Testo integrale con note e bibliografia
1. Introduzione
Non più solo i bambini – ma ormai anche molte bambine – sognano, da grandi, di fare il calciatore o la calciatrice. Una sincera passione per il giuoco del pallone, l’attrazione verso fama o successo e l’idea che si tratti di una favolosa attività in cui lavorare coincide con divertirsi rendono comuni tali giovanili ambizioni. Tuttavia, alla prova dei fatti, tale visione si rivela parziale, se non fallace.
Da un lato, i calciatori professionisti sono lavoratori subordinati tenuti a rispettare una serie di obblighi giuridicamente vincolanti e spesso particolarmente defatiganti e gravosi sotto il profilo dei ritmi di allenamento e dello stile di vita che viene loro imposto di rispettare. Lo sportivo professionista, infatti, non è impegnato solo nel momento della gara, quando più viene catturato l’interesse degli appassionati, ma deve svolgere continui allenamenti e ritiri, oltre a mantenere costantemente condotte rigorosamente controllate nelle sedi “extra lavorative”, qualificabili come obblighi preparatori e accessori all’adempimento , da rispettare in ogni momento della giornata, cioè nel corso della sua vita quasi senza soluzione di continuità.
Dall’altro lato il professionismo sportivo non è esclusivamente quello dei campioni e delle star, come Pietro Mennea o Javier Zanetti. Lo sport costituisce il mestiere – dal quale esclusivamente si traggono i mezzi per vivere – anche per una vasta moltitudine di lavoratori che non raggiungono certo condizioni di agio economico e di celebrità particolarmente gratificanti .
Per giunta, la carriera dello sportivo ha necessariamente una durata limitata nel tempo, il che, in molti casi, complica le fasi di vita successive a quelle del “pensionamento” sportivo .
Per scelta abbiamo alternato considerazioni riferite allo sport in generale ad altre volutamente relative al calcio: nei paragrafi che seguono ci occuperemo infatti proprio della realtà del gioco del calcio , per una essenziale esegesi critica dei diritti e degli obblighi del calciatore, nell’ottica della tutela della sua professionalità. L’analisi che segue è riferita alla sola area del professionismo calcistico, essendo assai differente l’inquadramento giuridico di diritti e obblighi dell’atleta dilettante .
2. La legge 91/1981 e il rapporto di lavoro sportivo
Per una non breve fase storica il legame fra atleta professionista e società sportiva di appartenenza era inquadrato giuridicamente come una mera affiliazione associativa. Servirà la legge 23 marzo 1981 n. 91 per sciogliere i dubbi sulla fisionomia di tale rapporto. Questa legge ha superato i dubbi sulla natura subordinata (o meno) del contratto che lega lo sportivo alla società di appartenenza. Tali dubbi a lungo avevano tormentato la dottrina nei decenni precedenti, quando la presenza del vincolo sportivo , l’assenza di chiare indicazioni del legislatore e la necessaria specialità della figura dell’atleta professionista rispetto ai prototipi sia dell’autonomia sia della subordinazione rendevano assai complesso il dilemma qualificatorio .
Il calcio professionistico rientra naturalmente nell’ambito di applicazione della legge n. 91/1981 . A dire il vero, tale legge viene addirittura concepita essenzialmente per il calcio, tanto è vero che un gruppo di giuristi che la commentò sul Foro Italiano intitolò il commento a più mani “Una legge per lo sport?” impiegando il punto di domanda allo scopo di evidenziare lo sbilanciamento in senso calcistico che ispirò il legislatore e segnalando il dubbio che essa non fosse realmente proiettata sullo sport in generale.
La legge 91 prevede che l’attività sportiva sia libera e possa essere resa in forma dilettantistica oppure professionale (art. 1), dedicando il proprio corpus normativo a questa seconda ipotesi.
La libertà dell’attività sportiva non esclude però che essa sia sottoposta a precise regole, anche dettagliate e talora molto rigorose, a più livelli ordinamentali: vi è, del resto, una forte compenetrazione (e contaminazione) fra ordinamento generale e ordinamento sportivo. Il fenomeno sportivo, infatti, è inserito nell’ordinamento generale allorché è lo Stato a dettare le norme fondamentali (amministrative, lavoristiche, commerciali, fiscali, penali etc.) entro cui può lo sport essere praticato professionalmente o in forma dilettante, ma è sempre lo stato a determinare entro quali limiti l’ordinamento sportivo abbia una propria – significativa – autonomia, anche in deroga all’ordinamento generale. I profili lavoristici di cui in questa sede ci occupiamo ne sono un primo esempio, ma altrettanto evidenti sono le implicazioni penalistiche, prima fra tutte la scriminante sportiva per cui, se vengono rispettate una serie di condizioni, le percosse o addirittura le lesioni che si producono in una gara (si pensi al pugilato) non costituiscono fatti penalmente perseguibili, benché vi sia il fatto tipico e non manchi la volontarietà.
Nello sport – e nel calcio in particolare – vi è anche una vera e propria autodichia sistematica, poiché sono previste a più livelli alcune giurisdizioni speciali, sia arbitrali che giurisdizionali in senso stretto . Le Federazioni delle varie discipline emanano inoltre regolamenti fondamentali su ogni aspetto della vita degli sportivi, dalle regole delle gare al funzionamento delle competizioni.
È perciò vero che il sistema di regole dello sport reca in sé alcuni caratteri dell’ordinamento giuridico in senso romaniano , ma è anche vero che il «presupposto ordinamentale» è un po’ «inflazionato» , se non altro perché la autoproduzione di norme è limitata e, come già detto, in ogni caso fortemente condizionata dal legislatore statuale .
Il professionismo sportivo è descritto dall’art. 2 della legge come una attività sportiva esercitata «nell’ambito delle discipline regolamentate dal CONI, con carattere di continuità e a titolo oneroso sulla base di una qualificazione rilasciata dalle federazioni sportive nazionali, secondo i propri regolamenti e con l’osservanza delle apposite direttive emanate dal CONI per la distinzione tra attività professionistica e attività dilettantistica» .
L’atleta professionista entrando a far parte dell’ordinamento sportivo acquisisce un particolare status, che gli deriva dal “doppio tesseramento”: con la Federazione e con la Società sportiva di appartenenza. Se è vero che lo status è una nozione strumentale «quale tecnica idonea a creare o a spiegare trattamenti diseguali, statuti singolari (privilegi, dispense, prerogative) e immunità» ,sembra infatti ben possibile utilizzare questa figura in tale ambito, come già hanno ritenuto alcuni autori .
Del resto, il momento del secondo tesseramento (quello presso la società sportiva di appartenenza, che presuppone il primo) determina l’acquisizione dei diritti e l’assunzione degli obblighi che competono all’atleta/prestatore di lavoro .
Come anticipato poc’anzi, infatti, lo sportivo è un lavoratore subordinato, ma le regole applicabili al suo rapporto di lavoro sono fortemente derogatorie rispetto a quelle del lavoro subordinato standard. Non a caso, tradizionalmente, si ritiene quello sportivo un “rapporto di lavoro speciale”, con una diatriba – per la verità relativamente interessante ai nostri fini – sulla sua natura di contratto di lavoro speciale o di sottotipo contrattuale .
Le notevoli deviazioni rispetto al rapporto standard si rinvengono prevalentemente nel fatto che l’art. 4, commi 8 e seguenti, prevede che una serie di disposizioni legislative lavoristiche non trovino applicazione nel rapporto di lavoro sportivo. È esclusa la disciplina limitativa del licenziamento (per i contratti a tempo indeterminato), quella sull’apposizione del termine, nonché una serie di altri istituti fra cui la disciplina limitativa dello ius variandi. In particolare, pur non essendo direttamente disapplicato l’art. 2103 del codice civile, esso di fatto lo è, perché si esclude l’art. 13 dello Statuto (che, come noto, nel 1970 ha sostituito l’art. 2103).
Quanto alla durata del contratto, come appena accennato, esso può astrattamente essere a tempo indeterminato, ma ciò non accade praticamente mai, anche perché in caso di contratto senza scadenza si prevede comunque la possibilità di recedere ad nutum (salvo preavviso) a favore di entrambe le parti.
Molto più comune è la stipula di un contratto a termine che, ai sensi dell’art. 5 della legge 91/1981, non potrà mai superare i cinque anni, senza che abbia alcun rilievo, come detto, la disciplina generale in tema contratto a termine.
Le regole in materia di durata del contratto sono strettamente connesse alla tutela della professionalità del calciatore. Infatti, l’esistenza, in passato, del vincolo sportivo , in base al quale il calciatore poteva trasferirsi ad altra squadra solo con il consenso della società sportiva di appartenenza, costituiva una fortissima compressione del diritto alla crescita professionale. Come è ben noto, in Europa, la sentenza Bosman ha rappresentato il momento di definitiva affermazione del meccanismo c.d. di free agency, che prevede che un calciatore svincolato (o prossimo alla conclusione del contratto) possa negoziare e/o stipulare un nuovo contratto con qualunque altra società sportiva senza alcun vincolo .
Ciò è possibile grazie al fatto che la “forma comune” del rapporto – esattamente all’inverso di quanto si prevede nell’ordinamento lavoristico generale – è quella a termine.
Un’ulteriore disposizione a tutela della professionalità dell’atleta, nella legge 91/1981, è l’esclusione della facoltà stipulare il patto di cui all’art. 2125: l’articolo 4, comma sesto, prevede infatti che «Il contratto non può contenere clausole di non concorrenza o, comunque, limitative della libertà professionale dello sportivo per il periodo successivo alla risoluzione del contratto stesso né può essere integrato, durante lo svolgimento del rapporto, con tali pattuizioni» .
3. Il contratto collettivo del calcio professionistico
Nel calcio professionistico, come previsto dalla legge 91/1981, che fornisce l’intelaiatura regolativa, la disciplina dei rapporti di lavoro è affidata ad un “accordo collettivo” (che è un contratto collettivo a tutti gli effetti e così lo chiameremo).
Tale contratto ha efficacia erga omnes ed è inderogabile in pejus da parte del contratto individuale. Quest’ultimo è costruito sulla base di un “contratto tipo” che le parti stipulanti l’accordo collettivo accludono al medesimo e che ha identico valore giuridico.
L’efficacia generalizzata del contratto collettivo (e del contratto tipo come base del contratto individuale ) – secondo una delle prime opinioni formatesi a seguito dell’entrata in vigore della legge 91, poi tendenzialmente seguita dagli autori successivi – deriva dal fatto che ogni società sportiva deve legarsi alla federazione nazionale del settore sportivo in cui opera (ciò non può non accadere per la stessa condizione di appartenenza al professionismo) e ogni atleta deve essere legato ad una società sportiva. Le società e gli sportivi sono vincolati da una adesione che è sì volontaria, ma al tempo stesso indefettibile per entrare a far parte a pieno titolo dell’ordinamento sportivo.
Il contratto collettivo, inoltre, è efficace erga omnes anche perché ne è contemplato soltanto uno per ciascun settore dalla legge: la circostanza è asseverata dal fatto che si tratta di un accordo non bilaterale, bensì trilaterale: i firmatari sono il soggetto esponenziale rappresentante dei datori di lavoro (la Lega Calcio), quello dei calciatori (l’Associazione Italiana Calciatori ) e la FIGC (Federazione Italiana Giuoco Calcio) che è, per così dire, espressione di un potere sovraordinato che dovrebbe essere imparziale e fornire le regole sportive a tutte le parti coinvolte.
In realtà, nel calcio da tempo i contratti sono più di uno, suddivisi in conseguenza delle diverse categorie. Oggi ne esistono tre: l’accordo collettivo Serie A, quello di Serie B e quello di Lega Pro . Come si vede, però, vi è una chiara delimitazione dei perimetri, tale per cui non può esservi concorrenza fra più contratti con la necessità di selezionare quello applicabile e con le connesse incertezze: se una società sportiva partecipa alla Serie A essa farà automaticamente parte della Lega di Serie A (pena l’impossibilità di iscriversi al campionato) e lo stesso dicasi per le altre serie. Vi è, in altre parole, un’ineliminabile corrispondenza fra il campionato in cui si compete per merito e la “associazione datoriale” a cui la società sportiva è iscritta.
La struttura dei tre contratti è molto simile. Nel prosieguo, faremo riferimento singolarmente al contratto di Serie A (dal quale vengono estrapolati gli articoli specificamente menzionati), ma va avvertito il lettore che, se la prima squadra della società di appartenenza non milita in Serie A , occorrerà considerare gli altri contratti (che sono in larga parte identici).
Il contratto collettivo – ancor più della legge – è la fonte in cui si coglie la specialità del lavoro sportivo. Esso infatti ha una struttura radicalmente diversa da quella, ben nota ad ogni giuslavorista, di un comune Ccnl.
Ad esempio, più marginale è la parte economica. Esiste, beninteso, un minimo retributivo (art. 4 del contratto collettivo, con rinvio del comma 7 alle tabelle ad esso allegate ), ma il contratto dei calciatori non è portatore di una reale funzione di giustizia ed equità salariale e non persegue l’obiettivo di una tendenziale omogeneità anticoncorrenziale come i normali contratti collettivi nazionali.
Infatti, per tutti i calciatori professionisti (da chi concorre per il pallone d’oro sino alle riserve delle ultime squadre di Lega Pro) è assolutamente normale stabilire le retribuzioni con pattuizioni individuali, peraltro solitamente negoziate da un agente .
Infine, l’art. 11 (su cui v. anche infra) si occupa del potere disciplinare “sportivo”. Su di esso, infatti, sono sovrane le sedi arbitrali speciali se l’illecito ha carattere sportivo, ma si ritiene preferibile la sussistenza del potere del giudice ordinario (del lavoro) per il vaglio su comportamenti (e sanzioni) che nulla abbiano a che fare con la natura speciale del rapporto .
4. La casistica più recente: allenamenti e partite.
Un terreno di frequente attrito fra calciatori e società sportive è costituito dall’inquadramento della situazione giuridica di vantaggio che lega l’atleta alla partecipazione alle partite e agli allenamenti. In particolare, ci si può chiedere se egli abbia un diritto soggettivo a parteciparvi (qualora fisicamente idoneo) oppure un interesse o ancora una mera aspettativa o chance.
Vale la pena di focalizzare brevemente l’attenzione su due casi realmente accaduti, per provare a svolgere qualche considerazione mediante l’esame di tali vicende concrete. Anzitutto occorre volgere retrospettivamente lo sguardo a quando una decina di anni fa l’attaccante macedone Goran Pandev, in forza all’epoca alla Lazio, si rivolse con procedimento d’urgenza al Collegio arbitrale (ai sensi dell’art. 6 del Regolamento del 2011 dedicato alle attività di quest’ultimo) per ottenere lo scioglimento del contratto per giusta causa. Il calciatore, infatti, lamentava una – a suo dire, immotivata –esclusione dalle partite e dagli allenamenti, causata dal fatto che nel corso dell’estate 2009 (e già dalla fine della stagione precedente) egli aveva manifestato il desiderio di essere ceduto ad altro club, con la conseguenza che l’allenatore, d’intesa con la società, non lo coinvolgeva in tutte le attività del gruppo, rivendicando, all’inizio della stagione 2009/2010 il diritto di non farlo giocare per scelta tecnica e precisando che gli era comunque consentito di allenarsi per mantenere un adeguato stato di forma fisica. Senza poter ripercorrere i dettagli, si segnala che il 23 dicembre 2009 il lodo arbitrale ha sancito il diritto del calciatore alla risoluzione del contratto per fatto della società datrice – fatto colpevole e ad essa imputabile – consistente nella violazione delle prerogative dell’atleta di cui all’art. 7 del contratto collettivo e ha imposto alla Lazio anche il pagamento di un cospicuo risarcimento .
L’altro caso, assai più recente, è quello del centravanti argentino Mauro Emanuel Icardi, tesserato dell’Inter (attualmente in prestito al Paris Saint Germain). Un’estrema sintesi della vicenda (perlomeno dei suoi snodi noti ) è presto fatta: nell’inverno 2018/2019, come già in precedenza, la signora Wanda Nara, moglie e manager di Icardi rilascia alcune dichiarazioni agli organi di stampa relative al valore del proprio assistito, al suo rinnovo contrattuale e ad alcuni professionisti del medesimo club del marito.
Nel febbraio 2019 la società Inter decide di rimuovere i gradi di capitano che erano detenuti da Icardi. Il calciatore, da quel momento, manifesta una sintomatologia dolorosa al ginocchio sulla quale si è aperta una forte frizione con la società. Se è indubbio che nessuno, a parte il singolo atleta, può conoscere l’esistenza e l’intensità di un dolore al ginocchio, si è comunque consumata una diatriba di carattere medico poiché la società, a seguito di approfondite visite specialistiche, ha comunicato che Icardi non presentava lesioni o risentimenti di alcun genere .
Ciononostante, il calciatore ha seguitato a non rendersi disponibile sino a che, parzialmente ricomposta la frattura a seguito di una provvisoria mediazione fra la società Inter e un legale, nominato da Icardi e dalla sua procuratrice, il 3 aprile è avvenuto il ritorno in campo, per il finale di stagione.
Decorso il periodo di vacanza estiva, a inizio luglio la società ha comunicato da subito al calciatore – regolarmente presentatosi per il ritiro di preparazione alla stagione 2019/2020 – la propria intenzione di cederlo, con l’avvio di una nuova contrapposizione. L’Inter, infatti, in ossequio all’art. 7 del contratto collettivo – che attribuisce ai calciatori il diritto di partecipare alla preparazione precampionato e agli allenamenti, ma non menziona un diritto di partecipare alle partite, per il quale è sovrana la scelta tecnica dell’allenatore – ha coinvolto l’attaccante in tutti gli allenamenti generici di carattere atletico e tecnico . Viceversa, a quanto si apprende dai giornali, Icardi non ha mai preso parte, nel corso dell’estate, agli allenamenti di carattere tattico.
Parimenti, «di comune accordo» , Inter e Icardi hanno deciso che quest’ultimo non avrebbe partecipato alla tournée asiatica di luglio. Nel frattempo, però, il calciatore – pubblicamente messo sul mercato – pare abbia rifiutato ogni proposta professionale da parte di altri club, intavolando una sorta di braccio di ferro. Alla fine dell’estate Icardi ha anche agito di fronte al collegio arbitrale (il 30 agosto), sostenendo di essere stato gravemente vessato e discriminato e imputando all’Inter una violazione del comma 1 dell’art. 7 . Da tempo si vociferava che il calciatore accarezzasse l’idea di agire giudizialmente contro l’Inter, contestando – almeno secondo la narrazione mediatica – una forma di mobbing poiché il rifiuto di coinvolgerlo nelle gare sarebbe stato, a suo dire, dolosamente lesivo della professionalità .
La querelle ha perso di rilevanza (e l’azione è ovviamente decaduta) perché il 2 settembre, nell’ultimo giorno di apertura della finestra estiva dedicata alle cessioni dei calciatori, Icardi ha accettato il trasferimento in prestito al PSG.
Nessuno può sapere come si sarebbe potuta concludere questa vicenda dinanzi al Collegio Arbitrale, ma quello che con certezza si può rilevare è che Pandev ha avuto ragione perché si è ritenuto che la condotta (di esclusione) realizzata della Lazio fosse ingiustificatamente “persecutoria” in quanto l’unica reale colpa del tesserato era stata quella di manifestare pubblicamente il desiderio di trasferirsi (oltre a un presunto scarso impegno nella fase finale della stagione 2008/2009, che però dipende da valutazioni soggettive ed è di fatto indimostrabile). Il caso di Icardi è invece più complesso perché – in una dettagliata istruzione cronologica dei fatti – non avrebbe potuto non avere rilievo la circostanza che l’Inter abbia escluso il calciatore dal progetto tecnico della nuova stagione dopo che questi, per quasi due mesi, si è sostanzialmente rifiutato di partecipare alle gare in una fase delicata della stagione sportiva.
Al netto di ciò, più in generale, il tema sullo sfondo di entrambe le vicende e la domanda che occorre farsi è se esista un diritto del calciatore a partecipare alle partite e/o a partecipare agli allenamenti ed eventualmente a quali. Secondo alcuni autori è indubitabile che la partecipazione alle singole gare costituisca il momento culminante della prestazione dello sportivo, il quale ha un interesse giuridicamente tutelabile a parteciparvi, poiché lo stesso contratto di lavoro è concepito in funzione di esse . Peraltro, anche alla luce della menzionata brevità della carriera del calciatore, è certo che una prolungata esclusione dalle partite del tutto immotivata costituirebbe, se non un inadempimento, quantomeno una deminutio in concreto del valore del calciatore.
Anche altre considerazioni sono però da fare ed hanno a che vedere con la natura del gioco del calcio, che è uno sport di squadra. In tali sport (specie nel calcio ove il numero dei partecipanti è elevato), è necessario che le rose siano composte da un numero di calciatori assai superiore rispetto a quelli che possono essere contemporaneamente schierati, sia per consentire un turnover e un recupero delle energie, sia per poter dare all’allenatore diverse opzioni tecniche, sia, infine, per consentire di sopperire all’assenza degli infortunati.
Chi allora potrebbe pensare che un calciatore assunto apertamente per fare il secondo o il terzo portiere possa lamentare una lesione alla professionalità per un mancato utilizzo prolungato? Non si potrebbe, poiché l’impiego sporadico nelle partite è inevitabile per tali figure. Ma vi è di più: l’essere uno sport di squadra comporta anche che vi siano elementi non strettamente tecnici che concorrono alle scelte di formazione degli allenatori. O meglio, elementi caratteriali e ambientali (anche afferenti alle caratteristiche o alla personalità del singolo calciatore) che si ripercuotono in un migliore o peggiore rendimento tecnico dell’intera squadra. Ecco perché, quando si afferma che l’interesse a partecipare alle competizioni «può trovare limite – oltre che nelle non perfette condizioni fisiche o in sanzioni disciplinari di sospensione dell’attività agonistica – soltanto in esigenze di ordine tecnico, e cioè in ragione di valutazioni, di volta in volta effettuate da chi, negli sport collettivi, provvede alla formazione delle squadre da schierare in campo, relativamente alle capacità tecniche, professionali o tattiche da apportare a ciascuna specifica gara» occorre intendere le esigenze di ordine tecnico in senso estensivo.
Il calciatore non può certamente avere alcun ruolo nelle decisioni gestionali e tecniche e, come si è evidenziato , anche le sue esternazioni pubbliche (o quelle del suo entourage) hanno un peso: in base all’obbligo di leale collaborazione, egli può al massimo condividere il proprio punto di vista in contesti privati con l’allenatore o con i vertici societari, ma è opportuno che si astenga non solo da forme di rifiuto ingiustificato della prestazione dovuta (intesa come partecipazione alle partite, ad allenamenti o altre attività), ma addirittura dal dare pubblicità al proprio dissenso: la visibilità di cui gode ciascun calciatore (specie se famoso) e in generale l’esposizione mediatica del mondo del calcio professionistico, che trae alimento dalla presenza dei tifosi, possono portare a gravi conseguenze pregiudizievoli per il rendimento sportivo e la serenità della società.
5. (segue) I ritiri
Altro fenomeno tipico dell’attività sportiva di una squadra di calcio è il ritiro. Esistono diversi tipi di ritiri. In primo luogo vi è un periodo dell’anno in cui normalmente qualunque squadra professionistica svolge la preparazione atletica all’inizio della stagione sportiva (che prende avvio il primo luglio) per prepararsi alla stessa (come appena ricordato a proposito del caso Icardi).
Oltre a questa ipotesi, normalmente nel calcio le squadre svolgono un breve ritiro dal giorno precedente a ogni partita sino allo svolgimento della medesima, pernottando una notte nel centro sportivo o, se in trasferta, di solito in hotel.
Il contratto collettivo all’articolo 7, comma 3, prevede che «In occasione di trasferte o ritiri il Calciatore deve usufruire di adeguati mezzi di trasporto - di volta in volta stabiliti dalla Società - a cura e spese della stessa, la quale è tenuta altresì a fornire al calciatore alloggio e vitto». Come si vede, non si esplicita che il calciatore abbia l’obbligo di partecipare al ritiro, ma è evidente che nessuno potrebbe mai dubitare di tale obbligo con riferimento alle citate ipotesi della preparazione precampionato (o di mini ritiri che a volte vengono organizzati nel periodo fra Natale e Capodanno dopo alcuni giorni di pausa) e della sera precedente la partita.
Più problematico, e più interessante, è il caso in cui la società, per tramite della propria guida tecnica (l’allenatore), decida di convocare la squadra in ritiro al di fuori di questi casi, magari per alcuni giorni, per una intera settimana, o per più settimane, nell’imminenza di una o più gare importante/i.
Tradizionalmente, si tratta di ipotesi non “punitive” in senso stretto, ma comunque connesse ad una particolare situazione in cui occorre stimolare più intensamente l’impegno dei calciatori. Non sono dunque sanzioni disciplinari (poiché non si versa nelle ipotesi dell’articolo 11 del contratto collettivo), ma misure adottate per stimolare la concentrazione degli sportivi (calciatori, ma anche allenatore, preparatori e staff tecnico) sull’obiettivo della partita, onde cementare lo spirito di gruppo ed escludere possibili distrazioni, solitamente quando ve ne è più bisogno in ragione di un rendimento sportivo deludente.
Come è possibile inquadrare giuridicamente questo tipo di ritiri? La legge 91/1981 non menziona ovviamente i ritiri, non occupandosi di profili così specifici. Nel contratto collettivo vi sono due previsioni che vi fanno invece riferimento: l’art. 5, comma 1 e l’art. 7, comma 3. Il primo prevede che la retribuzione di cui al precedente art. 4 segua un canone di onnicomprensività tale per cui non spettano al calciatore indennità connesse alla partecipazione al ritiro; il secondo pone a carico della società gli oneri di trasporto, vitto, alloggio (e in generale tutte le spese) «in occasione di trasferte o ritiri di volta in volta stabiliti dalla società». Il solo fatto che il contratto collettivo dia in qualche modo per scontato che la società possa stabilire dei ritiri autorizza a pensare che essi siano un obbligo per il calciatore. Anche perché l’art 10, specie ai commi 1, 2, 3 e 6 attribuisce assoluta sovranità decisionale alla società dal punto di vista gestionale e tecnico, richiedendo al calciatore di attenersi a tali decisioni. Pertanto, in base all’art. 1363 c.c. sull’interpretazione complessiva delle clausole come canone di ermeneutica contrattuale, l’art. 7, comma 3 va letto in connessione con l’art. 10 e non lascia molto spazio alla possibilità per l’atleta di rifiutare un ritiro.
A chi scrive pare peraltro che anche l’art. 1374 c.c. sull’integrazione del contratto (in particolare «secondo gli usi») conduca al medesimo risultato: chiunque conosca, anche solo come appassionato, le consuetudini assolutamente consolidate del calcio professionistico sa che le squadre sono sempre state convocate in ritiri di questo tipo .
Queste brevi considerazioni portano necessariamente ad affrontare il caso recentissimo della S.S. Calcio Napoli: nelle scorse settimane, il Napoli, che sta attraversando un momento non particolarmente felice dal punto di vista dei risultati sportivi (specie in campionato), ha imposto ai calciatori un ritiro prolungato. Nella ricostruzione giornalistica della vicenda, sui cui dettagli non possiamo soffermarci, emerge nitidamente come il ritiro sia stato deliberato dal Presidente della Società (che è ovviamente il datore di lavoro e ha pieno titolo per prendere tale decisione, ancorché nella prassi sia più comune che la decisione sia presa dall’allenatore e condivisa con i vertici dirigenziali, così da rinforzare la posizione dell’allenatore, che dalla condivisione societaria trae legittimazione). Dopo la sfida casalinga di Champions League contro il Salisburgo del 5 novembre 2019, i calciatori del Napoli hanno deciso unilateralmente di non proseguire il ritiro che era in corso, tornando nelle proprie abitazioni senza essere a ciò autorizzati (nonostante l’allenatore e lo staff tecnico abbiano regolarmente fatto ritorno al centro sportivo).
È difficile dubitare del fatto che tale “ammutinamento” costituisca un inadempimento: sempre basandosi sulle ricostruzioni giornalistiche circolanti, pare infatti mancare un giustificato motivo al rifiuto di adempiere alla prescrizione agonistica di presentarsi in ritiro. Inflessibile si annuncia infatti la reazione della società a tale illecito disciplinare “collettivo”.
Ricostruendo i fatti narrati dai giornali alla luce dell’art. 11 del contratto collettivo, pare infatti che il Napoli non voglia procedere alla irrogazione di una multa nei limiti del 5% della parte fissa della retribuzione mensile lorda, alla quale potrebbe dare corso unilateralmente mediante trattenuta stipendiale, bensì arrivare alle più severe multe del 25% che richiedono una procedura preventiva di azione presso il collegio arbitrale, la quale, peraltro, in base ai regolamenti di quest’ultimo, deve essere individuale e non può essere collettiva. La vicenda è attualmente in corso e saremo testimoni dei suoi sviluppi.
6. Spunti finali fra diritto e passione
Ciò che a prima vista emerge confrontandosi con la speciale posizione del calciatore – e dello sportivo in genere – sono ovviamente le enormi diversità sociali, ancor prima che giuridiche, che caratterizzano questo lavoratore rispetto agli altri.
Le passioni che lo sport muove, gli interessi che ad esso sono sottesi, la circolazione di danaro – diretta e indotta – sono solo alcuni dei fattori che alimentano tali diversità. Ad esse fanno da contrappunto alcune profonde peculiarità regolative sotto il profilo giuslavoristico che risentono direttamente del differente sistema di valori che viene in rilievo. Alcune circostanze e alcune condotte che nello sport hanno estremo rilievo non ne hanno alcuno nel lavoro standard. E viceversa.
Ecco perché chi ha studiato approfonditamente il tema è consapevole che «l’esame dell’assiologia giuridica dello sport consente di coglierne le differenti forme e funzioni e dunque di evitare di giungere a risultati apodittici e generalizzanti» .
Del resto, chi ha parlato di «sport postmoderno» lo ha fatto proprio con riferimento alla enorme commercializzazione che attorno ad esso ruota e alle proiezioni sociali che si radicano nel fenomeno sportivo (abbigliamento, mode, consumi, bellezza, libri, trasmissioni, intrattenimento etc.), capace di superare ampiamente la dimensione della attività fisica o simbolico-competitiva come aveva avuto in passato, accedendo a una dimensione sociale più totalizzante e polimorfa .
Pertanto, se è vero che (la gran parte de)gli sportivi professionisti sono dei privilegiati dal punto di vista economico, è anche vero che lo sport partecipa di una dimensione artistica e di una capacità di coinvolgimento emotivo assolutamente unica, la quale, almeno in Italia, nel calcio è probabilmente superiore che negli altri sport, altrimenti non si sarebbe potuto dire di esso che è «l’ultima rappresentazione sacra del nostro tempo» .
Le conseguenze di tutto questo sono molteplici: nel calcio, agli atleti è garantito uno standard di vita e di tutela (fisica, giuridica ed economica) che è assolutamente invidiabile, nonostante l’esclusione di numerosi istituti garantistici di tradizionale protezione del lavoratore (si tratta però perlopiù di protezioni di cui il calciatore semplicemente “non ha bisogno”, per ragioni che si possono facilmente intuire).
D’altro canto, sono però esigibili da parte del calciatore alcune condotte molto più onerose (non sotto il profilo patrimoniale) di quelle altrove richieste ai lavoratori: ad esempio, una estrema attenzione alla salute, allo stile di vita e alla puntualità, oltre che una scrupolosa e diligente partecipazione a tutte le attività collettive della squadra di appartenenza, proprio perché la dimensione agonistica del gruppo è assolutamente centrale anche nella valutazione giuridica dei comportamenti tenuti.
Ancora una volta, però, è la peculiarità del gesto sportivo che, in certi casi, conduce lo stesso lavoratore/atleta ad assumere, financo per propria scelta, impegni e rischi che in altri contesti non potrebbero per nessun motivo essere accettati: nel 1970, Beckenbauer all’Azteca giocò (e perse…) i supplementari della “partita del secolo” con il braccio legato al collo, con un’elevata probabilità di aggravare la propria lesione alla spalla. Straordinario esempio di professionalità da parte del libero tedesco, certo, ma chi non lo farebbe, esauriti i cambi, per (sperare di) partecipare a una finale del Mondiale?