre più difficilmente applicabile e, comunque, ormai inadeguata al nuovo contesto produttivo e tecnologico - e per questo segnati anch’essi dal fenomeno dell’impoverimento, che ha avuto una significativa espansione in Italia nella fase pandemica , con la crescita dei c.d. “contratti pirata” .
E’ di tutta evidenza, infatti, che la diffusione del lavoro povero, come osservato in ambito euro-unitario già prima della pandemia , ha avuto un ulteriore sviluppo a causa dall’inflazione generata dalle conseguenze del conflitto in Ucraina, con un’accentuazione del fenomeno non soltanto nell’area della subordinazione, ma oltrepassando i confini delle zone grigie della parasubordinazione, per dilagare anche nei territori del lavoro autonomo genuino, quello di professionisti con alti livelli di specializzazione, ma basse prospettive di reddito .
2. L’ipotesi di una legge sul salario minimo legale
Da questo quadro scaturisce l’esigenza del salario minimo legale, utile nel nostro Paese in quanto finalizzato a garantire a tutti i lavoratori italiani un minimo salariale inderogabile - come previsto in 21 paesi su 27 dell’unione europea e anche in Inghilterra e Stati Uniti - con una copertura anche per le figure di lavoro che non rientrano nella nozione tradizionale di subordinazione e che subiscono gravi fenomeni di sfruttamento, meritevoli, quindi, di tutele sul piano retributivo, oltre che su quelli della sicurezza sul lavoro e sul welfare.
A fronte dell’introduzione del salario minimo legale , si devono registrare alcune posizioni sindacali di netta contrarietà, che ritengono sufficiente sul tema il ruolo dell’autonomia collettiva, sottintendendo che devono essere i contratti collettivi a garantire i minimi salariali. Nessuna motivazione giuridica, però, può sostenere che l’intervento legislativo debba operare solo in via eventualmente sussidiaria alla contrattazione, cioè limitatamente alle categorie dove i salari siano eccezionalmente bassi per l’assenza o per la particolare debolezza della contrattazione e che, comunque, se la grande parte del lavoro subordinato è formalmente coperta dall’autonomia collettiva, un’area significativa ne è esclusa per la pratica del dumping sociale.
Così come appare controvertibile la tesi secondo cui la fissazione di una soglia minima retributiva per legge, determinerebbe una contrazione dei livelli salariali. Al riguardo si può osservare che anche in Paesi caratterizzati da sindacati “forti” e relazioni industriali stabili, esistono strumenti legislativi di salario minimo: è il caso della Germania, caratterizzato dal tradizionale modello partecipativo delle parti sociali.
Inoltre, anche paesi dotati di meccanismi di estensione erga omnes dell’efficacia dei contratti collettivi hanno istituti di salario minimo legale, dimostrando che la fissazione per via legislativa dei minimi salariali non è, o non è sempre, alternativa all’attribuzione di efficacia generale ai contratti collettivi , come testimoniano alcune esperienze straniere, in cui entrambi gli strumenti coesistono: il salario minimo legale universale costituisce la base per la contrattazione collettiva erga omnes .
3. La “supplenza giurisprudenziale e l’art. 36 Cost.
Storicamente é stata la giurisprudenza, a fronte della mancata attuazione dei commi 2, 3 e 4 dell’art. 39 Cost. sull’efficacia generale dei contratti collettivi nazionali di categoria, a provvedere, attraverso l’interpretazione dell’art. 36 Cost., anche di recente, a risolvere la questione delle garanzie ai lavoratori del minimo salariale, definito come “minimo costituzionale” .
Già a partire dal 1952, con la “storica” sentenza della Suprema Corte di Cassazione n. 461 del 21 febbraio 1952 , la giurisprudenza ha provveduto a sancire il diritto dei lavoratori, prescindendo dalla loro iscrizione o meno ai sindacati stipulanti i contratti collettivi di diritto privato, all’applicazione dei minimi retributivi degli stessi, consentendo la teorizzazione di un “salario minimo costituzionale” .
In questa prospettiva si deve ricordare come la Suprema Corte di Cassazione, a partire dal 25 marzo 1960, con la n. 636, ha sviluppato costante giurisprudenza di legittimità favorevole al controllo giudiziale ex art. 36 Cost., delle tabelle retributive derivanti dalla contrattazione collettiva.
Sul piano giurisprudenziale, è stato quindi rilevato un diritto soggettivo immediatamente azionabile, poiché derivante da norma costituzionale a carattere precettivo, alla luce dell’equità prevista nel 2099 c.c.
E si deve evidenziare che la più recente giurisprudenza di legittimità, ha eccepito in alcuni casi i trattamenti retributivi base dei CCNL, pur se stipulati dalle organizzazioni sindacali c.d. “comparativamente più rappresentative” sulla base del rispetto del principio di sufficienza ; è da segnalare anche il recente caso di una società di vigilanza di Milano, che pur applicando il CCNL sottoscritto da Cgil e Cisl per il c.d. settore dei “servizi fiduciari” con retribuzioni orarie di 5.49 euro lordi, ha subito dalla Procura della Repubblica un provvedimento di sequestro dell’azienda, integrando il reato di “intermediazione illecita e sfruttamento del lavoro, posto in essere attraverso un assiduo sfruttamento dei dipendenti perpetrato approfittando del loro stato di bisogno”, previsto dall’art. 603bis c.p.
Su una oscillante impostazione ricostruttiva però, la giurisprudenza amministrativa. Il Tar Lombardia, infatti, con sentenza del 28 giugno 2023 ,ha rigettato le contestazioni sull'adeguatezza del contratto collettivo nazionale Vigilanza privata, servizi fiduciari, annullando il verbale dell'Ispettorato Territoriale del Lavoro di Como-Lecco, che aveva ordinato a un'azienda impegnata nei servizi di portierato, custodia, reception e guardiania non armata di applicare un diverso e più oneroso accordo collettivo, in specie quello del settore Multiservizi, eccependo che l’individuazione del Ccnl da applicare ai dipendenti è una scelta discrezionale del datore di lavoro che – tranne nell’ipotesi di accordi collettivi con previsioni contrarie alla legge o riferibili a categorie del tutto disomogenee - non è sindacabile nel merito in sede giurisdizionale. Una pronunzia che sembra porsi in contrasto con una ordinanza di qualche mese precedente dello stesso Tribunale Amministrativo, relativa al settore degli appalti pubblici , secondo cui la verifica del rispetto dei minimi salariali costituisce adempimento necessario ma con una propria autonomia, “dovendosi svolgere anche laddove non si verta in ipotesi di offerta da sottoporre al giudizio di anomalia, in forza di quanto previsto dall’art. 97 d.Lgs. n. 50/2016 (TAR Piemonte, II, 13.10.2020, n. 600)”.
4. L’ipotesi della legge sull’efficacia erga omnes dei CCNL
Se non si ritiene sufficiente la fissazione di minimi salariali per legge, che è invero coerente con la previsione dell’art. 36 della Costituzione , allora si segua l’indicazione contenuta nella direttiva dell’Unione europea di conferire alla contrattazione collettiva efficacia generale, che nel nostro ordinamento non può fondarsi su quella dei c.d. “sindacati comparativamente più rappresentativi”, in quanto non rispondente al diffuso pluralismo sindacale e dell’associazionismo datoriale e, comunque, in contrasto con le previsioni dell’art. 39 Cost. Serve una legge di attuazione - attraverso il diritto vivente per un equilibrio tra autonomia e legge - dei commi 2, 3 e 4 dell’art. 39 della nostra Carta fondamentale , tema invero fortemente controverso, a tal punto che autorevole dottrina ha definito la norma costituzionale in questione “una presenza storicamente ingombrante” , non solo per la registrazione e il conferimento della personalità giuridica alle organizzazioni dei lavoratori, ma, soprattutto, per l’inversione dei ruoli tra “categoria” e “sindacato”: la prima quale prius, il secondo come posterius, con la volontà delle parti sociali di privilegiare l’autonomia collettiva rispetto alla legge .
E, sicuramente, nella eventuale prospettiva di attuazione dei commi successivi al primo dell’art. 39 Cost., un ruolo fondamentale potrà essere svolto da un’interpretazione evolutiva della norma costituzionale .
5. Il ruolo del CNEL
Il governo ha chiesto al neopresidente del CNEL di formulare una proposta sulla controversa questione e anche tale decisione ha suscitato polemiche, circa il ruolo svolto nel passato da tale organo di rilevanza costituzionale, previsto dall’art. 99 Cost.
Il CNEL venne pensato in sede di Assemblea costituente come un organo di costituzionale con funzioni consultive, sede permanente di confronto tra le parti sociali, ma a parte la prima fase della programmazione economica dei governi del primo centro-sinistra, in cui venne coinvolto nella politica di piano, è rimasto, nei fatti, un simulacro di rappresentanza corporativa senza organizzazione pubblicistica delle categoria, come il suo omologo transalpino: le Conseil économique, social et environnemental (CESE).
In verità sono state le stesse parti sociali a trascurare la funzione del CNEL, preferendo il confronto diretto con il governo quale punto terminale del conflitto sociale per le riforme – come é avvenuto nel periodo 1969-1984 , e negli anni 90’ del secolo trascorso, con la pratica della “concertazione dell’emergenza” , una variante dei modelli neo-corporativi europei .
Un CNEL ancorato al principio del pluralismo, con presenza di tutte le organizzazioni datoriali e dei lavoratori rappresentative e non solo di quelle cosiddette “storiche”, potrebbe essere la sede anche per il confronto tra il governo e le parti sociali su alcuni dei nodi strategici della nostra economia, a partire dai temi del salario minimo legale, della efficacia della contrattazione collettiva, del contrasto al dumping sociale, della tutela dei nuovi lavori in piattaforma, della riforma fiscale: un’occasione per l’attuale governo di rilanciare il dialogo sociale, in una fase in cui si annunciano conflitti sindacali.