Testo integrale con note e bibliografia
Testo della sentenza
Parte 1
parte 2
1. L’inderogabilità della legge come caposaldo del diritto del lavoro. – La fonte regolativa del rapporto di lavoro si è tradizionalmente spostata dall’autonomia negoziale individuale, e cioè dal contratto individuale di lavoro, verso fonti eteronome di regolamentazione, ossia la legge ed il contratto collettivo di lavoro. Tale assetto regolatorio risponde alla necessità di garantire, tramite lo strumento della norma inderogabile, una serie di diritti del lavoratore, connessi alla personalità umana dello stesso, difficilmente ottenibili tramite la negoziazione individuale, a causa dello squilibrio di potere contrattuale sussistente tra datore di lavoro e lavoratore.
Ne deriva che, nel rapporto di lavoro, la funzione della autonomia negoziale individuale è fortemente limitata, potendo infatti derogare le norme di legge e di contratto collettivo solo in melius.
Chiarito qual è lo scopo della inderogabilità nel diritto del lavoro, più complesso appare, invece, individuarne il fondamento giuridico. La dottrina giuslavoristica lo ha, tradizionalmente, individuato nella cosiddetta inderogabilità di protezione, che ricorre quando l’inderogabilità della norma deriva dalla necessità di soddisfare un interesse generale il quale, tuttavia, è strettamente connesso alla tutela di un interesse particolare .
In tale ottica, l’inderogabilità nel rapporto di lavoro finisce per perseguire un duplice fine: da un lato mira a sottrarre alla dinamica negoziale la salvaguardia di beni ed interessi di rilevanza costituzionale; sotto distinto profilo, la norma inderogabile mira a riequilibrare un rapporto contrattuale considerato ontologicamente asimmetrico.
Come noto, l’inderogabilità non caratterizza solo le norme di legge ma anche le norme del contratto collettivo di lavoro, inderogabili in pejus da parte dell’autonomia negoziale individuale.
L'inderogabilità in pejus delle clausole del contratto collettivo da parte delle clausole del contratto individuale è stata fondata dalla giurisprudenza su una disposizione codicistica, l’art. 2077 c.c. , nonostante tale disposizione regolasse il rapporto tra contratto individuale e contratto collettivo nell’ordinamento corporativo, nel quale al contratto collettivo corporativo era riconosciuto valore di atto normativo.
Il rapporto tra autonomia negoziale collettiva e legge presenta, peraltro, ulteriori profili dialettici.
Posto, infatti, che quando non sia la legge inderogabile a prevedere espressamente la sua derogabilità da parte dell’autonomia negoziale collettiva, il contratto collettivo non può derogare in pejus la legge, quest’ultima, molto spesso, affida alla autonomia negoziale collettiva una funzione suppletiva, integrativa o derogatoria rispetto alle norme di legge.
In questo caso occorre chiedersi a quale livello di contrattazione sia assegnata tale funzione e se la contrattazione decentrata (territoriale o aziendale) abbia pari dignità rispetto alla contrattazione collettiva nazionale nell’esercizio della funzione delegata dalla legge.
La questione del rapporto tra norma inderogabile e contratto collettivo aziendale è particolarmente rilevante se si pensa al fatto che quest’ultimo ha assunto una sempre maggiore centralità, ponendosi su un piano di pari-ordinazione rispetto alla contrattazione nazionale .
2. Norma inderogabile e contrattazione collettiva. – Superata la teoria, rimasta peraltro isolata in dottrina, secondo la quale legge e contratto collettivo dovevano ritenersi fonti regolative del rapporto di lavoro pari-ordinate , il rapporto fra legge e contratto collettivo è stato ricondotto al tradizionale binomio inderogababilità in pejus / derogabilità in melius, che individua la legge come fonte minimale di trattamento e demanda al contratto collettivo la possibilità di introdurre una disciplina migliorativa o integrativa, ma non peggiorativa, nei confronti del prestatore di lavoro.
È, tuttavia, innegabile che, nell’attuale assetto ordinamentale, il complesso rapporto tra legge e contrattazione collettiva non sia più riducibile al solo postulato della inderogabilità in pejus della norma legale da parte di quella contrattual-collettiva in quanto, nel tempo, la legge ha finito – seppur tra alti e bassi – per affidare alla contrattazione collettiva una molteplicità di funzioni.
Per quanto concerne la possibilità di derogare la norma inderogabile di legge, di funzione derogatoria in senso stretto si può parlare solo quando il tenore letterale della disposizione legale inderogabile consente di individuare con assoluta certezza la presenza di una facoltà di deroga concessa alla contrattazione collettiva.
In assenza, la deroga della norma legale da parte dell’autonomia negoziale collettiva non è consentita in quanto il postulato della inderogabilità della norma legale vale sia nei confronti dell’autonomia negoziale individuale che collettiva. Resta inteso che trattasi in ogni caso di inderogabilità in pejus, essendo sempre consentito alla fonte contratual-collettiva di introdurre un trattamento economico e normativo migliorativo nei confronti del prestatore di lavoro rispetto a quanto prescritto dal contenuto minimo legale inderogabile.
A complicare la questione del rapporto tra norma inderogabile di legge e autonomia negoziale collettiva contribuisce, altresì, la struttura pluri-livello della contrattazione collettiva.
Come abbiamo accennato, la giurisprudenza dominante ha àncorato l’inderogabilità in pejus del contratto collettivo all’art 2077 c.c. pur nella consapevolezza che il contratto collettivo cui faceva riferimento la disposizione codicistica era quello corporativo, fonte formale di norme giuridiche,
Successivamente, l’inderogabilità del contratto collettivo è stata fatta discendere da un’altra disposizione codicistica, l’art. 2113 c.c. che, disciplinando la sorte degli atti di rinunzia e transazione posti in essere dal lavoratore, ed aventi per oggetto diritti del prestatore di lavoro derivanti da disposizioni inderogabili della legge e dei contratti o accordi collettivi, avrebbe consacrato il principio di inderogabilità delle norme contrattual-collettive, non senza lasciare aperti, tuttavia, numerosi problemi applicativi .
È evidente che l’inderogabilità in pejius della norma inderogabile di legge da parte dell’autonomia negoziale collettiva riguarda tutti i livelli di contrattazione collettiva: interconfederale, nazionale di categoria, territoriale e aziendale. Il problema si pone, semmai, nel caso in cui la norma inderogabile affidi al contratto collettivo la funzione derogatoria, essendo in tale ipotesi necessario verificare a quale livello di contrattazione collettiva sia affidata la facoltà di deroga. Se è vero, come abbiamo detto, che i rinvii contenuti nelle disposizioni del D.lgs. n. 81/2015 si riferiscono, indistintamente, a meno che non sia previsto diversamente, alla contrattazione collettiva nazionale e decentrata è parimenti vero che nell’ordinamento è dato rinvenire disposizioni che, al contrario, individuano con precisione il livello dell’autonomia negoziale collettiva cui è rivolto il rinvio legale.
Ben più problematica appare l’individuazione del fondamento giuridico della inderogabilità del contratto collettivo nazionale da parte del contratto decentrato, territoriale o aziendale.
Premesso che nel nostro ordinamento non esiste una norma di legge che sancisca la sovraordinazione del contratto nazionale rispetto a quello aziendale – al punto che si potrebbe arrivare ad affermare che la legge abbia, per la prima volta, sancito tale principio “in negativo” proprio quando ha introdotto, con l’art. 8 del D.L. n. 138/2011, la possibilità per la “contrattazione di prossimità” di operare anche in deroga alle disposizioni di legge ed alle regolamentazioni contenute nei contratti collettivi nazionali di lavoro – la dottrina ha sistematizzato il rapporto tra diversi livelli di contrattazione collettiva in termini di concorso-conflitto tra fonti di diverso livello nella regolamentazione di un medesimo istituto ; conflitto risolto dalla giurisprudenza prevalente nel senso della inapplicabilità sia dell’art. 2077 c.c. sia del criterio di gerarchia tra contratti collettivi , che avrebbe postulato la prevalenza (e dunque la inderogabilità) del contratto collettivo riferito all’ambito più esteso (ossia il contratto collettivo nazionale).
Abbandonata l’idea di risolvere il conflitto-concorso tra fonti pari-ordinate utilizzando il criterio cronologico , in base al quale occorrerebbe affermare la prevalenza dell’ultimo contratto, sia esso nazionale o aziendale, “poiché esprimerebbe l’ultima e, conseguentemente, la più attendibile manifestazione di volontà delle parti interessate” , la giurisprudenza si è orientata verso il criterio della specialità, che postulerebbe la prevalenza del contratto aziendale, anche se peggiorativo rispetto a quello nazionale, in quanto maggiormente prossimo agli interessi da regolare ; criterio mitigato con il criterio della competenza e dell’autonomia, che legittima l’esercizio della facoltà di deroga in pejus da parte del contratto aziendale solo se la clausola derogatoria ha ad oggetto materie sulle quali il contratto è competente a disporre interpretando la volontà delle parti , nel rispetto dell’assetto generale del sistema contrattuale in cui si inserisce la clausola derogatoria .
Né appaiono dirimenti, nella soluzione del conflitto-concorso tra fonti contrattual-collettive pari-ordinate, le disposizioni in materia di rapporti tra contrattazione collettiva nazionale e decentrata previste dagli Accordi Interconfederali che disciplinano l’ordinamento intersindacale, e in particolare, da ultimo, dal Testo Unico sulla rappresentanza del 10 gennaio 2014 sottoscritto da Confindustria e Cgil-Cisl-Uil. L’Accordo prevede che la contrattazione collettiva aziendale si eserciti per le materie delegate e con le modalità previste dal contratto collettivo nazionale di lavoro di categoria o dalla legge lasciando aperta la strada di intese aziendali modificative delle disposizioni del contratto collettivo nazionale ma solo d’intesa con le relative organizzazioni sindacali territoriali.
In ogni caso, l’eventuale violazione da parte del contratto aziendale della delega conferita dal contratto nazionale o l’esercizio di una deroga non autorizzata o eccedente la facoltà derogatoria attribuita non pare inficiare in sé la validità della clausola del contratto collettivo aziendale ma pare rilevare solo nel terreno delle “relazioni industriali” .
3. Gli effetti della violazione della norma di legge inderogabile. – Ricostruita la portata del concetto di norma inderogabile nel diritto del lavoro, occorre chiedersi quali siano gli effetti “sanzionatori” che si determinano quando l’autonomia negoziale, sia individuale che collettiva, viola la norma inderogabile . La violazione di norme inderogabili di legge da parte dell’autonomia negoziale è stata tradizionalmente ricondotta al sistema delle nullità virtuali di cui all’art. 1418 c.c., in base al quale il contratto è nullo quando è contrario a norme imperative, salvo che la legge disponga diversamente.
Il raccordo con l’art. 1418, comma 1, c.c. consente di affermare che è priva di effetti la clausola contrattuale, frutto dell’autonomia privata, che confligge con la norma inderogabile in quanto è precluso all’autonomia privata il perseguimento di interessi in conflitto con quelli che la norma inderogabile mira a tutelare.
La dottrina prevalente ha, ben presto, definitivamente abbandonato l’opinione secondo cui il primo comma dell’art. 1418 c.c., debba essere considerata una norma di mero rinvio ad altre specifiche ipotesi di nullità testuali altrove disciplinate, giungendo alla conclusione che la funzione della norma è quella di comminare la nullità anche laddove la stessa non sia espressamente prevista dalla specifica disposizione violata.
Sulla conseguenza della declaratoria di nullità per contrasto con norme inderogabili, l’art. 1419 c.c. prevede due distinte alternative: se la nullità è parziale o riguarda singole clausole questa si estende all'intero contratto, qualora risulti che i contraenti non lo avrebbero concluso senza quella parte del suo contenuto che è colpita dalla nullità (comma 1).
Viceversa, se le clausole nulle sono sostituite di diritto da norme imperative, la nullità di singole clausole non importa la nullità del contratto (comma 2).
La seconda alternativa è, di gran lunga, prevalente nella prassi del diritto del lavoro. La declaratoria di nullità della clausola contrattuale, in tale ambito, non determina quasi mai la caducazione dell’intero negozio giuridico, bensì la sostituzione automatica della clausola violativa del precetto legale inderogabile con la norma imperativa, stante il combinato disposto dell’art. 1339 c.c. e dell’art. 1419, comma 2, c.c. .
Ovviamente, l’effetto di sostituzione automatica della clausola violativa della norma inderogabile è percorribile solo laddove esista una norma imperativa nel medesimo ambito nel quale si è espressa l’autonomia negoziale .
4. Norma inderogabile e clausole di decadenza nei contratti collettivi. – Posta in termini generali la questione della inderogabilità della norma di legge nel diritto del lavoro, occorre ora indagare la legittimità delle clausole dei contratti collettivi di lavoro che introducono dei termini di decadenza per il lavoratore nell’esercizio di determinati diritti .
Nel nostro ordinamento giuslavoristico sono presenti diverse ipotesi di decadenza legale: basti pensare al termine di sessanta giorni entro il quale il lavoratore deve impugnare stragiudizialmente il licenziamento ai sensi dell’art. 6, Legge n. 604/1966; oppure al termine semestrale entro cui il lavoratore può chiedere l’annullamento delle rinunce e transazioni aventi ad oggetti diritti derivanti da norme inderogabili di legge o dei contratti collettivi ex art. 2113 c.c..
Nell'ambito della tematica della decadenza nel diritto del lavoro, si discute in dottrina circa la legittimità delle clausole di decadenza contenute nei contratti collettivi, sia di livello nazionale che di livello aziendale, con cui si introducono dei termini di decadenza per l’esercizio di determinati diritti (solitamente di natura economica) del lavoratore.
Innanzitutto occorre chiedersi se l'introduzione di clausole di decadenza da parte dei contratti collettivi possa confliggere con l'art. 2968 c.c. secondo il quale le parti non possono modificare la disciplina legale della decadenza né possono rinunziare alla decadenza medesima se questa è stabilita dalla legge in materia sottratta alla disponibilità delle parti. In verità tale norma non pare precludere la possibilità delle parti di introdurre termini di decadenza per l'esercizio dei diritti patrimoniali del prestatore di lavoro in quanto i predetti diritti devono essere ricondotti alla categoria della inderogabilità ma non a quella della indisponibilità , a condizione, ovviamente, che siano già entrati nella sfera giuridica del lavoratore, al quale è precluso rinunziare a diritti eventuali e futuri.
Chiarito questo aspetto la dottrina ha, dunque, ricondotto le clausole di decadenza dei contratti collettivi nell'articolo 2965 c.c. che prevede la nullità del patto con cui si stabiliscono termini di decadenza che rendono eccessivamente difficile a una delle parti l'esercizio del diritto. Alla luce di questa ricostruzione sistematica, la giurisprudenza ha ritenuto che la clausola del contratto collettivo che introduca un termine decadenziale per l'esercizio dei diritti patrimoniali del prestatore di lavoro debba essere sottoposta ad un doppio vaglio di legittimità nei confronti di norme inderogabili di legge.
Innanzitutto occorre verificare se il termine decadenziale introdotto dalle parti sia rispettoso del requisito di congruità di cui all'art. 2965 c.c., ovvero, non sia tale da rendere eccessivamente difficile l'esercizio del diritto.
Tale verifica è rimessa al giudice di merito, il quale deve, in ogni caso aver riguardo alla brevità del termine ed alla particolare situazione del soggetto obbligato a svolgere l'attività prevista per evitare la decadenza . Inoltre, tale valutazione di congruità deve tenere in debita considerazione precipuamente la connaturale condizione di inferiorità del lavoratore nel rapporto nei confronti del datore di lavoro alla luce della quale si è determinata la giurisprudenza della Corte costituzionale e della Cassazione che ha fissato il principio della non decorrenza della prescrizione per i crediti retributivi durante tutto il corso del rapporto di lavoro, quando questo non è dotato di stabilità .
La verifica circa la congruità ex art. 2965 c.c. deve essere effettuata utilizzando, come parametro di riferimento, il termine semestrale fissato dall'articolo 2113 c.c. per l'impugnazione delle rinunce e transazioni aventi ad oggetto diritti derivanti da norme inderogabili di legge o di contratto collettivo, con l’effetto di ritenere la nullità della riduzione convenzionale di detto termine semestrale, all’esito di una operazione di assimilazione dell'inerzia del lavoratore, che non si attiva per evitare il decorso del termine decadenziale, ad una implicita rinunzia del medesimo . In tale ipotesi, la clausola contenente il termine decadenziale inferiore a sei mesi, nulla per contrasto con l’art. 2113 c.c., è sostituita di diritto, ai sensi del comma 2 dell'art. 1419 c.c., dalla norma imperativa violata, e cioè dall'art. 2113 c.c., nel senso che l'inerzia del lavoratore, consistita nella mancata richiesta delle sue spettanze entro il termine previsto dalla pattuizione collettiva, fa presumere una rinuncia del lavoratore medesimo, che è impugnabile nel termine di tre o sei mesi dalla cessazione del rapporto di lavoro, ai sensi dello stesso art. 2113 c.c. nel testo, rispettivamente, anteriore o successivo all'entrata in vigore dell'art. 6 della legge n. 533 del 1973 .
Sotto distinto profilo, la clausola contrattuale di decadenza dovrebbe essere valutata anche con riferimento all’individuazione del dies a quo del termine decadenziale, a partire dal quale inizia a decorrere il termine introdotto per via pattizia entro il quale il lavoratore può far valere i propri diritti. In tale ottica dovrebbe essere ritenuta contraria al principio di congruità di cui all’art. 2965 c.c. una clausola di decadenza contrattuale che preveda la decorrenza del termine decadenziale nel corso del rapporto di lavoro, nell'ambito di un rapporto contrattuale sprovvisto di stabilità reale, sulla base dei principi espressi, con riferimento al differente istituto della prescrizione, dalla Corte Costituzionale.
A tale conclusione la giurisprudenza giunge equiparando la decadenza dell'esercizio di un diritto ad una rinuncia di fatto, ex art. 2113 c.c., con un ragionamento del tutto analogo a quello seguito dalla Corte Costituzionale in materia di prescrizione dei crediti retributivi del lavoratore in costanza di rapporto di lavoro. In tale ipotesi, peraltro, la nullità investirebbe l’intera clausola di decadenza pattizia e non soltanto la parte di essa che prevede la decorrenza della decadenza in costanza di rapporto di lavoro, in quanto l'art. 1419 c.c. regola la nullità di singole clausole nel loro rapporto con l'intero contratto e non anche la nullità di una parte o di un elemento della singola clausola nel suo rapporto, reciprocamente integrativo, con l'altra parte o con altro elemento della stessa clausola .
La seconda verifica, relativa all'individuazione del dies a quo dal quale decorre il termine decadenziale, deve invece essere effettuata distinguendo rapporti di lavoro sorretti da stabilità reale e rapporti di lavoro ai quali si applica la tutela meramente obbligatoria in caso di licenziamento illegittimo. Nel primo ambito, la clausola contrattuale di decadenza potrà dirsi legittima anche se prevede che il termine decadenziale decorre in costanza di rapporto, stante l’assenza del metus del prestatore di lavoro di subire la risoluzione del rapporto stesso. Nel secondo caso, invece, la clausola contrattuale è legittima solo se prevede che la decadenza decorra solo dalla data di cessazione del rapporto di lavoro, stante la sussistenza del metus.
Un ulteriore profilo problematico può essere rappresentato dal fatto che la clausola di decadenza convenzionale è prevista dalla contrattazione decentrata (e non da quella nazionale). Occorre, infatti, notare che la giurisprudenza di legittimità ha scrutinato, generalmente, clausole di decadenza introdotte dalla contrattazione collettiva di livello nazionale (in particolare, il c.c.n.l. per gli addetti all’industria edilizia ed il c.c.n.l. per i dipendenti dell’Enel).
Ferma restando la verifica del possibile conflitto tra la norma contrattuale e l’art. 2965 c.c., da operarsi tramite il parametro dell’art. 2113 c.c., la disposizione del contratto collettivo aziendale potrebbe in qualche misura essere censurata anche per contrasto con il contratto collettivo nazionale laddove, ad esempio, la fonte nazionale non preveda alcun termine decadenziale per l’esercizio di determinati diritti e, invece, una siffatta clausola – atta ad introdurre senza dubbio un trattamento peggiorativo per il lavoratore – sia introdotta dal contratto aziendale.
La questione non può che essere risolta facendo ricorso al conflitto-concorso tra fonti collettive pari-ordinate che disciplinano un medesimo rapporto giuridico e la soluzione dipende, dunque, dal criterio di risoluzione del conflitto (tra quelli astrattamente applicabili) che si intende adottare.
Quel che non appare discutibile è che l’art. 2965 c.c. sia indistintamente riferibile sia ai contratti collettivi nazionali sia a quelli aziendali, facendo un generico riferimento ai patti introduttivi di clausole di decadenza, nella cui nozione ben possono rientrare tutte le espressioni dell’autonomia negoziale, sia individuale che collettiva.
Un ulteriore profilo problematico concerne l’efficacia soggettiva del contratto aziendale che introduca una clausola di decadenza convenzionale. Sul punto si sottolinea che sia la giurisprudenza sia le norme di autoregolazione adottate dalle parti sociali nell’ambito dell’ordinamento intersindacale ritengono ormai, pacificamente, che l’accordo aziendale ha efficacia generale soggettiva nei confronti di tutti i lavoratori, eccezion fatta per coloro che aderiscono al sindacato non firmatario di quell’accordo e per i lavoratori dissenzienti. Questi ultimi, in particolare, possono agire per far accertare l’inefficacia del contratto aziendale nei loro confronti .
5. Nota critica ad App. Trento, 13 febbraio 2020, n. 12. – Nel dibattitto relativo alle clausole di decadenza introdotte dai contratti collettivi si colloca la recente decisione della Corte d’Appello di Trento del 13 febbraio 2020, n. 12. La Corte trentina ha ritenuto nulla la clausola contenuta in un contratto collettivo aziendale che prevedeva una clausola di decadenza semestrale per la richiesta del pagamento delle differenze retribuite, decorrente in costanza di rapporto di lavoro. La Corte motiva la declaratoria di nullità della clausola contrattuale con il contrasto rispetto all’art. 2113 c.c. in quanto la norma codicistica prevede che il termine semestrale per l’impugnazione delle rinunce e transazioni aventi ad oggetto diritti derivanti da norme inderogabili di legge e di contratto collettivo decorra a partire dalla data di cessazione del rapporto di lavoro o dalla data successiva della rinuncia o della transazione. Nella motivazione della sentenza, la Corte d’Appello ritiene questo rilievo assorbente al fine di considerare la clausola di decadenza prevista dal contratto collettivo aziendale “nulla e come tale non apposta poiché in contrasto con norma imperativa”. Tale conclusione appare opinabile per due fondamentali ragioni.
Innanzitutto nel ragionamento seguito dalla Corte è assente qualsiasi riferimento alla disposizione codicistica da assumere come parametro nella declaratoria di nullità per contrasto con norme imperative della clausola di decadenza convenzionale, ossia, l’art. 2965 c.c. La Corte, tralasciando ogni accenno a tale disposizione, ipotizza un contrasto diretto tra la clausola di decadenza pattizia e l’art. 2113 c.c. In realtà, nell’iter seguito dalla giurisprudenza, il termine decadenziale semestrale di cui all’art. 2113 c.c. viene assunto come parametro al fine di verificare se la clausola di decadenza contrattuale sia o meno congrua, ovvero, renda o meno alla parte eccessivamente difficoltoso l’esercizio del diritto come prescritto dall’art. 2965 c.c.. In secondo luogo, con riferimento ad un rapporto di lavoro al quale si applica la disciplina sanzionatoria in caso di licenziamento illegittimo di cui all’art 18, Stat. Lav., appare discutibile affermare l’automatica nullità per contrasto con l’art. 2113 c.c., di qualsiasi clausola di decadenza contrattuale che preveda il decorso del termine decadenziale in costanza di rapporto, per il solo fatto che tale regime di decorrenza si differenzia da quello previsto dalla disposizione codicistica sulle rinunce e transazioni, che prevede la decorrenza del termine decadenziale semestrale solo a seguito della cessazione del rapporto di lavoro.
Affermare che, alla luce delle recenti modifiche apportate alla disciplina dei licenziamenti, anche nei rapporti di lavoro cui si applica, in caso di declaratoria giudiziale della illegittimità del licenziamento, l’art. 18 Stat. Lav., la prescrizione dei crediti retributivi non decorre in costanza di rapporto – da cui si dedurrebbe, mutatis mutandis, che nemmeno i termini decadenziali possono decorrere durante il rapporto di lavoro – appare quanto mai discutibile se non altro poiché si deve registrare, in seno alla giurisprudenza di merito, un profondo contrasto di vedute dal quale emerge che, su questo punto, siamo ben lontani dall’essere giunti ad un approdo definitivo .
Se è vero che in numerose pronunce, di cui alcune richiamate dalla Corte, è stato affermato che le modifiche apportate dalla Legge n 92/2012 all’art. 18 Stat. Lav. hanno fatto tramontare quel regime di stabilità reale che consentiva di escludere il metus e determinava dunque il decorso della prescrizione dei crediti retributivi del lavoratore anche in costanza di rapporto , occorre parimenti menzionare nette prese di posizione in senso diametralmente opposto, spesso in seno ai medesimi uffici giudiziari .
La conclusione cui è giunta la Corte d’Appello di Trento non è, dunque, affatto scontata. Diversamente argomentando, nel caso scrutinato, la clausola di decadenza contrattuale ben avrebbe potuto ritenersi legittima, in quanto rispettosa del termine semestrale previsto dall’art. 2113 c.c. e utilizzato dalla giurisprudenza come parametro per verificare il rispetto dell’art. 2965 c.c.
5. Conclusioni – L’inderogabilità della norma di legge rappresenta ancora oggi uno dei capisaldi del diritto del lavoro in quanto corollario indefettibile dell’esigenza di protezione della parte debole nel rapporto di lavoro da cui trae origine la stessa nascita del diritto del lavoro. Prescrizione e decadenza presentano, da sempre, un nesso indissolubile con la funzione di protezione del contraente debole propria del diritto del lavoro, in quanto tali istituti finiscono per incidere direttamente sulla possibilità del lavoratore di far valere i diritti conferitigli dalla norma inderogabile di legge o di contratto collettivo. Non può negarsi, tuttavia, che anche la certezza dei rapporti giuridici costituisca un principio di primario rilievo nel nostro ordinamento, parimenti meritevole di tutela, ed è proprio per soddisfare questa esigenza che l’autonomia negoziale collettiva ha previsto talvolta delle clausole di decadenza pattizia che prevedono l’introduzione di termini decadenziali per l’esercizio dei diritti da parte dei prestatori di lavoro. Un giusto bilanciamento dei vari interessi in gioco renderebbe necessario un assetto quanto mai ordinato della materia ed, invece, occorre constatare che le forti incertezze che caratterizzano la materia della prescrizione dei crediti retributivi del lavoratore e, in particolare, l’individuazione della decorrenza della prescrizione durante o dopo la cessazione del rapporto, influenzano anche la materia della decadenza, rendendo dubbia la legittimità delle clausole contrattuali che introducono ipotesi di decadenza pattizia.