L’avv. Daniela Adamo sul n. 2 della rivista ha posto un problema di grande interesse giuridico ma anche, e di più, sindacale e politico. Il dott. Martello come direttore della rivista ha sollecitato, nel suo editoriale, vista l’importanza del tema, il contributo dei lettori. Raccogliendo questo invito intendo contribuire da lettore al dibattito.
Dal 2010 il fenomeno delle conciliazioni in materia di lavoro subordinato e parasubordinato ha assunti caratteri e dimensioni del tutto sconosciuti negli anni precedenti. Evidentemente il collegato lavoro del 2010 ha aperto la strada a una sfrenata creatività, ritenendo di poter superare il rigido sistema delle garanzie delineato e previsto dall’art. 2113 del codice civile. È vero che il collegato lavoro ha introdotto nuove procedure ma non ha affatto liberalizzato il sistema di protezione che è rimasto sempre uguale. Senza questa rigidità il sistema protettivo si frantumerebbe e diventerebbe una cosa diversa da quella a cui siamo stati da sempre abituati.
Dall’esame delle norme del codice di procedura civile (artt. 410, 411 412, 412 ter e 412 quater) appare di tutta evidenza che l’unico modello di conciliazione sindacale, giuridicamente prevista e disciplinata, è la conciliazione sindacale bilaterale di cui all’art. 412 ter c.p.c. La norma peraltro aggiunge che queste conciliazioni devono svolgersi “presso le sedi e con le modalità previste dai contratti collettivi sottoscritti dalle stesse organizzazioni sindacali maggiormente rappresentative”.
La fonte che disciplina in modo esclusivo la conciliazione sindacale, per legge, è quindi solo il contratto collettivo. Ma i contratti collettivi, quelli che prevedono e disciplinano questo istituto, statuiscono concordemente che l’unica sede è quella bilaterale e cioè una sede dove sono rappresentate congiuntamente le organizzazioni sindacali dei lavoratori e quelle datoriali, che hanno sottoscritto quel contratto collettivo. Nessun contratto collettivo attribuisce a una singola organizzazione sindacale, sia pure dei lavoratori, la funzione di fungere da conciliatore delle controversie di lavoro individuali, plurime o collettive.
Se così è, e non vi è dubbio che sia così, per evitare abusi e situazioni fraudolente, sia a danno dei lavoratori che, a volte contro le stesse imprese, occorre impedire che gli Ispettorati del Lavoro accettino nei loro uffici il deposito di atti che non hanno le indicate caratteristiche, imperativamente previste per legge. Un rifiuto netto di questi depositi toglierebbe con immediatezza quell’alone di legittimità che quel deposito inesorabilmente tende ad attribuire.
Un ufficio pubblico deve essere rispettoso delle leggi e non può accettare atti che non siano stati formati secondo le previsioni di legge .Nella quotidianità invece accade che col deposito all’Ispettorato del lavoro e col rilascio delle relative copie con il salvifico timbro ministeriale, quell’atto formatosi in violazione di disposizioni di legge inequivocabilmente assume la dignità di atto formalmente corretto, tanto da meritare l’ufficiale imprimatur di un ufficio del Ministero del Lavoro.
Iniziando a rifiutare questi depositi illegittimi il fenomeno delle conciliazioni “anomale” si sgonfierà con la stessa velocità con cui è cresciuto.
Gli Ispettorati dovrebbero dunque accettare solo il deposito dei verbali sottoscritti in sede bilaterale dinanzi alle organizzazioni sindacali maggiormente rappresentative - ovvero quelli conclusi con il rigoroso rispetto delle previsioni contrattuali – e respingere il deposito di quelle conciliazioni mono sindacali che sono estranee a ogni garanzia di legge.