1. La solidarietà espansiva dinanzi alla sfida dell’innovazione tecnologica: dal 1984 sino all’odierno contratto di espansione.
L’istituto del contratto di solidarietà è presente nel dibattito giuslavoristico italiano sin dagli anni Ottanta, con la sua originaria introduzione nel c.d. “protocollo Scotti” del 22 gennaio 1983 per poi trovare la propria regolamentazione con il d.l. 30 ottobre 1984, n. 726, convertito dalla l. 19 dicembre 1984, n. 863. Mutuato dall’esperienza francese di quegli anni, il contratto di solidarietà avrebbe dovuto supplire alle eventuali situazioni di crisi economica dell’impresa o di stagnazione di nuova occupazione tramite una riduzione generalizzata dell’orario di lavoro dei lavoratori, supportata nel primo caso da un trattamento integrativo statale, con un corrispondente risparmio retributivo per il datore di lavoro con il quale avrebbe dovuto finanziare nuove assunzioni o evitare licenziamenti.
Eppure, durante la sua vigenza ultratrentennale, il ricorso al contratto di solidarietà è stato minimo, sia nella sua funzione difensiva come causale per il ricorso alla Cassa integrazione guadagni straordinaria (Cigs) sia nella sua versione espansiva, finalizzata all’incremento degli organici con nuove assunzioni tramite una temporanea riduzione o sospensione dell’attività lavorativa. Tanto che si è arrivati a definire quest’ultima come una mera “ipotesi di scuola” o, più recentemente, alla stregua un “oggetto misterioso”, incapace, a quanto consta, di produrre effetti tangibili . Parimenti, la versione difensiva, prevista per realizzare forme di condivisione fra lavoratori delle sopravvenienze negative, tramite la suddetta riduzione dell’orario di lavoro, ha registrato un limitato ricorso a causa di un intricato sistema normativo che, sommato alla bassa integrazione salariale concessa e all’assenza di benefici per i datori di lavoro, aveva reso preferibile il ricorso alla cassa integrazione ordinaria o straordinaria.
Conscio della necessità di rivitalizzare l’istituto della solidarietà , specialmente nella versione espansiva, e promuoverne l’utilizzo in un’ottica assunzionale, il Legislatore aveva proposto una sua rivisitazione all’interno del generale riordino degli ammortizzatori sociali, previsto dalla L. delega n. 183/2014 e attuato dal D.lgs. n. 148/2015.
In primo luogo, il Legislatore aveva rifinanziato il contributo mensile decrescente per ogni nuovo assunto all’interno di una unità produttiva interessata da una riduzione dell’orario di lavoro pari al 15% della retribuzione lorda prevista dal contratto collettivo applicabile per il primo anno. Contributo sostituito, invece, da uno sgravio contributivo triennale per l’assunzione di giovani (15-29 anni) . In secondo luogo, la disciplina del 2015 prevedeva per i lavoratori con un’età inferiore a quella prevista per la pensione di vecchiaia di non più di 24 mesi - che avessero maturato il minimo contributivo per quest’ultima - la possibilità di trasformare il proprio rapporto di lavoro da tempo pieno in tempo parziale, in misura non superiore al 50% dell’orario di lavoro, e conseguire il trattamento pensionistico. Una misura ispirata alla logica dell’invecchiamento attivo che avrebbe consentito al datore di lavoro di mantenere, seppure parzialmente, l’esperienza di questi lavoratori avviati verso il pensionamento all’interno del proprio organico per altri due anni sotto forma di affiancamento o mentoring , ed avrebbe garantito a questo lavoratore la possibilità di cumulare il trattamento pensionistico anticipato con la retribuzione nel limite massimo della somma corrispondente al trattamento retributivo perso.
Pur avendo previsto specifici sgravi per i nuovi assunti e una disciplina speciale per i lavoratori c.d. pensionabili, la disciplina rivista nel 2015 non ha avuto gli effetti sperati. In primo luogo, non erano presenti benefici tangibili per i lavoratori che avessero accettato, tramite l’intervento delle OO.SS., la riduzione dell’orario lavorativo . Allo stesso tempo, dal punto di vista datoriale non vi era alcun deterrente né obbligo ad assumere l’esatto numero di lavoratori concordati con le OO.SS. in cambio di tale riduzione. Similmente non esisteva alcun obbligo, in capo al datore, di presentare un dettagliato programma industriale, legato a riduzioni dell’attività lavorativa e assunzioni, su cui le OO.SS. potessero intervenire con azioni collettive o scioperi .
Secondo il Legislatore del 2015, invece, il combinato disposto degli interventi proposti all’interno del contratto di solidarietà espansiva avrebbe dovuto favorire il ricambio generazionale all’interno dell’impresa incentivato da un lato da forme di prepensionamento, seppur sotto forma di parziale riduzione dell’orario di lavoro, e dall’altro da nuove assunzioni che avrebbero dovuto ovviare al problema della disoccupazione giovanile.
Stante i deludenti risultati post-riforma del 2015 con riguardo al contratto di solidarietà nella sua versione espansiva , il Legislatore, nel 2019, ha deciso di ridisegnare i contorni di tale istituto attraverso una revisione integrale della disciplina, modificandone la ratio, il suo posizionamento a cavallo delle politiche attive e passive e legandolo a progetti di riorganizzazione industriale e turnover occupazionale caratterizzati da una rilevante connotazione tecnologico-digitale. In tale contesto non stupisce, quindi, l’intenzione del Legislatore di rinnovare anche il nome di questo istituto, da ora denominato “Contratto di espansione”.
2. La disciplina del contratto di espansione e le tre direttrici di intervento: transizione tecnologica, riorganizzazione aziendale e occupazione.
Il contratto di espansione introdotto dal c.d. Decreto crescita, precisamente dall’art. 26-quater, comma 1, d.l. n. 34/2019 che modifica l’art. 41 d.lgs. n. 148/2015, va a sostituire totalmente il contratto di solidarietà espansiva ponendosi come strumento a cavallo tra le politiche attive e passive all’interno di processi di reindustrializzazione “finalizzati al progresso e allo sviluppo tecnologico dell’impresa” . A seguito dell’integrale rivisitazione del 2019, questo istituto dovrebbe svolgere il duplice ruolo di ammortizzatore sociale e di strumento di rinnovamento sia umano che professionale della forza lavoro dell’impresa coinvolta.
Per quanto concerne il primo ruolo, l’istituto mira a garantire un supporto economico tramite il suo stretto collegamento con la CIGS, finanziata con un ingente impegno statale, durante i processi di riorganizzazione e reindustrializzazione dell’impresa, con la conversione tecnologico-digitale di alcune attività aziendali anche nel core business. In tal modo si eviterebbe quanto già successo in passato, quando la riduzione dell’orario di lavoro dei lavoratori coinvolti in contratti di solidarietà espansiva non era accompagnata dalla fruizione di alcun trattamento integrativo con il conseguente limitato ricorso a tale istituto.
Allo stesso tempo, la disciplina del contratto di espansione sancisce un netto cambio di passo voluto dal Legislatore verso l’innovazione tecnologica nell’impresa, non solo per quanto riguarda l’attività lavorativa e le eventuali innovazioni apportate alla sua struttura produttiva, ma, soprattutto, con riferimento alle competenze in possesso dell’attuale forza lavoro. Per i lavoratori interessati da tale contratto viene reso obbligatorio un investimento nella formazione e adeguamento delle proprie competenze professionali da parte del datore di lavoro, con un’attenzione espressamente dedicata ai cambiamenti tecnologici. Risulta ormai evidente che le aziende debbano avere gli strumenti adeguati per affrontare la c.d. “sfida delle competenze” , richiesta dalla ormai nota Industria 4.0, dalla digitalizzazione dei processi e dalla crescente presenza dell’intelligenza artificiale nelle attività di impresa. Senza investimenti nell’aggiornamento o acquisizione di nuove competenze, non sarebbe possibile affrontare i cambiamenti richiesti dalla rapida trasformazione del lavoro e dall’ingresso sempre più massiccio della tecnologia nei processi produttivi. Questo rinnovamento delle competenze professionali all’interno dell’azienda, si lega a doppio filo con l’obiettivo del ricambio generazionale della forza lavoro di cui il contratto di espansione si fa promotore. Tale obiettivo è supportato da un piano di assunzione di nuovi lavoratori, anche giovani, in possesso di nuove professionalità e incentivato da un programma di prepensionamento del personale eccedentario, in possesso di determinati requisiti anagrafico-contributivi e con competenze difficilmente aggiornabili.
Una tendenza verso la transizione tecnologica e il ricambio generazionale sia a livello di organico che di competenze professionali che caratterizza esplicitamente il contratto di espansione e che lo rende uno strumento dal forte carattere innovativo, tanto che il Ministero del Lavoro e delle Politiche sociali lo considera “un propulsore di crescita interna e della competitività in ambito esterno” per le grandi aziende che, almeno inizialmente, dovevano essere le uniche beneficiarie di tale istituto.
In questa prospettiva sembra utile osservare alcuni elementi di una disciplina che, essendo ad oggi ancora sperimentale, ha subito già diverse revisioni.
Nell’originaria versione del contratto di espansione del 2019 le aziende che avrebbero potuto siglare tale accordo dovevano avere un organico superiore a 1000 unità lavorative nel semestre precedente, potendo far rientrare nel computo sia i dirigenti che gli apprendisti ed escludendo i lavoratori somministrati e i tirocinanti. Nell’ottica di ampliare la platea di beneficiari e non limitarne l’applicazione solo per le grandi imprese - sebbene ad oggi siano le uniche ad aver stipulato tali accordi - il Legislatore ha via via rivisto il requisito dimensionale riducendolo a 500 , 250 , 100 e, infine, 50 unità lavorative per il biennio 2022/2023 come prevede la Legge di Bilancio per l’anno 2022 .
Alla riduzione del requisito dimensionale è stato anche affiancato il rinnovo della sperimentazione del contratto di espansione dato che inizialmente era previsto solo per il biennio 2019-2020 ed ora, invece, esteso e rifinanziato fino al 2023. Segnale, questo, dell’interesse ministeriale di garantire un adeguato orizzonte temporale alle imprese per usufruire di tale istituto e predisporre soddisfacenti piani industriali, anche in seguito agli effetti della pandemia. Proprio con riferimento alla pandemia e ai suoi effetti negativi sul mercato del lavoro, il Contratto di espansione sembrerebbe ergersi a possibile soluzione per affrontare le sempre più frequenti crisi industriali e traghettare il personale più prossimo al pensionamento, riducendo il costo del personale per le imprese coinvolte e compensando, almeno parzialmente, tali “uscite” con assunzioni di nuove professionalità e capabilities o garantendo percorsi di riqualificazione per coloro che sono già occupati nell’impresa. Allo stesso tempo appare chiara la volontà del Legislatore di poter avere un più lungo orizzonte temporale di applicazione per poterne analizzare gli effetti sul piano dei costi e benefici e valutare una sua successiva stabilizzazione.
Sia le modifiche apportate sul piano dimensionale che su quello temporale, pur con maggiori oneri finanziari per lo Stato, mostrano una certa adattabilità di questo strumento; una caratteristica non rintracciabile nell’esperienza precedente dei contratti di solidarietà espansiva.
Simile all’esperienza precedente è, invece, la natura “gestionale” del contratto di espansione , espressamente richiamata dalla definizione contenuta nel secondo comma dell’art. 41 d.lgs. n. 148/2015. Difatti, questo è un accordo collettivo con struttura trilaterale (impresa, sindacato, governo) stipulato con le associazioni sindacali comparativamente più rappresentative sul piano nazionale o con le loro RSA o RSU, in sede governativa in seguito ad una procedura di consultazione che segue le modalità e i termini dettati dall’art. 24 D.lgs. n. 148/2015. Proprio la procedura condivisa con quella di concessione delle integrazioni salariali svelerebbe l’intenzione del Legislatore di assicurarne l’efficacia generalizzata e fa rientrare il contratto di espansione nell’alveo dei c.d. contratti collettivi di procedimentalizzazione dei poteri datoriali .
Questo accordo collettivo è, come detto, stipulato al ricorrere di esigenze di riorganizzazione e reindustrializzazione dell’impresa, non per forza legate ad un’eccedenza di personale, e soltanto su iniziativa del datore di lavoro. Quest’ultimo è tenuto ad avviare una procedura di consultazione sindacale con le associazioni sindacali comparativamente più rappresentative sul piano nazionale o le loro RSA o RSU che dovrà concludersi entro i venticinque giorni successivi alla comunicazione di inizio del procedimento ex art. 24 D.lgs. n. 148/2015. A seguito di tale iter procedurale si dovrebbero definire una serie di azioni da intraprendere in un determinato lasso di tempo - non fissato per legge - ed inserite in un piano industriale. Quest’ultimo è composto da diverse azioni, sinergiche tra loro, basate sulle tre diverse direttrici di intervento e obiettivi che caratterizzano il contratto di espansione e plasmate sulla specificità e peculiarità dell’impresa: transizione tecnologica, riorganizzazione aziendale e occupazione. In tale prospettiva deve essere visto l’inserimento nel piano industriale di un programma di esodo per i lavoratori prossimi alla pensione bilanciato da un piano di nuove assunzioni e dalla riduzione dell’orario di lavoro, i cui oneri sono a carico delle casse dello Stato, e contestuale previsione di un progetto formativo e di riqualificazione del personale dipendente.
Per quanto concerne la riduzione dell’attività lavorativa, questa è fissata dal legislatore in un periodo massimo di 18 mensilità, anche frazionate nel tempo, con la concessione del trattamento di integrazione salariale straordinario per i lavoratori coinvolti con il richiamo alla causale della riorganizzazione aziendale come previsto dall’art. 21, comma 1, lett. a, d.lgs. n. 148/2015. Tale periodo di 18 mensilità è chiaramente in deroga rispetto agli articoli 4 e 22 d.lgs. n. 148/2015, evidenziando una netta differenza sia sotto il profilo della procedura che della ratio con le situazioni concernenti le mere crisi aziendali.
La riduzione non deve essere superiore al trenta per cento dell’orario giornaliero, settimanale o mensile o al 100% nell’ipotesi di una sospensione dell’attività lavorativa nell’arco dell’intero periodo in cui il contratto di espansione è stipulato e deve essere contestuale all’avvio di processi di riqualificazione e formazione dei lavoratori le cui competenze e conoscenze saranno rese non più idonee dal processo di reindustrializzazione e riorganizzazione in atto nell’impresa. In tale logica, la riduzione dovrà essere programmata nel contratto di espansione indicando quali qualifiche e profili professionali debbano essere coinvolti dovendo anche rispettare una certa correlazione con i programmi di formazione offerti dall’impresa . Difatti, per poter accedere al trattamento garantito dalla CIGS, l’impresa dovrà indicare i contenuti formativi e le modalità attuative della formazione, il numero di lavoratori interessati, il numero di ore di formazione, le competenze tecnico-digitali iniziali e finali e le previsioni di recupero occupazionale
La formazione programmata nel piano industriale deve essere offerta simultaneamente ai periodi di riduzione dell’orario lavorativo e agli stessi lavoratori coinvolti da tale regime orario, non essendo permesso alcun scostamento tra i due periodi né un’anticipazione dell’uno rispetto all’altro. Un meccanismo necessario per evitare atteggiamenti elusivi da parte delle imprese e non rischiare di snaturare l’impianto del contratto stesso. Il progetto di formazione e riqualificazione, atto ad aggiornare e far evolvere le competenze nell’impresa, dovrà essere basato sull’analisi dei fabbisogni formativi aziendali, avvalendosi anche del sostegno finanziario dei fondi interprofessionali o del Fondo Nuove Competenze. Tale offerta formativa dovrà anche essere certificata da un ente terzo, senza distinzione tra enti pubblici o privati, e può essere svolta anche direttamente “on the job” con prove pratiche impartite da lavoratori della stessa impresa, garantendo così una maggior percentuale di integrazione salariale straordinaria pari al 100% dell’orario di lavoro ridotto, come disposto dal settimo comma del novellato art. 41 D.lgs. 148/2015. Allo stesso tempo, nel caso in cui la formazione non fosse somministrata all’interno dell’impresa, tale attività dovrà essere garantita previa certificazione, utilizzabile dal lavoratore in caso di eventuale ricollocazione ex art. 24 d.lgs. n. 148/2015, e potrebbe riguardare anche l’apprendimento di nuove competenze tecniche professionali così come la creazione o riconversione di nuove professionalità interne all’impresa e destinate a nuove mansioni o l’aggiornamento rispetto alle nuove innovazioni – di prodotto o di processo – adottate dall’impresa nell’ampio progetto di reindustrializzazione, riorganizzazione e transizione tecnologica.
2.1. Il turnover sotto il profilo generazionale: piano di esodo incentivato e nuove assunzioni.
Oltre a svolgere il ruolo di promotore di nuove professionalità all’interno dell’azienda coinvolta, tramite l’azione combinata di progetti formativi con predisposizione all’innovazione e riduzione dell’orario di lavoro - ripartendo gli oneri tra Stato e impresa - il Contratto di espansione si pone anche come modello “virtuoso” di ricambio generazionale. Virtuoso, in quanto capace di stimolare l’uscita di lavoratori vicini alla pensione bilanciando, almeno parzialmente, la riduzione della forza lavoro nell’impresa. Tale contratto, nelle intenzioni del Legislatore, dovrebbe essere capace di rinnovare il mix produttivo e di competenze all’interno di quest’ultima, combinando, da un lato, un programma di esodo anticipato dei lavoratori più prossimi alla pensione e, dall’altro, un piano di nuove assunzioni. Secondo il XXII Rapporto CNEL sul mercato del lavoro e contrattazione collettiva, l’istituto in parola dovrebbe favorire “il passaggio di consegne fra una popolazione anziana da mantenere attiva e i giovani da inserire nelle nuove professioni” combinando un “uso mirato degli ammortizzatori e della formazione in azienda per permettere una staffetta generazionale e forme di pensionamento graduale, invece del pure e semplice prepensionamento, con risultati più utili sia alla occupazione e al benessere delle persone sia alla produttività delle imprese e del Paese” . Tale obiettivo mostra un elevato grado di sinergia delle varie direttrici che compongono questo istituto, dove il tema del turnover generazionale, ed il corrispettivo scivolo pensionistico, è tra quelli di maggior interesse per le imprese che si stanno impegnando in una forte riorganizzazione e reindustrializzazione dei propri processi produttivi.
Per quanto concerne i piani di prepensionamento o esodo anticipato, possono aderirvi quei lavoratori con un’età anagrafica non inferiore ai sessantadue anni, cioè entro 60 mesi dall’accesso alla pensione di vecchiaia e con almeno 20 anni di contribuzione, o entro 60 mesi dall’accesso alla pensione anticipata, sottoscrivendo un accordo individuale con l’impresa interessata dal contratto di espansione. Un accordo che deve essere stipulato secondo la procedura dei licenziamenti di natura non oppositiva e depositato secondo le modalità telematiche stabilite dal d.m del 23 marzo 2016 .
Tale accordo comporta la risoluzione del rapporto di lavoro con il pagamento da parte dell’impresa di un’indennità mensile pari al trattamento pensionistico lordo maturato dal lavoratore al momento della cessazione e sino al primo diritto alla pensione, anticipata o di vecchiaia. L’ indennità lorda è calcolata dall’INPS al momento della risoluzione del contratto di lavoro e sarà a carico del datore di lavoro o attraverso i fondi di solidarietà bilaterali come previsto dall’art. 26 d.lgs. n. 148/2015 già costituiti o futuri senza dover apportate modifiche ai propri statuti .
Il carattere innovativo di tale istituto è rintracciabile nell’esplicita previsione secondo cui l’indennità mensile spettante al lavoratore interessato da questo piano di esodo incentivato sia comprensiva anche della NASpI fino ad un massimo di 24 mensilità . Ciò comporta che l’indennità versata dal datore di lavoro sarà pari alla differenza tra il trattamento lordo calcolato dall’INPS e la NASpI ricevuta dal lavoratore, rendendo conveniente per l’impresa questo prepensionamento. Non sorprende, dunque, che il datore di lavoro possa essere portato a negoziare con le parti sindacali il criterio della vicinanza temporale alla quiescenza, entro i due anni, per l’individuazione dei possibili lavoratori c.d. pensionabili per sfruttare interamente il sussidio NASpI, così da rendere meno oneroso il trattamento integrativo da parte datoriale. Situazione, però, completamente ribaltata nel caso del contratto di espansione stipulato tra Stellantis e le diverse sigle sindacali, dove i primi a poter sottoscrivere l’accordo di prepensionamento, dopo la validazione delle domande da parte dell’INPS, saranno quelli che, pur soddisfacendo i vari requisiti sopra riportati, sono comunque più distanti di altri dal raggiungimento della pensione di vecchiaia o anticipata . Un altro segnale, questo, dell’adattabilità del contratto di espansione, capace di rispettare le specificità non solo dell’azienda coinvolta nel processo riorganizzativo ma anche della propria forza lavoro e delle richieste presentate in fase consultiva dalle sigle sindacali.
Oltre ad usufruire dello “sconto” garantito dalla NASpI sul piano dell’integrazione mensile per un periodo massimo di due anni, il datore di lavoro non deve neanche versare i contributi previdenziali utili al conseguimento del diritto a pensione anticipata, in quanto la quota contributiva sarebbe già coperta da quella figurativa garantita dal trattamento NASpI. Oltre il periodo del trattamento NASpI, però, il datore di lavoro dovrà versare mensilmente la quota del trattamento pensionistico lordo e l’eventuale contribuzione correlata fino al raggiungimento del primo diritto a pensione, dovendo presentare all’INPS adeguata fideiussione bancaria per garantire la propria solvibilità. Nel caso della pensione di vecchiaia, invece, il datore dovrà solo versare mensilmente la quota del trattamento pensionistico lordo, al netto di quanto già scontato dalla fruizione della NASpI nei primi due anni e poi nella totalità per i restanti 3 anni o fino a raggiungimento dei 67 anni di età .
Nell’ottica di bilanciare i programmi di esodo incentivato nelle aziende di grandi dimensioni, con organico pari o superiore a 1000 ed impegnate in piani di ristrutturazione di particolare rilevanza nazionale ed in linea con i programmi europei come quelli del Next Generation EU , il Legislatore ha previsto un ulteriore periodo di 12 mesi di durata del trattamento NASpI sempre ad integrazione del trattamento pensionistico lordo che il datore di lavoro dovrebbe versare al lavoratore c.d. pensionabile. Per ricevere tale riduzione, aggiuntiva a quella già prevista per un massimo di due anni per la NASpI c.d. ordinaria, l’impresa deve impegnarsi ad effettuare almeno un’assunzione ogni tre lavoratori in uscita. Un impegno che appare in linea con l’obiettivo di garantire un equilibrato turnover generazionale nell’impresa e con una proporzione di ricambio della popolazione lavorativa anziana con quella giovanile più vicina alla realtà (3 a 1) , al contrario di quanto era stato propagandato agli albori della sperimentazione di Quota 100 .
La convenienza per l’impresa del programma di esodo anticipato previsto dal contratto di espansione appare ancor più rilevante se rapportata alle altre modalità di scivolo pensionistico presenti nel panorama previdenziale attuale, come quelle previste per i lavoratori anziani dall’art. 4, commi 1-7, l. n. 92/2012. Al netto dei differenti obiettivi soggiacenti le due discipline, dove l’isopensione riguarda i casi in cui l’azienda, con più di 15 dipendenti, si fa carico dell’intero costo del prepensionamento esodando il personale anziano difficilmente ricollocabile mentre il contratto di espansione punta alla crescita e al turnover generazionale della forza lavoro , è indubbia la convenienza economica della seconda rispetto alla prima. Difatti, nel caso dell’isopensione, il ricorso a questo istituto appare oggettivamente più oneroso in quanto totalmente a carico del datore di lavoro, per una durata massima di sette anni, e non integrato da alcun finanziamento pubblico come nel caso della NASpI o dall’integrazione salariale straordinaria per le eventuali riduzioni dell’orario di lavoro per i lavoratori non coinvolti nella flessibilità in uscita . Al contrario, sia per l’intervento statale, che riduce gli oneri richiesti per l’azienda almeno nel periodo di contemporaneità con l’integrazione della NASpI, sia per la durata massima di cinque anni, la funzione pensionistica del contratto di espansione sembra ricevere grande attenzione da parte delle imprese, come dimostrato dai primi accordi stipulati, a riprova della bontà dell’architettura costruita dal legislatore per coniugare il personale in uscita con nuove assunzioni e innovazione delle competenze aziendali.
3. Un modello di intervento “a geometria variabile” e dalla forte adattabilità: tre casi studio.
Pur se l’attenzione maggiore da parte delle imprese e dei diversi interlocutori si è focalizzata sull’introduzione di questa peculiare modalità di esodo anticipato, preme sottolineare come il contratto di espansione sia, in realtà, uno strumento completo e complesso con diversi istituti - riduzione oraria, formazione, scivolo pensionistico ed assunzioni - da utilizzare sinergicamente per raggiungere gli scopi, o meglio, le tre diverse direttrici di intervento che lo caratterizzano. Lo strumento introdotto dal Legislatore del 2019, però, ha anche il pregio di non prevedere che questi istituti debbano obbligatoriamente essere presenti nell’accordo tripartito con OO.SS. e Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali. A riprova di tale flessibilità ed adattabilità dello strumento si possono prendere in considerazione i diversi contratti di espansione già stipulati dal 2019, tra cui quello di ENI , TIM , Bricocenter Italia Ericsson Telecomunicazioni e Stellantis . Ognuno di questi contratti mira ad una diversa matrice di intervento che si cercherà di analizzare in questo paragrafo.
Difatti, le aziende coinvolte, pur sfruttando le diverse disposizioni offerte dal contratto di espansione, hanno adattato questo strumento tarandolo sulle proprie necessità, contingenze e sulla propria forza lavoro, mostrando ancora una volta come questo sia un istituto a “geometria variabile”, capace di integrarsi con le specificità delle imprese coinvolte, dei diversi settori (Telecomunicazioni, Servizi Commerciali, Metalmeccanico) e delle sfide future che queste dovranno affrontare in futuro.
Nel caso del contratto di espansione stipulato da ENI con le organizzazioni sindacali, il 1° aprile 2021, gli obiettivi principali riguardano la trasformazione digitale della forza lavoro e dei profili professionale nonchè la reindustrializzazione aziendale, abbracciando la sfida di rilevanza europea della Just Transition . Avendo come obiettivo a lungo termine quello di divenire totalmente carbon neutral entro il 2050, ENI si impegna a perseguire una strategia ambiziosa, figlia di quella spinta alla decarbonizzazione delle attività lavorative e dei prodotti da destinare ai propri clienti, modernizzando i processi produttivi e minimizzando il proprio impatto sull’ambiente. Tale strategia non può che prevedere un ampio ricorso alla tecnologia e alla digitalizzazione, entrambe necessarie per ridurre i rischi di questa transizione ed accelerare il processo di reindustrializzazione aziendale. Temi, che già l’azienda aveva incluso in una nuova fase di relazioni industriali aziendali sancita dall’adozione del Protocollo “INSIEME” , finalizzato alla condivisione con le parti sociali della gestione delle sfide future in materia di innovazione e transizione energetica e digitale. Alla luce di ciò, il contratto di espansione si pone come strumento completo per declinare ed assecondare gli obiettivi di questa strategia manageriale, garantendo un rinnovamento della forza lavoro di ENI tramite il ricambio generazionale di lavoratori c.d. pensionabili con profili professionali difficilmente aggiornabili e l’impiego a tempo indeterminato di lavoratori con competenze ad oggi assenti in impresa. Il Contratto di espansione ENI è utile per analizzare come questi obiettivi siano tradotti in termini meramente quantitativi, dando materiale per la valutazione ex post da parte ministeriale per la continuazione o meno della sperimentazione. A fronte di 900 prepensionamenti con la sottoscrizione di appositi accordi di natura non oppositiva per lavoratori entro 60 mesi dal diritto a pensione, l’azienda si impegna ad assumere, a tempo indeterminato o con apprendistato professionalizzante, 500 nuovi lavoratori in settori strategici, tra cui le energie rinnovabili, la logistica, l’economica circolare e l’innovazione produttiva (geosciences, ICT Business, e proprietà intellettuale). Una proporzione di due esodi anticipati per assunto ben più alta di quanto previsto dalla normativa attuale (3:1) e che nel caso di ENI, dato l’organico maggiore di 1000 unità e la compatibilità degli obiettivi con il piano Next Generation EU, apre lo scenario dell’ulteriore anno di finanziamento NASpI ad integrazione del trattamento pensionistico lordo a carico dell’impresa, riducendo, dunque, l’onere per il datore di lavoro.
Un ulteriore aspetto degno di nota del contratto ENI riguarda il ruolo centrale affidato alla formazione, dove l’azienda, senza richiedere l’intervento di riduzione oraria o sospensione dell’attività lavorativa, si impegna a fornire un programma formativo e di riqualificazione per almeno 20000 lavoratori nelle differenti unità produttive sul territorio italiano con un investimento pari a 20 milioni di euro per l’intera durata del contratto di espansione. Un programma, previsto nel piano industriale presentato in fase di sottoscrizione dell’accordo e chiamato “one eni.fit for purpose”, che prevede la creazione di corsi di formazione, in presenza e online, per circa un milione di ore di formazione e con esperienze on the job come previsto dall’art. 41, comma 8, d.lgs. n. 148/2015. La decisione di non ricorrere ad alcun trattamento integrativo e riduzione dell’attività lavorativa evidenzia ancora di più la flessibilità dello strumento e, nel caso di ENI, è innegabile come l’obiettivo del ricambio generazionale sia centrale nella strategia manageriale dei prossimi anni.
Totalmente differente, invece, è la strategia intrapresa da TIM nel proprio contratto di espansione sottoscritto la prima volta nel 2019 e rimodulato nel 2021, con l’obiettivo di ridurre il c.d. “digital divide” del mercato delle telecomunicazioni italiano entrando in nuovi e, secondo il management dell’azienda, più proficui settori come “Offerta TV, Smart Home, Gaming, Servizi Cloud, Internet of Things, Cibersecurity” . Il piano industriale sottoscritto con SLC-CGIL, FISTel-CISL, UILCom-UIL e UGL Telecomunicazioni, punta ad arricchire l’offerta commerciale dell’azienda rafforzando la propria infrastruttura tecnologica e potenziando ed aggiornando le competenze dei lavoratori già impiegati. L’integrazione e sinergia di queste azioni dovrebbe dare “una ulteriore spinta alla rivisitazione dei processi aziendali in termini di innovazione e di sviluppo tecnologico e di digitalizzazione dell’attività, con un approccio sempre più dinamico e coerente con la trasformazione in atto” . Per raggiungere tali obiettivi, TIM si impegna ad assumere 650 lavoratori, di cui 330 per 2021 e 320 nel 2022, con profili professionali compatibili con il piano di riorganizzazione e destinati ad introdurre nuove capabilities nei settori ritenuti emergenti e di interesse strategico ed innovativo per il futuro delle telecomunicazioni sia a livello nazionale che internazionale. Contemporaneamente, per garantire un servizio di customer care adeguato e capace di supportare l’introduzione di questi nuovi servizi, l’azienda si impegna ad assumere ulteriori 100 lavoratori a tempo indeterminato che si occuperanno di fornire assistenza tecnico commerciale da remoto.
L’introduzione di nuove attività e processi produttivi impone anche la necessità di garantire un percorso formativo per i lavoratori già impiegati in TIM, adattandolo ai fabbisogni della propria forza lavoro sulla base di un monitoraggio su larga scala delle competenze in azienda e tenendo conto dell’eventuale gap tra quelle possedute e quelle richieste e necessarie a sostenere il piano di riorganizzazione. In tal modo, si valorizzeranno le competenze già possedute, adeguandole ai nuovi servizi offerti ed accrescendo il valore del capitale umano già occupato. L’offerta formativa dovrebbe interessare oltre 34 mila lavoratori TIM sia in presenza che online. A bilanciamento di questo percorso di formazione, TIM, al contrario di quanto visto nel caso ENI, ha richiesto un corposo intervento di riduzione dell’orario di lavoro dei lavoratori coinvolti nella formazione pari a 3196 ore equivalenti in settori non interessati, ovviamente, dal contratto di espansione. La riduzione media complessiva è pari al 9.4% su base verticale o mista prevedendo giornate di sospensione a rotazione tra tutti i lavoratori coinvolti: 6 giornate per anno nel biennio 2021/2022 per coloro che rientrano nella riduzione pari al 3.5% dell’orario lavorativo e 20 giornate nel 2021 e 22 nel 2022 per coloro che sono interessati dalla riduzione pari al 12.1%. Per questi lavoratori, durante le giornate di sospensione, è prevista la fruizione delle attività formative in modo da certificare la contemporaneità dei due pilastri formazione/riduzione oraria come previsto dalla disciplina generale del contratto di espansione. L’architettura complessiva del contratto di espansione TIM si diversifica da quello ENI perché non improntato ad un turnover generazionale, ma si fa apprezzare per una spiccata tendenza alla riorganizzazione aziendale e alla creazione di nuova occupazione senza prepensionamenti, tramite un importante ricorso ai trattamenti integrativi salariali per la riduzione dell’attività lavorativa a cui si legano a doppio filo le ore di formazione e l’assunzione di nuovi lavoratori già in possesso di competenze digitali e tecnologiche.
Da ultimo appare rilevante analizzare il contratto di espansione siglato da Bricocenter Italia e FILCAMS CGIL, FISASCAT CISL e UILTUCS a fine 2020 che si differenzia dai precedenti due per il proprio collegamento con le conseguenze scaturite dalla pandemia e le gravi incertezze economico-finanziare che ne derivano. Nel preambolo viene evidenziata la necessità di valutare “profondi cambiamenti organizzativi anche attraverso la revisione delle competenze dei lavoratori e la formazione di profili professionali multidisciplinari” per contrastare gli effetti pandemici e, per tale motivo, viene proposto un piano strategico per accompagnare la trasformazione fisica e digitale dei propri negozi. Alla luce di tali motivazioni, le parti interessate hanno sottoscritto un accordo della durata di un solo anno che punta ad integrare la necessità di un ricambio generazionale aziendale, seppur quantitativamente non comparabile con quello previsto in ENI sia in termini di uscite che di assunzioni, accompagnato da un programma di formazione e riqualificazione basato sull’apprendimento di competenze tecnologiche, senza far ricorso all’integrazione salariale ex art. 41 d.lgs. 148/2015.
Pur essendo un’azienda con più di 1000 dipendenti sul territorio nazionale, l’accordo siglato nel 2020 prevede solo 10 assunzioni durante l’anno 2021 che riguarderanno “addetti sales nelle diverse funzioni di vendita e supporto alla vendita, con competenze di relazione cliente digitali e social” a cui viene affiancato un percorso di esodo anticipato per massimo 20 lavoratori, aventi i requisiti richiesti dall’ art. 41 d.lgs. 148/2015, o in numero minore se le risorse economiche stanziate allo scopo dall’azienda, pari a 750mila euro, non siano sufficienti a coprire tale numero. Peculiarità di questo contratto è anche la definizione di specifici criteri di scelta, stabiliti in accordo con le parti sociali, per i soggetti che abbiano manifestato interesse al programma di prepensionamento. Tra questi il più rilevante è il criterio della prossimità al pensionamento espressa in settimane, in quanto permetterebbe all’azienda di poter ridurre il trattamento mensile lordo da garantire al pensionando grazie all’integrazione fino ad un massimo di 24 mensilità prevista dalla NASpI. Ulteriori criteri riguardano la priorità alla condizione di disabilità attestata ai sensi della L. n. 68/1999 e la maggior anzianità di servizio in azienda.
4. Osservazioni conclusive: criticità del contratto di espansione e prospettive de jure condendo.
I contratti di espansione ad oggi stipulati sono di gran lunga in numero maggiore rispetto alle limitate, se non nulle, esperienze del contratto di solidarietà espansiva. Tale risultato è sicuramente connesso all’ingente impegno finanziario statale a supporto di tale istituto, che ne rende conveniente il ricorso per le grandi aziende, ma potrebbe anche essere legato alla flessibilità concessa alle aziende nella definizione delle azioni sinergiche da intraprendere una volta sottoscritto l’accordo con le parti sociali.
Dall’analisi dei tre contratti di espansione sopra citati, infatti, si può dedurre che gli obiettivi e le strategie manageriali delle aziende coinvolte siano diversi tra loro, passando dal ricambio generazionale voluto da ENI, alla riqualificazione dei propri dipendenti e creazione di nuovi posti di lavoro del caso TIM, sino alla riorganizzazione aziendale di Bricocenter Italia per modificare parte del proprio business e bilanciare gli effetti della pandemia.
Questi obiettivi, o come definiti nel saggio “queste direttrici di intervento”, rendono il contratto di espansione uno strumento di turnover alternativo, capace di bilanciare le necessità di svecchiamento della forza lavoro, tramite esuberi anticipati e non traumatici, con l’ingresso nel mercato del lavoro di lavoratori giovani con nuove competenze e valorizzando quelle già in possesso di coloro che sono occupati nell’impresa. Ciò lo rende un istituto innovativo e completo, utile per permettere alle imprese di aggiornare i propri organici ed affrontare le sfide tecnologico-digitali future.
Le criticità maggiori, tuttavia, riguardano da un lato la temporaneità dell’istituto e, dall’altro, la platea delle aziende che potrebbero farvi ricorso.
Per quanto concerne il primo punto, il Legislatore del 2019 aveva originariamente previsto una durata limitata al biennio 2019/2022 per il contratto di espansione. Durata estesa sino al 2023 a riprova dell’interesse sviluppatosi attorno allo strumento sia da parte dello stesso Legislatore che da parte delle imprese. Al contempo, si segnala la posizione delle grandi confederazioni sindacali italiane che ne hanno evidenziato i pregi all’interno della propria Piattaforma Unitaria sulle “Proposte sindacali per una riforma previdenziale” dell’aprile 2021 . In tale documento, il contratto di espansione è ritenuto tra i principali strumenti di flessibilità in uscita sui quali investire in futuro per “governare la difficile fase che si aprirà con lo sblocco dei licenziamenti e per favorire il ricambio generazionale”. Se è pur vero che il Legislatore possa continuare a rinnovarlo di anno in anno, è anche vero che stabilizzare tale istituto renderebbe possibile per le aziende prevedere un suo ricorso nel medio periodo, predisponendo adeguati piani industriali e risorse necessarie per finanziare gli eventuali esodi anticipati e le nuove assunzioni. Senza stabilizzazione, ma legandolo soltanto ad un rinnovo annuale, invece, si penalizzerebbero le imprese che non hanno adeguate risorse finanziare per poter far subito ricorso a tale strumento. Per tale motivo, si ritiene che il Legislatore debba portare a termine una valutazione sulla stabilizzazione o meno dello strumento per permettere una adeguata pianificazione per tutte le imprese interessate.
Sul secondo punto, pur avendo ampliato la platea delle aziende potenzialmente interessate, passando da quelle con 1000 unità lavorative a quelle con 50 lavoratori come previsto dalla bozza della Legge di bilancio per l’anno 2022, nulla è stato modificato per quanto riguarda le procedure amministrativo-finanziarie. Le aziende con più di 50 dipendenti, infatti, possono certamente fare ricorso a tale strumento per supportare ricambi generazionali o investire in formazione e riqualificazione, però, devono sottostare alle medesime procedure previste per i grandi player industriali come ENI, TIM e Stellantis. Se dal punto di vista dell’interlocuzione sindacale ci potrebbe essere un più immediato rapporto con le RSA/RSU dato anche il limitato numero dei lavoratori coinvolti, diverso, invece, è l’onere economico richiesto per queste aziende, le quali devono sia mettere a budget l’intero trattamento pensionistico lordo da garantire al pensionando anticipato, sia presentare all’INPS una fideiussione bancaria a prova della propria solvibilità. Una procedura finanziaria ed amministrativa che potrebbe ostacolare il ricorso a tale strumento da parte delle aziende con un numero di dipendenti limitato e con una solidità finanziaria diversa rispetto alle grandi imprese sinora coinvolte . L’obiettivo del legislatore, attraverso l’estensione del campo di applicazione del contratto di espansione anche verso le PMI, è certamente condivisibile ma, nel caso in cui si volesse stabilizzare tale istituto ed elevarlo a strumento principale per la gestione delle riorganizzazioni aziendali, si dovrebbero rivedere le procedure e gli oneri aziendali richiesti per aziende con dimensioni e necessità diverse. Potrebbe essere estesa l’integrazione NASpI per l’anno aggiuntivo prevista durante le procedure di esodo anticipato per le aziende con più di 1000 dipendenti , anche a quelle aziende con più di 50 dipendenti nel caso di una riorganizzazione che preveda l’assunzione di lavoratori in proporzione 3:1 o 2:1 o limitando l’accesso alla riduzione dell’orario di lavoro e ricorso al trattamento di integrazione salariale. In tal modo, a parità di spesa per le casse statali visto il mancato ricorso ai trattamenti integrativi salariali, si ridurrebbe l’onere aziendale per l’uscita non traumatica di lavoratori anziani e si garantirebbe la nuova occupazione di personale professionalmente qualificato; un risultato in linea con gli obiettivi di riorganizzazione aziendale e transizione tecnologica che caratterizzano il contratto di espansione.