Testo integrale con note e bibliografia
1. La questione decisa dal Tribunale di Torino.
L’assenza nell’ordinamento italiano di interventi legislativi sia in materia di efficacia erga omnes dei contratti collettivi, sia di salario minimo legale, ha – come noto – determinato l’intervento di supplenza della Magistratura nella definizione del c.d. “salario minimo costituzionale”. Al riguardo, i Giudici – attraverso il combinato disposto dell’art. 36 Cost. e dell’art. 2099, comma 2, c.c. e sulla base di orientamenti ormai consolidati – si avvalgono quale parametro di riferimento retributivo dei minimi tabellari stabiliti dai c.c.n.l. stipulati dalle organizzazioni sindacali comparativamente più rappresentative.
La pronuncia del Tribunale di Torino riguarda essenzialmente una questione: l’individuazione dello specifico c.c.n.l. da utilizzare quale parametro retributivo per la determinazione della “giusta retribuzione” di un socio lavoratore di cooperativa svolgente le mansioni di addetto alla reception.
La peculiarità del caso è data dal fatto che il Giudice nella sua decisione compie una duplice operazione interpretativa, ampiamente argomentata, ma per certi versi indubbiamente dirompente: “supera” l’art. 7, comma 4 del d.l. n. 248/2007 in materia di trattamento economico minimo del socio lavoratore di cooperativa e “supera” la presunzione di conformità ai principi di cui all’art. 36 Cost. dei livelli tabellari stabiliti in un c.c.n.l. stipulato da organizzazioni sindacali comparativamente più rappresentative.
L’esito finale di tale decisione è l’individuazione quale parametro retributivo di un c.c.n.l. (Proprietari di fabbricati) stipulato da organizzazioni sindacali comparativamente più rappresentative diverso da quello (sezione Servizi Fiduciari, c.c.n.l. Vigilanza) pure stipulato da sindacati comparativamente più rappresentativi e applicato al rapporto di lavoro del socio lavoratore.
2. Il “superamento” dell’art. 7, d.l. n. 248/2007.
Il Giudice torinese solleva d’ufficio la questione del rispetto da parte della convenuta dell’art. 7, comma 4, d.l. n. 248/2007, laddove si stabilisce che «fino alla completa attuazione della normativa in materia di socio lavoratore di società cooperative, in presenza di una pluralità di contratti collettivi della medesima categoria, le società cooperative che svolgono attività ricomprese nell’ambito di applicazione di quei contratti di categoria applicano ai propri soci lavoratori, ai sensi dell’articolo 3, comma 1, della legge 3 aprile 2001, n. 142, i trattamenti economici complessivi non inferiori a quelli dettati dai contratti collettivi stipulati dalle organizzazioni datoriali e sindacali comparativamente più rappresentative a livello nazionale nella categoria».
In sostanza – come affermato dalla sentenza in commento – la norma in questione detta «una regola destinata a garantire comunque ai lavoratori del settore un trattamento retributivo che, per essere stato scelto da organizzazioni sindacali ritenute capaci di tutelare gli interessi dei lavoratori, può presumersi adeguato ai sensi dell’art. 36 Cost.». Al riguardo, si è osservato in dottrina che nel «settore della cooperazione, … il legislatore, … per porre freno al cosiddetto dumping salariale, ha introdotto una forma di salario minimo» .
A fronte dei dubbi di costituzionalità dell’art. 7, comma 4, d.l. n. 248/2007 per violazione dell’art. 39 Cost. , si è ritenuto che «una sola interpretazione … può far ritenere compatibile tale norma con il dettato costituzionale: fare riferimento … ai «trattamenti economici complessivi non inferiori a quelli dettati dai contratti collettivi stipulati dalle organizzazioni datoriali e sindacali comparativamente più rappresentative a livello nazionale nella categoria» come mero parametro esterno e indiretto di commisurazione del trattamento economico complessivo proporzionato – ai sensi dell’art. 36 Cost. – alla quantità e qualità del lavoro prestato dal socio lavoratore con rapporto di lavoro subordinato» .
In questo senso, si sono esplicitamente orientate alcune delle decisioni di merito intervenute sul punto, che hanno ritenuto applicabili i minimali retributivi previsti dal c.c.n.l. di categoria stipulato dalle organizzazioni sindacali e datoriali comparativamente più rappresentative, sia nel caso in cui la cooperativa citata in giudizio non fosse iscritta ad alcuna Centrale Cooperativa e non intendesse applicare alcun contratto collettivo , sia nel caso in cui applicasse un contratto non sottoscritto dalle associazioni comparativamente più rappresentative a livello nazionale . Tali pronunce sono fondate sull’assunto che «vista la pluralità di contratti collettivi oggi in vigore, disciplinanti anche lo stesso settore, il giudice non può acriticamente accettare ogni indicazione contenuta in tali contratti come rispettosa dei canoni dell’art. 36 Costituzione, ma deve procedere ad un raffronto tra gli stessi per valutare se vi sia una lesione dell’intangibile diritto del lavoratore a percepire una retribuzione proporzionata al lavoro svolto, come è espressamente previsto dal citato articolo 36 Cost. (…) con quanto finora detto non si vuole sostenere che soltanto le sigle sindacali con maggiore rappresentatività possono legittimamente stipulare contratti collettivi e definire trattamenti retributivi: l’art. 39 della Costituzione garantisce la piena libertà sindacale, me è ovvio che ciò non può avvenire in contrasto con il diritto del singolo, intangibile da qualunque organizzazione sindacale, di percepire la giusta retribuzione ai sensi dell’art. 36 Cost.» . Questo orientamento giurisprudenziale, in altri termini, ribadisce che «se la parte normativa è applicabile ai soli iscritti, la parte retributiva è applicabile a tutti in quanto parametro per individuare i minimi salariali» e che «la funzione parametrica surclassa comunque il regolamento interno e i richiami a contratti non sottoscritti dalle associazioni comparativamente più rappresentative a livello nazionale» .
Di segno opposto, tuttavia un diverso orientamento giurisprudenziale che ha ritenuto – anche per quanto concerne gli aspetti retributivi – pienamente legittima la scelta operata dalla cooperativa che ha esercitato la sua libertà negoziale individuando il contratto collettivo da applicare ai propri dipendenti e soci tra i vari contratti collettivi di settore, non essendovi alcun obbligo di applicare quello contenente la disciplina più favorevole .
Il Tribunale di Lucca, con ordinanza del 24 gennaio 2014, ha poi sollevato questione di legittimità costituzionale dell’art. 7, comma 4, d.l. n. 248/2007 con queste motivazioni: «la disposizione attribuisce in effetti efficacia “erga omnes” a contratti collettivi di tipo “normativo”»; «l’attribuzione di tale efficacia obbligatoria erga omnes al di fuori delle condizioni previste dall’art. 39 della Costituzione prescinde totalmente da qualsiasi valutazione in ordine al rispetto o meno, da parte del diverso CCNL applicato, dei precetti ex art. 36 Cost.»; «in particolare, la disposizione impone al giudice, in presenza di una pluralità di contratti collettivi di settore, di applicare un trattamento retributivo non inferiore a quello previsto da alcuni di tali contratti, senza una previa valutazione ex art. 36 Cost. del diverso contratto collettivo applicato per affiliazione sindacale dall’impresa»; «quindi, al di là delle finalità perseguite, lo strumento normativo adottato appare in contrasto con l’art. 39 Cost.».
La Corte Costituzionale ha dichiarato infondata la questione di legittimità costituzionale, affermando che il «censurato art. 7, comma 4, del d.l. n. 248 del 2007, …, lungi dall’assegnare ai … contratti collettivi, stipulati dalle organizzazioni sindacali comparativamente più rappresentative, efficacia erga omnes, in contrasto con quanto statuito dall’art. 39 Cost., mediante un recepimento normativo degli stessi, richiama i predetti contratti, e più precisamente i trattamenti economici complessivi minimi ivi previsti, quale parametro esterno di commisurazione, da parte del giudice, nel definire la proporzionalità e la sufficienza del trattamento economico da corrispondere al socio lavoratore, ai sensi dell’art. 36 Cost. (…). Nell’effettuare un rinvio alla fonte collettiva che, meglio di altre, recepisce l’andamento delle dinamiche retributive nei settori in cui operano le società cooperative, l’articolo censurato si propone di contrastare forme di competizione salariale al ribasso, in linea con l’indirizzo giurisprudenziale che, da tempo, ritiene conforme ai requisiti della proporzionalità e della sufficienza (art. 36 Cost.) la retribuzione concordata nei contratti collettivi di lavoro firmati da associazioni comparativamente più rappresentative (fra le tante, la sentenza … della Corte di cassazione n. 17583 del 2014)».
La pronuncia della Consulta sembrava supportare la possibilità di individuare chiaramente il contratto da utilizzare quale parametro nel settore cooperativo, legittimandone altresì l’applicazione in via esclusiva almeno dal punto di vista retributivo .
Tuttavia, la giurisprudenza di merito successiva alla pronuncia della Consulta è stata tutt’altro che monolitica nell’applicazione del citato art. 7 .
Alcune sentenze si sono conformate all’orientamento espresso dalla Corte Cost., accogliendo il ricorso proposto dai soci lavoratori per vedersi riconosciuto il trattamento economico previsto dal contratto (ritenuto) parametro in quanto stipulato dalle OO.SS. dei lavoratori e dei datori di lavoro comparativamente più rappresentative (vale a dire Legacoop-Confcooperative-Agci per il versante datoriale e Cgil-Cisl-Uil per il versante sindacale), in luogo di quello applicato dalla cooperativa datrice di lavoro.
Altre pronunce, viceversa, hanno rigettato il ricorso proposto dai soci lavoratori, non avendo i loro legali fornito con dati numerici verificabili la prova del fatto che il contratto di cui si richiedeva l’applicazione era stato stipulato dai sindacati comparativamente più rappresentativi, essendosi invece limitati a dedurre che si trattava di “fatto notorio” o tutt’al più a produrre lettere contenenti richieste, rimaste senza risposta, di informazioni alle diverse organizzazioni datoriali e sindacali .
A fronte di questo composito quadro giurisprudenziale – in cui si dibatte sui criteri di individuazione dei sindacati comparativamente più rappresentativi ai fini dell’applicazione del precetto legale – il Giudice torinese va oltre: afferma, infatti, la sentenza che «nel caso di specie, l’art. 7 deve ritenersi rispettato», ma «il fatto che … non possa configurarsi una violazione dell’art. 7 – in quanto la convenuta ha applicato il trattamento economico previsto da un C.C.N.L. sottoscritto da organizzazioni sindacali qualificabili comparativamente più rappresentative a livello nazionale – non esime … dall’affrontare la verifica di compatibilità della retribuzione così corrisposta al ricorrente con il principio di proporzionalità e sufficienza posto dalla … norma costituzionale».
In altri termini, la presunzione di conformità all’art. 36 Cost. dei trattamenti retributivi dettati dai c.c.n.l. stipulati dai sindacati comparativamente più rappresentativi (come previsto dall’art. 7, d.l. n. 248/2007 e confermato da Corte Cost. n. 51/2015) è per il Tribunale di Torino soltanto relativa: «l’art. 7 costituisce un’indubbia applicazione dell’art. 36 Cost. …, ma» – afferma ancora la sentenza in commento – «non esaurisce certo la portata del precetto costituzionale … ed il potere-dovere del giudice di verificarne il rispetto sotto ogni altro profilo».
3. Il “superamento” del livello retributivo fissato da un c.c.n.l. stipulato da organizzazioni sindacali comparativamente più rappresentative e applicato al rapporto individuale di lavoro.
Il secondo passaggio argomentativo saliente del Tribunale di Torino, nell’ambito dell’ampia motivazione inerente l’art. 36 Cost., afferma che «la proporzionalità e la sufficienza a cui fa riferimento la norma costituzionale … sono concetti autonomi e ben distinti dalla volontà delle parti sociali che si esprime nella contrattazione collettiva. (…). Tali considerazioni inducono ad affermare che non può affatto escludersi a priori che il trattamento retributivo determinato dalla contrattazione collettiva, pur dotata di ogni crisma di rappresentatività (e pertanto rispettosa dell’art. 7 comma 4 d.l. 248/2007, ove applicabile) possa risultare in concreto lesivo del principio di proporzionalità … e/o di sufficienza».
In estrema sintesi, non basta applicare i parametri retributivi di un c.c.n.l. sottoscritto da organizzazioni sindacali comparativamente più rappresentative per “essere in regola” con l’art. 36 della Costituzione.
Dal raffronto tra i livelli retributivi applicati al rapporto di lavoro del socio lavoratore in virtù della sezione Servizi Fiduciari del c.c.n.l. Vigilanza con quelli previsti per analoghe mansioni dal c.c.n.l. Multiservizi, dal c.c.n.l. Proprietari di fabbricati e dal c.c.n.l. Terziario, distribuzione e servizi, il Tribunale di Torino giunge, infatti, ad affermare recisamente «l’inadeguatezza della retribuzione corrisposta al ricorrente nel corso del rapporto di lavoro intercorso con la società convenuta … rispetto al parametro costituzionale posto dall’art. 36 Cost.».
L’affermazione è supportata da un’ampia istruttoria – che si è spinta sino a ricercare, attraverso articolate informative sindacali, le ragioni della stipulazione della sezione Servizi Fiduciari del c.c.n.l. Vigilanza – e da un’argomentazione puntuale ed approfondita. Tuttavia, nella parte finale della motivazione il Tribunale di Torino – pur non escludendo «in linea teorica, che … le parti collettive … possano imporre dei sacrifici ai singoli lavoratori per il raggiungimento di obiettivi sociali di tutela della categoria intesa nel suo complesso (in particolare nell’ambito della lotta alla disoccupazione)» – sembra arrivare ad effettuare una valutazione nel merito della bontà o meno delle scelte effettuate dai sindacati dei lavoratori comparativamente più rappresentativi che hanno sottoscritto la sezione Servizi Fiduciari del c.c.n.l. Vigilanza, concludendo per «l’indubbia inidoneità delle ragioni che hanno spinto le organizzazioni sindacali dei lavoratori ad accettare la retribuzione di cui si discute».
Questa parte dell’iter motivazionale non risulta condivisibile ad avviso di chi scrive: una tale valutazione da parte del Giudice del “grado di meritevolezza” delle scelte contrattuali sindacali sembra poter entrare in collisione con l’art. 39, comma 1, Cost., che pacificamente attribuisce alle organizzazioni sindacali il principio di libertà nella scelta degli obiettivi e dei contenuti della contrattazione, ivi comprese le richieste retributive e l’opportunità di sottoscrivere un contratto a determinate condizioni.
In ogni caso, la decisione del Tribunale di Torino, portando alla disapplicazione di un c.c.n.l. pacificamente sottoscritto da sindacati comparativamente più rappresentativi, è estremamente rilevante e potenzialmente dirompente rispetto alla consolidata giurisprudenza in materia di “salario minimo costituzionale”. Peraltro, come vedremo subito nel § 4, sembra trattarsi di opzione interpretativa non del tutto isolata e con alcuni indubbi punti di contatto con una recente pronuncia di legittimità, al punto tale da poter indurre a pensare alla genesi di un orientamento giurisprudenziale volto a dare centralità alla determinazione giudiziale del salario minimo costituzionale, superando di fatto anche i parametri retributivi fissati da c.c.n.l. stipulati da sindacati dei lavoratori comparativamente più rappresentativi e definendo a tal fine, sempre per via giudiziale, il perimetro della categoria di riferimento.
4. Sindacati comparativamente più rappresentativi e Giudice: chi è l’autorità salariale?
In un caso analogo a quello affrontato dal Tribunale di Torino, la Corte di Cassazione ha ritenuto di individuare nel c.c.n.l. Multiservizi il contratto da utilizzare quale parametro per definire il trattamento economico minimo da riconoscere ad una socia lavoratrice e ha invece escluso l’utilizzabilità del c.c.n.l. Portieri e Custodi applicato al rapporto di lavoro, c.c.n.l. che, «se pure sottoscritto dalle sigle sindacali confederali dei lavoratori (Cgil, Cisl e Uil), risulta stipulato, per parte datoriale, da un’unica organizzazione sindacale, la Confederazione italiana della proprietà edilizia (Confedilizia), il che rende evidente il ristretto ambito applicativo dello stesso e, nel contempo, non soddisfa il requisito previsto dall’art. 7, L. n. 31 del 2008 che fa riferimento al contratto collettivo sottoscritto, anche per parte datoriale, dalle organizzazioni datoriali e sindacali comparativamente più rappresentative a livello nazionale nella categoria».
L’argomentazione della Cassazione è differente, ma gli esiti sono sostanzialmente conformi a quelli cui è approdato il Tribunale di Torino. Anche la pronuncia della Cassazione è senza dubbio ampiamente motivata, ma desta a sua volta qualche interrogativo soprattutto in ragione dei margini di incertezza e discrezionalità (non casualmente si è giunti in Cassazione dopo che primo e secondo grado avevano fatto registrare decisioni contrastanti) nella definizione della categoria di riferimento nell’ambito della quale individuare il c.c.n.l. parametro ai fini retributivi.
A questo proposito, meritevoli di attenzione e non prive di rilievo sembrano le argomentazioni del giudice di primo grado della controversia poi giunta in Cassazione, vale a dire il Tribunale di La Spezia, secondo il quale «la riconosciuta applicabilità alle mansioni della ricorrente (anche) della disciplina di cui al CCNL Portieri è circostanza già di per sé sufficiente a determinare il rigetto del ricorso, dal momento che, se una determinata attività rientra nell’alveo di quelle disciplinate da un certo contratto collettivo, la retribuzione individuata da quest’ultimo va ritenuta sufficiente ex art. 36 Cost.» .
Il Tribunale di La Spezia aveva, in sostanza, ritenuto di non poter definire il perimetro della “categoria” di riferimento (nell’ambito della quale individuare il c.c.n.l. parametro in quanto stipulato dalle organizzazioni sindacali e datoriali comparativamente più rappresentative) esprimendosi in modo difforme rispetto alla volontà espressa, nell’esercizio della libertà sindacale e contrattuale, dalle medesime organizzazioni stipulanti.
La Corte di Cassazione e il Tribunale di Torino procedono in senso contrario, arrivando in sostanza a stabilire una sorta di salario minimo di determinazione giudiziale, alimentando ulteriormente quei rischi di un marcato soggettivismo decisionale recentemente rilevati in dottrina .
In questo senso, sia la sentenza di legittimità, che la pronuncia di merito del Tribunale di Torino suscitano motivi di perplessità, dal momento che il Giudice tende a sostituirsi quale autorità salariale al sindacato (rectius: al sindacato comparativamente più rappresentativo).
Ciò, come già rilevato, suscita dubbi di compatibilità di tale intervento con il principio di libertà sindacale ex art. 39, comma 1, Cost., finendo il Giudice per determinare ab externo sia il perimetro della categoria contrattuale, sia il relativo parametro retributivo per la “giusta retribuzione”.
5. Riflessioni conclusive: la necessità di mettere ordine nella pluralità di c.c.n.l. stipulati dalle organizzazioni sindacali comparativamente più rappresentative.
Per quanto non pienamente condivisibili (a modesto avviso di chi scrive), i recenti orientamenti della giurisprudenza appena presi in esame hanno però un indubbio merito: destare l’attenzione sull’eccessiva proliferazione di contratti sottoscritti anche dalle organizzazioni sindacali dei lavoratori comparativamente più rappresentative.
Tale proliferazione ha, infatti, determinato «una vera e propria giungla che riflette una realtà di forte frammentazione delle relazioni industriali italiane e di progressiva disarticolazione delle categorie» . È poi sufficiente confrontare gli articoli dedicati a definire l’area di applicazione di alcuni dei contratti collettivi stipulati da organizzazioni sicuramente rappresentative (da entrambi i lati) per avvedersi che anche quelli formalmente dedicati a settori diversi presentano delle possibili aree di sovrapposizione .
Spetta, quindi, proprio alle organizzazioni sindacali e datoriali comparativamente più rappresentative dimostrare la capacità di esercitare la propria autonomia dando vita ad un sistema contrattuale ordinato e regolato, riducendo effettivamente il numero dei contratti collettivi ed evitando le possibili aree di sovrapposizione tra gli stessi, anche per evitare le conseguenze (emerse in modo emblematico nella sentenza in commento) in materia di differenziali salariali tra diversi c.c.n.l. quantomeno “contigui”, se non proprio sovrapponibili quanto al campo di applicazione.
In questo senso il sindacato confederale può e deve effettivamente tornare ad esercitare un ruolo di regia rispetto alle scelte contrattuali delle singole federazioni di categoria e di razionalizzazione dell’intero sistema della contrattazione collettiva nazionale .
È tuttavia opportuno ribadire conclusivamente che si tratta di valutazioni discrezionali che rientrano nell’ambito della libertà sindacale delle organizzazioni comparativamente più rappresentative e non sembrano poter contemplare – almeno allo stato attuale della disciplina – un intervento suppletivo (rectius: sostitutivo) della Magistratura.