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La subordinazione dello sportivo: un rapporto speciale
La grande popolarità che accompagna le star del pallone spesso fa dimenticare al grande pubblico un fatto molto importante, dal punto di vista giuridico e gestionale: gli atleti (e gli allenatori) sono lavoratori subordinati, cui si applicano in larga misura le regole previste per tutti gli altri lavoratori, fatte salve alcune regole speciali contenute nella legge 91/1981.
Sono lavoratori subordinati molto particolari, sia perché la prestazione lavorativa si concretizza nello svolgimento di un’attività sportiva, sia perché sono chiamati ad operare in un settore che è costantemente sotto i riflettori dei media e dei tifosi.
Questa grande visibilità – e la conseguente popolarità che ne deriva per i campioni più affermati – rende molto difficile l’interazione tra le figure manageriali, gli allenatori e gli atleti; le società calcistiche, infatti, si trovano nella difficile situazione di dover gestire – compiendo, a volte, anche scelte impopolari – dei “dipendenti” che hanno (giustamente) un forte ascendente sui tifosi e sull’ambiente.
L’applicazione di un provvedimento disciplinare verso un campione che viola le regole della squadra, l’interruzione del rapporto con un tecnico che non rispetta le direttive societarie, l’investimento su un giocatore tecnicamente meno dotato di un altro ma ritenuto più adatto dal punto di vista caratteriale: sono solo alcuni esempi di come le società possono compiere scelte aziendali che sarebbero normali in altri campi di attività, ma diventano difficili e impegnative in un settore – come quello del calcio – dove il giocatore sanzionato o l’allenatore esonerato sono gli idoli dei tifosi, cioè della linfa vitale che alimenta e sostiene la vita di una società sportiva.
Questa situazione genera una forte pressione sui manager e le aziende, che non possono sbagliare nessuna scelta che riguarda i propri atleti e tecnici; pressione aumentata dal fatto che i tifosi del calcio sono, mediamente, estremamente informati e competenti.
All’edicola, al bar, alla fermata dell’autobus c’è sempre qualcuno pienamente informato su quello che accade sul campo e nello spogliatoio, in grado di valutare e analizzare in dettaglio qualsiasi scelta aziendale.
Il datore di lavoro sportivo può gestire questa grande complessità, a mio avviso, in un solo modo: sfuggendo alla tentazione di cercare la popolarità di breve periodo e il consenso costante dei tifosi, ma portando avanti idee e programmi che, seppure impopolari nell’immediato, possano aiutare la squadra a raggiungere i propri traguardi sportivi.
Questo non significa che i tifosi vanno ignorati: senza la loro passione, affetto e sostegno, una squadra di calcio non potrebbe esistere. Significa solo che, anche nel loro interesse, una società di calcio deve utilizzare criteri manageriali che sfuggono all’emotività e guardano all’interesse e alla programmazione di medio e lungo periodo.

L’avvento delle proprietà straniere
Nel passato, al tempo dei presidenti – mecenati che investivano nel calcio per dare sfogo a una passione personale, questo approccio era molto più difficile da portare avanti.
Con l’avvento delle proprietà straniere, c’è stata una spinta positiva verso un approccio più manageriale delle squadre di calcio, anche perché molte di queste proprietà hanno trasferito dentro le società sportive la cultura aziendale dei gruppi imprenditoriali di provenienza.
C’è sempre qualche nostalgico che vede nell’arrivo dei gruppi stranieri un fatto negativo, ma l’esperienza concreta di questi anni – non solo in Italia ma nei principali campionati europei – dimostra che una proprietà straniera non è buona o cattiva per definizione, ma è un valore aggiunto se porta idee, capitali e persone nuove nel mondo del calcio.
La critica più frequente che viene fatta a questo “passaggio di consegne” dal presidente mecenate all’investitore straniero è che quest’ultimo sarebbe mosso solo dalla volontà di fare profitto, al contrario del vecchio padre-padrone disposto ad andare in rovina pur di far vincere la propria squadra.
Comprendo bene il fascino di queste figure, ma nell’attuale scenario economico una squadra di calcio non può non essere gestita con rigidi criteri imprenditoriali: la competizione con i grandi club europei, le regole del fair play finanziario e la grande complessità degli investimenti finanziari che servono per gestire una squadra che compete per traguardi importanti non sarebbero gestibili senza un management fortemente impegnato alla ricerca dell’equilibrio economico.
Un presidente mecenate, oggi, faticherebbe a reggere la competizione internazionale, e anche se decidesse di investire tutto il suo patrimonio sulla squadra non avrebbe la garanzia di tenere il passo di club organizzati e gestiti con modelli più imprenditoriali.
Questa impostazione ha un impatto diretto sul rapporto con gli sportivi, di cui si faceva cenno prima: tanto più l’organizzazione della squadra cerca di seguire criteri aziendali, quanto più il manager sportivo deve cercare di prendere decisioni e fare delle scelte che possono anche essere impopolari tra i tifosi, la cui passione e il cui amore vanno rispettati anche in questo modo.

Calciatori e social media
La gestione del rapporto di lavoro con gli sportivi è resa oggi più difficile anche dall’avvento dei social media. La comunicazione oggi è cambiata in maniera radicale, e non passa più solo attraverso i giornali e le televisioni; i calciatori e gli allenatori hanno propri account sui principali social network dai quali possono mandare messaggi che una grande potenza mediatica, e possono mettere in difficoltà le società o creare tensioni nell’ambiente con una semplice fotografia o con un messaggio di poche righe.
Si può provare a regolamentare il fenomeno adottando delle regole – linee guida, policy e simili – di gestione degli account, ma queste sono facilmente aggirabili facendo ricorso a chi sta intorno all’atleta (parenti, amici, procuratori).
Alla fine, lo strumento migliore per gestire e prevenire “incidenti” resta quello del dialogo: il calciatore deve capire l’impatto e le conseguenze che possono avere i propri messaggi sui social media, arrivando a comprendere che la corretta gestione di questi strumenti è uno degli aspetti su cui può essere valutata la sua prestazione. Non il principale, perché il campo resta il luogo dove si misura l’atleta, ma nemmeno del tutto irrilevante se si vuole diventare un vero campione.
I social media possono essere gestiti anche per intervenire sui temi controversi di attualità; le Società non hanno il potere di impedire agli atleti di esprimere il proprio pensiero sul mondo che li circonda, ma personalmente ritengo che un atteggiamento di prudenza e sobrietà sia assolutamente consigliabile. Si tratta di ragazzi spesso molto giovani, che stanno completando il proprio percorso di crescita personale ma già hanno una forte influenza su tutto il mondo che li circonda. Il rischio di compiere qualche scivolone è sempre dietro l’angolo.

Procedure arbitrali e contenzioso
Uno degli aspetti dove il rapporto di lavoro dello sportivo è gestito diversamente rispetto a quello ordinario è la procedura disciplinare.
Il lavoratore sportivo, come gli altri lavoratori subordinati, è tenuto al rispetto dei doveri di diligenza (art. 2104) e fedeltà (art. 2105) previsti dal codice civile.
Se questi doveri vengono violati, la Società sportiva può reagire esercitando il potere disciplinare, avviando una specifica procedura disciplinata nel Contratto Collettivo di categoria, firmato nel 2012 tra Federazione Italiana Giuoco Calcio (Figc), Lega Nazionale Professionisti Serie A (Lnpa) e l’associazione Italiana Calciatori (Aic) e in attesa di rinnovo (le parti si sono date il termine il 30 giugno 2020, sancendo in via transitoria la validità del testo attuale).
L’art. 11 dell’Accordo vigente prevede le sanzioni applicabili al calciatore che viene meno ai suoi doveri: secondo la gravità della condotta, la Società può applicare l’ammonizione scritta, la multa, la riduzione della retribuzione, l’esclusione temporanea dagli allenamenti o dalla preparazione precampionato con la prima squadra e, infine, la risoluzione del Contratto.
Questi provvedimenti possono essere applicati, tuttavia, solo seguendo specifiche procedure: la Società può procedere entro il termine perentorio di 20 (venti) giorni dalla conoscenza del fatto, e solo dopo aver preventivamente contestato per iscritto il comportamento e aver ascoltato la difesa del calciatore nei cinque giorni successivi alla contestazione.
In questa fase, il calciatore può presentarsi di persona, eventualmente assistito da un legale o da un rappresentante sindacale, oppure può far pervenire le proprie difese per iscritto.
All’esito del procedimento disciplinare, la società prenderà le proprie decisioni e stabilirà le sanzioni da irrogare ai singoli calciatori.
L’Accordo Collettivo, per quanto riguarda la multa, prevede una doppia procedura, a seconda dell’importo della sanzione. Se la multa irrogata resta entro il limite del 5% di un dodicesimo della retribuzione fissa annua lorda, la società può effettuare direttamente la trattenuta sullo stipendio successivo.
Il calciatore può, in tal caso, impugnare la multa seguendo il rito accelerato previsto dal regolamento del Collegio Arbitrale, con ricorso da presentarsi entro il termine perentorio di 15 (quindici) giorni dalla comunicazione della sanzione.
La procedura cambia se la multa supera il 5% della retribuzione (arrivando sino al tetto massimo del 25%). In questo caso, la multa può essere applicata solo dopo il ricorso al Collegio Arbitrale, cui il calciatore si può rivolgere entro 30 giorni.
Per quanto riguarda il contenzioso, non ci sono dati numerici affidabili ma, in generale, mi sembra che nel calcio professionistico le controversie tra atleti e calciatori che arrivano di fronte a un’aula di Tribunale sono pochissime; la forte attenzione dei tifosi, la mediazione degli agenti, e la disponibilità delle società di risolvere sul piano economico eventuali conflitti propri atleti sono tutti elementi che spingono verso la composizione spontanea delle liti, anche quelle più aspre.

Conclusioni: verso una nuova disciplina del lavoro sportivo
Il futuro del calcio professionistico lo possiamo intravedere già oggi. Le competizioni internazionali sono destinate a diventare sempre più importanti, ma non va perso il radicamento con i territori, che sono la linfa vitale che alimenta la passione e il tifo. La maggiore competitività può essere finanziata con le ingenti risorse che derivano dai contratti televisivi, dal potenziamento del marketing e dal maggiore sfruttamento degli impianti sportivi.
Questa grande trasformazione verso strutture di gestione aziendali più moderne, può e deve essere accompagnata da una modernizzazione delle regole, anche di quelle che governano il rapporto di lavoro degli sportivi.
Molti dei temi di cui abbiamo fatto cenno prima non trovano regolazione completa e soddisfacente nella legge 91/1981, una disciplina che ha svolto un ruolo importante per lo sport professionistico ma ora, inevitabilmente, mostra i segni del tempo.
È necessario iniziare a riflettere su un rinnovamento di tale disciplina, che consenta di ripensare la posizione e il ruolo dello sportivo professionista, che è sicuramente un lavoratore subordinato ma è anche – e direi ormai soprattutto – un personaggio che, quanto meno nelle serie più importanti, ha davvero poco da spartire con un normale lavoratore dipendente, potendo trattare il proprio contratto in una posizione di indubbia forza negoziale, avvalendosi dei migliori professionisti disponibili e dettando le condizioni economiche alle società.
Certamente, la realtà è molto più variegata nelle serie minori e nelle squadre meno importanti, ma ciò non toglie che, a mio avviso, bisogna ripensare le regole del professionismo sportivo evitando di trattare l’atleta e l’allenatore come contraenti deboli del rapporto.
Partendo da questa nuova prospettiva, bisogna decidere come regolare gli aspetti tipici del lavoro sportivo professionistici: la struttura retributiva, la gestione dell’immagine, la possibilità di disciplinare la comunicazione, gli impegni e i doveri da rispettare nella vita privata, le regole disciplinari, e così via.
La revisione della legge 91 dovrebbe, infine, dare uno spazio maggiore alla contrattazione collettiva di settore, finora poco sviluppata: le associazioni di categoria dei calciatori, degli allenatori e dei dirigenti sportivi, da un lato, e le leghe professionistiche, dall’altro, dovrebbero avere uno spazio maggiore per contrattare e definire le regole del lavoro sportivo.

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