Testo integrale con note e bibliografia
1. Premesse
Le ripercussioni che l’identità può determinare anche nel rapporto di lavoro calcistico è tematica di forte interesse, nonché, al contempo frammento di una più generale questione che contrappone, in maniera sempre più frequente, lavoratori con un consistente bagaglio identitario ad organizzazioni parimenti e variamente orientate in termini assiologici.
La riflessione che si intende svolgere in questo ambito specifico, quindi, muove dagli studi aventi ad oggetto un fenomeno ben più esteso e diffuso nei tempi moderni. Invero, una pluralità di fattori ha favorito l’accentuazione delle problematiche identitarie nei luoghi di lavoro; così che al tramonto del prototipo del lavoratore novecentesco si sono affiancati la proliferazione e il radicamento di organizzazioni ideologicamente e/o culturalmente orientate . Una fenomenologia complessa che chiede di essere indagata attraverso la lente della complessità ; prospettiva quest’ultima, peraltro, che si mostra chiave di lettura privilegiata, strumento di indagine indispensabile anche nel caso del lavoro sportivo, e nella specie, calcistico.
A ben vedere, su questo terreno è possibile ritrovare alcuni elementi tipici del fenomeno generale, basti pensare, in via esemplificativa, proprio all’incidenza di una forte carica identitaria ripartita oggi in egual misura tra lavoratori e organizzazioni . Ma, come accade tutte le volte in cui si osserva più da vicino la tessera di un mosaico cogliendone venature destinate a disperdersi in una visione di insieme, scrutando la questione identitaria nello spettro d’azione del rapporto di lavoro calcistico emergono alcune peculiarità, di vario genere, che a volte amplificano, altre volte attenuano, comunque contraddistinguono la complessità della tematica in questo preciso settore lavorativo.
Da una angolazione empirica è opportuno considerare certuni elementi, peraltro concatenati l’un con l’altro: dalla funzione del calcio alla sua progressiva regolamentazione, dall’incremento, anche in questa disciplina sportiva, di contrasti identitari alla maggiore e persistente difficoltà di emersione di episodi di tal tipo.
Sul ruolo del calcio nelle società contemporanee vi è poco da aggiungere, basterebbe evocare, in un’epoca come quella attuale infestata da “passioni tristi” , la semplice constatazione per cui “non c’è un altro posto del mondo dove l’uomo è più felice che in uno stadio di calcio” . Ciò che piuttosto assume maggior rilievo ai nostri fini è la proiezione esterna di quanto accade in un campo di calcio o nei suoi dintorni - non solo fisici evidentemente –; vale a dire che “il calcio non è uno specchio della società ma […] uno schermo su cui individui e gruppi sociali proiettano immagini di una società ideale […]” , un palcoscenico che enfatizza condotte e azioni non sempre virtuose, anzi, il calcio “è l’ultima rappresentazione sacra del nostro tempo […]. Mentre altre rappresentazioni sacre, persino la messa, sono in declino, il calcio è l’unica rimastaci […] è lo spettacolo che ha sostituito il teatro” .
All’occupazione progressiva di spazi, non solo sportivi, da parte di questa attività ha fatto da contraltare, in tempi a dir il vero abbastanza sfasati, una sua considerazione giuridica progredita, per giunta, con andatura non sempre lineare.
Su un piano generale, ad esempio, pare opportuno segnalare la ritardata attenzione riservata all’attività sportiva sia dall’ordinamento europeo che da quello nazionale; così come meritevole di richiamo risulta la molteplicità di motivazioni che, nel corso del tempo, ha sorretto l’azione legislativa: dal progressivo risalto assunto dalla materia nel contesto sociale ed economico all’esigenza, più mirata ma non meno significativa, di evitare che l’impiego dello sportivo debordi in una mercificazione della prestazione o in pratiche di sfruttamento che possano, in qualunque modo, pregiudicarne l’integrità psico-fisica , giusto per fare qualche esempio. Su un piano più specifico, invece, non si può fare a meno di evidenziare che la relazione giuridica tra dimensione identitaria e mondo del calcio è tutto sommato un campo poco battuto e ancora poco esplorato; basti pensare all’evoluzione del rapporto tra sport e religione contrassegnato, dapprima, da una tutela di carattere negativo, ovvero di non ingerenza, e orientato, poi, da un approccio praticamente opposto .
Gli altri due fattori empirici richiamati pocanzi – ovvero l’esplosione di contrasti identitari nel calcio e, al contempo, le criticità del processo di emersione – possono essere trattati congiuntamente.
Senza andare troppo indietro nel tempo, e restando in ambiti rilevanti ai fini delle considerazioni svolte in queste pagine , si pensi a quanto sta accadendo in relazione al conflitto siriano; ad esempio, al caso che ha coinvolto Cenk Sahin, centrocampista turco del St. Pauli, a seguito di un post pubblico a sostegno delle attività dell’esercito turco cui la società ha reagito esentando l’atleta dall’allenamento e da ogni altro obbligo nei suoi riguardi, posto che le dichiarazioni rese sono state ritenute contrastanti con i valori del club, primo fra tutti il rifiuto della guerra . O altresì, si pensi alla presa di posizione del Barcellona sulla condanna inflitta dal Tribunale spagnolo a 12 indipendentisti catalani e alle ripercussioni che l’opinione espressa (riassunta nello slogan Prison is not the solution) potrebbe produrre se, per ipotesi, uno dei giocatori intendesse discostarsi dalla posizione ufficiale del club .
Per quanto le cronache riportino, spesso con notevole clamore, contrasti analoghi è pur vero che presumibilmente maneggiamo numeri ed episodi tutto sommato contenuti . In questo settore, a ben vedere, la criticità di emersione che da sempre accompagna avvenimenti simili, e ancor più le pratiche discriminatorie, pare destinata ad acuirsi ulteriormente; vale a dire, che la tendenza che vuole condotte di tal tipo più facilmente relegate in un’area di sommerso si inasprisce, talvolta anche in maniera drammatica. Basti considerare l’omofobia che attanaglia il mondo calcistico e a come gli orientamenti sessuali, qui più che altrove, siano tenuti rigorosamente al di fuori dello spogliatoio, e non solo (v. il celebre assioma per cui “non esistono gay nel calcio”).
Spostando invece l’attenzione su alcuni elementi di matrice giuridica che concorrono a rendere più tortuosa la tematica meritano segnalazione, in una prospettiva di più ampio respiro, la complessità del sistema delle fonti e le questioni connesse al rapporto tra gli ordinamenti giuridici nonché, con riguardo al rapporto di lavoro sportivo, le prerogative che, anche sotto il profilo regolativo, lo differenziano dai rapporti di lavoro comuni.
Quanto al primo profilo vi è da osservare che ai profondi mutamenti che investono il sistema delle fonti di produzione del diritto (in generale) e del diritto del lavoro (in particolare) - contribuendo non poco a ingarbugliare il quadro giuridico - si sommano quelle complicazioni immanenti all’ordinamento sportivo in ragione della fisiologica coesistenza di una pluralità di fonti di variegata natura .
A ciò si aggiunga che, stante la giuridicità dell’ordinamento sportivo su cui non sussiste dubbio alcuno , argomento dirimente diviene il raccordo tra i sistemi giuridici; problematica che, a ben vedere, non può semplificarsi nello schema (tutt’altro che lineare peraltro) ordinamento statale/ordinamento sportivo ma che, all’opposto, si arricchisce della coesistenza di fonti radicate in sistemi differenti, si pensi ad esempio all’ordinamento europeo, per un verso, e a quello sindacale per altro verso. In altre parole, la regolazione del lavoro sportivo è affidata ad una pluralità eterogenea di fonti e, dunque, vanta irrefutabili specificità senza però per questo costituire un universo parallelo e autarchico o poter giustificare qualunque deviazione dalle regole generali soprattutto quando sono in ballo diritti fondamentali.
Per quanto riguarda, invece, la regolamentazione del rapporto di lavoro sportivo, punto di partenza deve essere l’acquisizione della natura speciale del suddetto rapporto in forza delle caratteristiche dell’attività svolta legittimanti l’elaborazione di una apposita normativa . La specialità del rapporto di lavoro sportivo si riverbera, allora, non solo nella enunciazione di regole mirate attraverso cui disciplinare in maniera puntuale diversi istituti ma, altresì, nella accezione distintiva che assumono taluni concetti cardine: datore di lavoro, lavoratore subordinato, lavoratore autonomo, ad esempio .
Anche se, pare opportuno precisare, per quanto la specialità connaturata a questo rapporto di lavoro possa, potenzialmente, assumere importanza in una prospettiva contrattuale, medesimo impatto non è prefigurabile allorquando l’attenzione si sposta dal piano meramente contrattuale alla dimensione costituzionale. Su questo versante, difatti, la specialità evapora, si dissolve posto che in quest’area si collocano quegli interessi che, ritenuti meritevoli di tutela “dal comune sentire di un popolo in una certa epoca storica”, trovano posto in una “Costituzione positiva e da valor(i) social(i) si trasforma(no) in […] principi e diritt(i) costituzional(i)” . Il legame dei diritti fondamentali con l’assetto democratico e la forma repubblicana dello Stato è indubitabile; così come la loro posizione sovraordinata contribuisce a circoscrivere una “sfera dell’«indecidibile»” dai confini mobili, in ragione dei soggetti chiamati a disporre e/o decidere , ma invalicabile per gli atti di autonomia contrattuale .
Appurata, dunque, la complessità del tema appare opportuno tentare di svolgere un ragionamento ancorato, come accennato, al duplice piano su cui si proiettano gli effetti della conformazione identitaria, tanto del singolo quanto dell’organizzazione; ovvero, quella dimensione contrattuale funzionale a perimetrare l’area del dovuto anche al fine della definizione del corretto adempimento dell’obbligazione e quella dimensione costituzionale su cui si gioca la partita dell’adeguato bilanciamento dei diritti fondamentali. È quindi in questa duplice e correlata direzione che si proverà a scandagliare la tematica, tanto suggestiva quanto sfuggente, che pone a confronto (e in conflitto) l’identità del calciatore e l’identità del club.
2. Identità e contratto: rectius identità, contratti e codici
Il contratto di lavoro sportivo diviene, dunque, intersezione o “punto d’incontro” di diversi ordinamenti giuridici; un crocevia oltremodo affollato che rende improcrastinabile l’individuazione di criteri ordinatori al fine, quantomeno, di rendere razionale e funzionale l’assetto delle fonti.
La materia del lavoro sportivo, come noto, è stata oggetto di un intervento legislativo mirato ad opera della legge 23 marzo 1981, n. 91 volto a disciplinare la relazione intercorrente tra le società e gli sportivi professionisti. Una normativa, quindi, che interessa senza distinzione tutte le attività sportive (benché, come rilevato da più parti, fortemente tarata sul calcio ) ma che esclude dal proprio campo di applicazione quelle attività dilettantistiche che continuano a coinvolgere la quota più consistente di atleti sul territorio nazionale .
Il rapporto di lavoro dello sportivo (rectius dello sportivo professionista) è regolato in via principale dalle disposizioni summenzionate; ciò nonostante, già solo invocando il brocardo lex specialis derogat generali ovvero il criterio di specialità, pare convincente la conclusione secondo cui l’acclarata specialità del rapporto “se implica la presenza di una disciplina autonoma, non esclude […] l’intervento sussidiario della disciplina generale” tutte le volte in cui ciò si renda necessario perché, ad esempio, trattasi di previsione regolativa non ricompresa nella normativa speciale e con essa compatibile . Peraltro, ove il legislatore abbia inteso escludere l’applicazione di disposizioni generali lo ha esplicitamente dichiarato, basti guardare agli ultimi due commi dell’art. 4 l. n. 91/1981 che, giustappunto, esentano il lavoro dei professionisti da tutta una serie di regole, anche in ambito sindacale.
Altro requisito valido al fine di ordinare il coacervo di norme si annida nella constatazione di una chiara “enfatizzazione del ruolo dell’autonomia collettiva” , come dimostra quanto sancito dall’art. 4 in relazione al rapporto tra contratto individuale e contratto tipo “predisposto, conformemente all’accordo stipulato, ogni tre anni dalla federazione sportiva nazionale e dai rappresentanti delle categorie interessate” (comma 1) e reiterando, per di più, quel meccanismo dell’inderogabilità in pejus e della derogabilità in melius (comma 3) ben noto al diritto del lavoro.
Proprio quest’ultima disposizione, in verità, contiene indizi vantaggiosi ai nostri fini. In primo luogo, come anticipato, la dimensione collettiva svolge una funzione regolatrice fondamentale e, dunque, diviene imprescindibile nell’attività ricognitiva e interpretativa. In secondo luogo, particolare considerazione assume l’ampia e generica previsione contenuta nell’art. 4, comma 4, secondo cui “nel contratto individuale dovrà essere prevista la clausola contenente l’obbligo dello sportivo al rispetto delle istruzioni tecniche e delle prescrizioni impartite per il conseguimento degli scopi agonistici”.
La formulazione adottata, infatti, potrebbe legittimare ipotesi molto variegate così che, ad esempio, sarebbe ipotizzabile l’adozione da parte del club di regolamenti volti a disciplinare l’utilizzo dei social network o i rapporti con i media ; ancora, potrebbero prefigurarsi obblighi di partecipazione dell’atleta a manifestazioni, progetti, iniziative (pubblicitari o istituzionali) organizzati dalla società . In queste ipotesi, allora, non appare peregrina l’eventualità di contrasti ideologici tra sportivo e club in ragione dei profili identitari più disparati, dell’uno o dell’altro; né può ritenersi inusitato il rischio che tali conflitti debordino in incursioni non sempre legittime nella sfera privata del lavoratore.
I timori sono destinati ad aumentare ove si affianchi all’art. 4, comma 4, l. n. 91/1981 l’art. 10 dell’accordo collettivo siglato tra la Federazione Italiana Giuoco Calcio (F.I.G.C.), la Lega Nazionale Professionisti Serie A (L.N.P.A.) e l’Associazione Italiana Calciatori (A.I.C.) che, dopo aver riproposto la disposizione di fonte legislativa (art. 10.1), rinsalda l’obbligo di fedeltà nei riguardi della società (art. 10.2), sancisce il divieto di comportamenti che possano pregiudicare l’immagine del club (art. 10.3) e, con espressione ancora più incisiva, prevede che le prescrizioni relative “al comportamento di vita del Calciatore sono legittime e vincolanti […] soltanto se giustificate da esigenze proprie dell’attività professionistica da svolgere, salvo in ogni caso il rispetto della dignità umana”, purché accettate dallo sportivo e fermo restando che l’accettazione non può essere “irragionevolmente rifiutata” (art. 10.4).
Accantonando l’invocazione del principio di dignità, su cui si tornerà più avanti, preme evidenziare che l’allusione ad imprecisate esigenze affiancate al riferimento, non meno approssimativo, all’attività professionistica dell’atleta può divenire varco attraverso cui autorizzare ingerenze indebite nelle sfere individuali a scapito, talora, anche di principi di rango costituzionale. Vi è da chiedersi, ad esempio, se sia o meno legittima la richiesta di un club di non esibire simboli religiosi, che potrebbero anche intralciare lo svolgimento della prestazione calcistica e, altresì, se la suddetta richiesta potrebbe o meno valere indiscriminatamente per un turbante, una kippah e un crocefisso.
Colpisce, inoltre, che il vincolo sia posto (anche) nei riguardi di calciatori di serie A cioè di soggetti tendenzialmente dotati di un potere contrattuale più forte. Proprio tale consapevolezza consente di mettere a fuoco ulteriori peculiarità che possono intervenire in relazione alla posizione del lavoratore cui si possono affiancare, come vedremo, o sovrapporre o addirittura contrapporre connotazioni identitarie delle società sportive, più o meno marcate.
Sul primo versante, come detto, è dato cogliere una specificità del lavoro sportivo dinnanzi a calciatori che in forza di una elevata professionalità possono contrattare e imporre, in sede di stipula del contratto individuale, clausole e/o condizioni più favorevoli anche con l’intento di preservare maggiormente profili identitari. In altre parole, può accadere, similmente peraltro a ciò che può verificarsi per un qualunque lavoratore dotato di una professionalità apprezzabile, che quella fisiologica e immanente asimmetria del potere contrattuale intercorrente tra le parti del rapporto di lavoro si dissolva se non, addirittura, si inverta là dove il calciatore riesca, ad esempio, a far inserire nel proprio contratto una clausola che gli consenta di non giocare in occasione di alcune festività religiose (come accaduto qualche anno fa a Haim Revivo) o di non scendere in campo nella giornata destinata dalla propria confessione al riposo (così ottenne Carlos Roa, portiere del Real Mallorca) .
Sul versante societario - per quanto sia arduo rinvenire prese di posizione forti come ad esempio quella della FIV (Federazione Italiana Vela) che nel proprio Statuto si dichiara in termini perentori “apartitica, apolitica e aconfessionale” (art. 1) – un primo dato da annotare con curiosità è la diffusione tra i club di codici etici affini nella loro articolazione.
Così, ad esempio, il Codice Etico del Milan insiste sul rispetto della onestà e della correttezza e declina con precisione una serie di principi che devono orientare i comportamenti dei lavoratori . Il Codice Etico della Juventus affianca ai principi di imparzialità e probità (art. 2.1 – 2.5) la richiesta che i rapporti interni siano “improntati ai principi di una civile convivenza, lealtà e correttezza” e si svolgano “nel rispetto reciproco dei diritti e delle libertà delle persone” (art. 3.1), oltre che una netta presa di posizione contro ogni “forma di discriminazione, sfruttamento, molestia, mobbing, isolamento per motivi personali o di lavoro” sanzionate con la risoluzione del rapporto di lavoro (art. 3.6). Analogamente, il Codice etico dell’Inter sancisce l’impegno della società a garantire pari opportunità senza discriminazioni di razza, sesso, età, orientamento sessuale, handicap fisici o psichici, nazionalità, credo religioso, appartenenza politica e sindacale e a rispettare i diritti umani fondamentali (art. 4.3) e l’Hellas Verona insiste su imparzialità e non discriminazione qualificando la parità di trattamento come “valore fondamentale nello svolgimento di ogni relazione sia interna che esterna” e precisando che il club “respinge, contrasta e sanziona qualunque atteggiamento, anche solo apparentemente discriminatorio, che riguardi nazionalità, stato di salute, età, sesso, religione, orientamenti religiosi, politici, morali o filosofici, preferenze o attitudini sessuali, dei suoi interlocutori” (art. 1.5). Di pari interesse è l’efficacia cogente delle disposizioni codicistiche che integrando il regolamento contrattuale sono corredate, in caso di inosservanza, dalla previsione della sanzionabilità delle condotte .
Del resto, per quanto si riconosca che “nomi ed emblemi dei club si sono trasformati in costrutti semiotici, sovrastrutture discorsive e narrative che creano valori tra gli attori sul mercato e assicurano significato e continuità al prodotto che rappresentano” , si lamenta un impegno incompleto contro le discriminazioni e a sostegno delle diversità; un impegno che dovrebbe rinsaldarsi in diverse direzioni e che troverebbe uno snodo cruciale nella reazione a condotte dei dipendenti (e quindi anche degli atleti) non aderenti agli standard della società .
È del tutto evidente, quindi, che già sul lato contrattuale emerge un interesse per la dimensione identitaria, del singolo o del club; una dimensione che può incidere sulla conformazione della prestazione obbligatoria e la cui tutela, soprattutto, appare estremamente variabile a seconda cioè di se, quanto e come le disposizioni, legislative e collettive, siano destinate ad (e capaci di) interfacciarsi e, dunque, integrarsi con le previsioni contrattuali individuali e/o con regole aziendali.
3. Identità, diritti fondamentali e principio di eguaglianza
Le potenziali contese identitarie tra calciatore e club, come anticipato, sono destinate ad affermarsi contestualmente anche su un piano costituzionale, in ragione del contrasto che può determinarsi tra diversi diritti fondamentali; così ad esempio potrebbe accadere laddove le rivendicazioni religiose del calciatore impattassero su una posizione di neutralità di un club o qualora una società annoverasse tra i propri sponsor aziende destinatarie di azioni di boicottaggio sul mercato per il mancato rispetto dei diritti umani e un calciatore di quel club prendesse posizioni pubbliche in favore del boicottaggio. Ipotesi tutt’altro che inverosimile se si pensa, in termini non sovrapponibili ma affini, al rifiuto di indossare la maglietta con il logo dello sponsor reso da un attaccante musulmano del Newcastle, Papisse Cissè, in forza del divieto coranico di usura, a seguito della stipula di un accordo di sponsorizzazione da parte del club di appartenenza con una società di prestiti che applicava tassi di interesse elevati .
Prima di scandagliare questo filone di indagine, vi è da introdurre una duplice coordinata normativa, costituzionale ed europea, che, pur nell’economia di questo contributo, merita un accenno.
Un iniziale riferimento concerne lo spazio accordato allo sport nella Carta costituzionale e ciò al fine di verificare l’eventuale concorrenza di almeno un altro diritto (o di altri) di pari rango che potrebbero complicare ulteriormente i conflitti. In proposito, come noto, malgrado l’indiscussa portata sociale, giuridica ed economica lo sport non ha avuto una diretta copertura costituzionale e solo con la riforma del Titolo V ha trovato accoglimento esplicito nella Costituzione, pur se nella prospettiva precipua del riparto di competenze . Questo iniziale disinteresse non impedisce, tuttavia, di riconoscere l’esistenza di un legame forte tra l’attività sportiva e alcuni diritti costituzionali - dalla tutela della salute protetta dall’art. 31 ai diritti inviolabili ex art. 2; dalla libertà di associazione garantita dall’art. 18 al principio di non discriminazione -, al punto da negare che l’assenza di richiami espliciti “di un diritto allo sport sancisca l’insussistenza di un’autonoma rilevanza giuridica di tale interesse e, a fortiori, l’impossibilità di considerarlo alla stregua di un diritto fondamentale” .
In maniera pressoché speculare, per lungo tempo, l’ordinamento dell’Unione Europea non ha dedicato allo sport disposizioni di diritto primario, pur non mancando di occuparsene ; solo con le modifiche apportate a Lisbona al Trattato sul Funzionamento dell’UE, però, la materia è inserita tra le cd. competenze di sostegno (ex art. 6) e, accanto alla istruzione, formazione professionale e gioventù, diviene oggetto di un titolo del Trattato medesimo (Titolo XII, spec. art. 165).
La perdurante carenza di riferimenti normativi primari non ha impedito ai giudici europei di alimentare nel corso del tempo una giurisprudenza in materia che ha, tra l’altro, inciso sull’evoluzione degli ordinamenti e del rapporto tra gli stessi. Per quanto qui interessa, preme rammentare l’incessante lavorio della Corte di Giustizia al fine altresì di meglio definire i rapporti (e ove possibile stemperare i confini) tra ordinamento sportivo e ordinamento europeo; come accaduto a partire dal celebre caso Meca-Medina in cui i giudici affermano che “la sola circostanza che una norma abbia un carattere puramente sportivo non sottrae tuttavia dall’ambito di applicazione del Trattato la persona che esercita l’attività disciplinata da tale norma o l’organismo che l’ha emanata”, di modo che se l’attività sportiva “rientra nell’ambito di applicazione del Trattato, allora i requisiti per il suo esercizio sono sottoposti a tutti gli obblighi derivanti dalla varie disposizioni” dello stesso.
In sostanza, la giurisprudenza europea ha contribuito a scalfire l’impenetrabilità della sfera sportiva pur senza metterne in discussione l’autonomia e la specificità, semmai radicando il principio in forza del quale “la libertà di associazione e l’autonomia, di cui godono le federazioni sportive, non implica che le loro regole interne quanto ai rapporti con gli sportivi professionisti possano comprimere diritti altrettanto fondamentali dei singoli previsti dal Trattato” .
Se così è, e al di là delle pur storiche conclusioni cui la Corte era approdata con Bosman nel 1995, uno snodo significativo è ravvisabile nella funzione che il diritto antidiscriminatorio può svolgere anche in questo settore. Ancor più, come si avrà modo di verificare, alla luce del riconoscimento che il relativo principio ha conquistato nell’assetto ordinamentale europeo.
Le proiezioni che la materia sportiva genera in via diretta o indiretta sul piano costituzionale sono consistenti; così come i conflitti identitari che, sempre in questa dimensione, possono sorgere risultano variegati e oltremodo complessi. In altre parole, la pluralità di diritti e interessi, anche di rango costituzionale, che si fronteggiano ogni qualvolta individui e organizzazioni entrano in collisione proprio nella reciproca essenza identitaria sempre più pregnante per gli uni e per gli altri , si arricchisce nel campo sportivo, e nella specie calcistico, di quel valore aggiunto rappresentato dal riconoscimento accordato allo sport nei principi costituzionali nazionali e nel diritto primario europeo.
Così che allorquando un calciatore rivendica il diritto di indossare un simbolo religioso nel corso di manifestazioni sportive o un club (o una federazione sportiva) introduce nel proprio Codice etico un principio di neutralità religiosa e politica ad entrare in gioco sono non solo, in via esemplificativa, il diritto alla libertà religiosa e/o la libertà dell’iniziativa economica privata ma, potenzialmente, la libertà di associazione oltre che quei diritti inviolabili garantiti all’uomo “sia come singolo, sia nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità”.
E su questo versante, evidentemente ultroneo rispetto a quello contrattuale, interviene il diritto antidiscriminatorio, in particolare di matrice europea, e il principio ad esso connesso, entrambi rafforzati, è bene rammentarlo, nel corso di quella lunga marcia intrapresa dall’Europa verso la piena consacrazione dei diritti fondamentali. Un percorso travagliato e tortuoso ma sorretto, nel secolo corrente, dall’inaugurazione di una nuova stagione del diritto antidiscriminatorio , dalla proclamazione della Carta dei diritti fondamentali dell’Ue, nonché, dall’entrata in vigore del Trattato di Lisbona che dota la Carta di Nizza di una “veste giuridica vincolante” e dispone, ponendo le basi per la realizzazione di un “sogno antico” , l’adesione dell’Unione alla CEDU (art. 6 TUE) .
Per quanto concerne il diritto antidiscriminatorio europeo, malgrado la battuta d’arresto dovuta a diversi fattori tra cui (ma non solo) la crisi economica e finanziaria dell’ultimo decennio, è indubbio che quel blocco di direttive emanato dall’Unione a partire dall’anno 2000 sulla base dell’art. 19 TFUE (ex art. 13 TFUE) ha rappresentato uno snodo nevralgico innovando l’ordinamento europeo, e di rimando quelli domestici, su diversi aspetti: dall’estensione dei motivi discriminatori all’articolazione della medesima fattispecie, dalla ripartizione dell’onere probatorio alla pretesa di avere, da parte degli Stati, sanzioni effettive, proporzionate e dissuasive, giusto per citarne alcuni.
Il grand tournant del diritto discriminatorio ha trovato, e seguita a trovare, linfa nella giurisprudenza europea che, quale “esempio eccezionale di attivismo giudiziario” , ha giocato (ieri) un ruolo fondamentale nella formazione di quella porzione di diritto - posto che diverse disposizioni altro non sono che codificazioni di orientamenti della Corte - e gioca (oggi) un ruolo altrettanto vitale nell’interpretazione di quelle identiche disposizioni.
A riprova è sufficiente richiamare l’unica pronuncia in cui la Corte è stata interrogata su questioni connesse all’orientamento sessuale nel mondo dello sport , ovvero il noto caso che ha avuto quale protagonista un azionista e importante dirigente di una squadra di calcio che, dinnanzi alla possibilità del trasferimento di un giocatore con presunte tendenze omosessuali, ha rilasciato dichiarazioni omofobe e razziste nei riguardi delle persone con tendenze sessuali di tal tipo .
Al di là delle prerogative pur importanti della sentenza , preme mettere in luce che la pronuncia acquisisce rilevanza nella prospettiva di queste riflessioni non solo (e non tanto) perché ripropone l’orientamento della Corte circa l’interesse del diritto europeo nei riguardi dell’attività sportiva che non può essere sottratta alle regole dei Trattati quanto, piuttosto, per ruolo e funzione che i divieti discriminatori svolgono nel caso concreto ovvero dinnanzi ad un episodio di discriminazione per orientamento sessuale perpetrato ai danni di un calciatore in ragione della sua presunta identità sessuale. Così che, anche nello sport, i divieti discriminatori intervengono a controllare e limitare, ove necessario, il potere privato in forza della loro connessione con i diritti fondamentali e con il principio di uguaglianza, poiché, è bene rammentarlo, questi divieti sono “nell’area dei controlli ai poteri privati ad opera dei diritti fondamentali e non delle tecniche di stampo civilistico” e il principio di non discriminazione è volto, tra l’altro, a “tradu(rre) sul piano dei rapporti interprivati il principio di eguaglianza” .
Sempre con riguardo al principio di non discriminazione, vi è da rimarcarne l’approdo giurisprudenziale, pur se trattasi, in verità, di approdo tutt’altro che saldo, come il recente caso Abercrombie ha mostrato . Con Mangold , difatti, i giudici riconoscono efficacia orizzontale al principio di non discriminazione e nel caso Kücükdeveci insistono sulla sua qualificabilità quale principio generale dell’Unione. Ancora, nella vicenda ASM la Corte ribadisce che il principio di non discriminazione “è di per sé sufficiente per conferire ai singoli un diritto soggettivo invocabile in quanto tale” (punto 47). Queste conclusioni sono ribadite nella decisione Dansk Industri , così come il meccanismo per cui “un giudice nazionale, investito di una controversia tra privati […] è tenuto, nel momento in cui attua le disposizioni del suo diritto interno, a interpretarle in modo tale che esse possano ricevere un’applicazione conforme” al diritto europeo “oppure, qualora una siffatta interpretazione conforme fosse impossibile, a disapplicare, se necessario, qualsiasi disposizione” del diritto interno contrastante con il principio generale di non discriminazione (punto 43).
Se allora tale principio è un principio generale, e dunque si sottrae alla logica delle competenze, è possibile riconoscergli una “operatività (che) taglia trasversalmente tutto l’ordinamento comunitario” ; al contempo, può essere impiegato, per il tramite dei divieti discriminatori, quale criterio ordinatore del sistema valevole per gli atti normativi nonché per le condotte azionate nei rapporti interprivati anche quando, per l’appunto, tali condotte coinvolgano un giocatore di calcio, un club o entrambi.
In altre parole, anche in questo settore i conflitti identitari allorquando si proiettano nella dimensione costituzionale (ri)propongono una evidente questione (e attività) di bilanciamento tra diritti contrapposti e di pari rango; un’attività di tal tipo, tuttavia, non può prescindere dalla piena consapevolezza del ruolo e della funzione assegnati al principio di non discriminazione e, come si vedrà a breve, dello stretto legame che intercorre tra non discriminazione, uguaglianza, lavoro e dignità.
4. Osservazioni conclusive
Le brevi riflessioni svolte consentono di compiere un ulteriore passo in avanti nello studio delle ripercussioni che l’identità dei lavoratori e delle organizzazioni riverbera nel rapporto di lavoro. Il condizionamento che i tratti identitari del lavoratore piuttosto che quelli dell’organizzazione produce sullo svolgimento, e dunque sulla regolazione, della relazione lavorativa è oramai apodittico.
Nella prospettiva offerta dal settore sportivo, e ancor meglio calcistico, il fenomeno riproduce i suoi connotati essenziali e comuni talora anche in modo più eclatante in ragione di una varietà di motivazioni tra cui, di non residuale valore, è la consapevolezza della valenza economica, sociale e simbolica che contrassegna le vicende calcistiche già solo nella nostra esperienza nazionale.
Le ricadute che l’esplosione delle identità produce, in generale, nello svolgimento del rapporto di lavoro sportivo e, più in particolare, nel rapporto di lavoro calcistico sono rese ben evidenti dagli effetti che si determinano sia sul piano contrattuale in senso stretto, sia sul piano ordinamentale in senso lato (e costituzionale più nello specifico).
A fronte di ciò diviene imprescindibile ipotizzare una serie di limitazioni che possano, su entrambi i versanti, contenere e riequilibrare, in una prospettiva coerente con la Carta Costituzionale e con i principi europei, pretese e poteri che altrimenti potrebbero rischiare di minare e alterare oltremodo il già precario equilibrio tra le parti del contratto se non, addirittura, aggredire e sacrificare diritti fondamentali.
Ancor più, poi, a fronte di una tendenza oramai radicatasi verso un ampliamento, in via quantitativa e qualitativa, della prestazione debitoria ovvero un allargamento dei confini dell’obbligazione lavorativa in un contesto, è bene rammentarlo a scanso di equivoci, in cui “la fine del fordismo non ha significato la fine dell’autorità dell’impresa” che anzi, forse, in un certo senso appare oggi ancora più imperante.
Non è possibile in questa sede ripercorrere, con i dovuti e necessari adeguamenti, quella teoria dei limiti ipotizzata al fine di contenere, in un quadro coerente con il sistema costituzionale ed europeo, le tensioni prodotte all’interno dei luoghi di lavoro e nei modi più disparati dalle pretese identitarie delle parti del rapporto . Viceversa, sembra possibile se non essenziale svolgere una duplice precisazione volta, da un lato, a chiarire gli ambiti entro cui i limiti dovrebbero operare e, dall’altro lato, a rimarcare la funzione che, anche in questo contesto peculiare, potrebbe svolgere quel punto archimedico dell’ordinamento rappresentato dal principio di dignità.
Quanto al primo aspetto, se i contraccolpi identitari insistono tanto nello svolgimento del contratto, quanto nel godimento di diritti fondamentali è indubbio che, anche qui, è su entrambi questi livelli che dovranno individuarsi tecniche, norme, criteri e principi limitatori; ed è altrettanto palese che, l’acclarata transizione “dall’aspirazione all’armonia perduta del sistema logico al diverso paradigma conoscitivo segnato dalla logica plurale della differenziazione e interrelazione sistemica” ovvero “dal sistema alla complessità dei sistemi” non sacrifica la razionalità dell’ordinamento giuridico visto che, come insegnato dalla migliore dottrina , complessità e razionalità non generano antinomie ma complementarietà nel diritto e avanzamento nel pensiero giuridico.
Pertanto, il sistema di limiti deputato a contenere le derive identitarie e le relative pretese dell’una o dell’altra parte non può che innestarsi, al contempo, sul piano contrattuale e su quello costituzionale con un lavoro incessante di integrazione di limiti e di piani, a seconda cioè di quale vincolo, sia più funzionale attivare e/o su quale piano convenga spingersi.
In questo sistema di limiti - di cui peraltro il principio di non discriminazione diviene perno quale limite generale e di chiusura - è improcrastinabile un riferimento alla dignità la cui tutela e protezione è, per l’appunto, affidata al suddetto principio per il tramite dei divieti discriminatori.
Più in generale, l’esistenza di un legame essenziale tra uguaglianza, dignità e lavoro è notoria; un legame che si badi vive e si nutre di circolarità e non di priorità o preminenza di un principio sull’altro. Vale a dire che se è vero, come pare, che dietro la non discriminazione e l’uguaglianza si staglia la dignità , che entrambe (non discriminazione e uguaglianza) rappresentano “il paradigma costituzionale del diritto del lavoro” e che, in forza della compenetrazione tra dignità e persona, il lavoratore, più di ogni altra categoria, fornisce “diretta concretezza all’homo dignus” ; allora è proprio la triade eguaglianza/dignità/lavoro a porsi quale crocevia essenziale per un modello di società democraticamente sostenibile, così come il medesimo circuito virtuoso (eguaglianza/dignità/lavoro) dovrebbe guidare l’interprete nella sperimentazione di modelli altrettanto virtuosi di sistemi giuridici. Modelli e sistemi da cui, a ben vedere, non possono e non devono ritenersi esenti calciatori e club il cui campo di azione - piaccia o meno poco rileva - è un vero e proprio palcoscenico su cui mostrare un bel gioco e vincere una partita dovrebbe valere tanto quanto sperimentare buone prassi e pratiche di rispetto dei diritti fondamentali, non foss’altro per l’ineguagliabile primato mediatico e l’ineffabile forza emulativa di cui sia gli uni che gli altri dispongono.