Testo Integrale con note e bibliografia     Testo della Sentenza

Sommario: 1. Premessa.- 2. La fase ascendente. – 3. La sentenza della CGUE del 19 luglio 2017, C-143/16. – 4. La fase discendente: la sentenza della Cassazione del 21 febbraio 2018, n. 4223.
1.Premessa.
Le discriminazioni per ragioni di età hanno progressivamente assunto, nel contesto del diritto antidiscriminatorio europeo , un ruolo sempre più importante nella giurisprudenza della Corte di giustizia.
Le origini del divieto di discriminazione per ragioni di età non sono, però, così antiche.
Basti pensare che solo nel 1999 la Commissione affermava che:
“Negli stati membri esistono pochissime disposizioni legislative sulla discriminazione in base all’età”.
Malgrado ciò, il “fattore cenerentola ” ha finito per conquistare il centro della scena europea offrendo alla Corte di giustizia la possibilità di chiarire il suo pensiero in una serie notevole di pronunce, molte delle quali assegnate alla grande sezione della Corte .
La riconduzione del divieto di discriminazione per età nel novero dei principi generali dell’ordinamento dell’Unione europea risale alla fondamentale sentenza Mangold.
Il caso Mangold, al di là delle critiche a cui è stata sottoposta , ha aperto le porte ad una fitta serie di pronunce della Corte di giustizia.
La sentenza più importante, in questo contesto, rimane la famosa sentenza Kucukdeveci del 2010, che confermando il “messaggio costituzionale” contenuto nella Mangold ha ribadito la natura di principio generale del divieto di discriminazioni per ragioni di età facendo riferimento, per la prima volta, alla Carta di Nizza che dopo l’entrata in vigore del Trattato di Lisbona ha carattere vincolante .
In queste brevi note si esaminerà, peraltro, solo la vicenda Abercrombie.
2. La fase ascendente.
Prima di tutto, il caso.
Il ricorrente era stato assunto dalla società con “contratto a chiamata a tempo determinato” di iniziali quattro mesi e poi prorogato in relazione al fatto che alla data di assunzione aveva meno di 25 anni ed era disoccupato.
Dall’1/1/2002 il contratto c.d. intermittente era stato convertito in contratto a tempo indeterminato senza specificazione delle ipotesi legittimanti previste dal d.lgs 276/03.
Ultimato il piano di lavoro (in data 26/7/2012), il lavoratore non era stato più inserito nella programmazione e gli era stato comunicato che avendo egli compiuto 25 anni ed essendo venuto meno il requisito soggettivo dell’età, il rapporto di lavoro era da considerarsi cessato alla suddetta data.
La Corte di appello di Milano, riformando la sentenza di primo grado, riteneva proponibile le domande avanzate dal ricorrente.
Per quanto riguarda il comportamento discriminatorio, la Corte di appello di Milano sottolineava come l’unico requisito rilevante al momento dell’assunzione del ricorrente, ai sensi dell’art. 34 del d.lgs n. 276/03 , fosse quello anagrafico (meno di 25 anni o più di 45).
La Corte di appello, richiamando le sentenze Mangold e Kucukdeveci, affermava che “nessuna ragionevole giustificazione è ravvisabile nel fatto che, per il solo compimento del 25 anno, il contratto debba essere risolto” evidenziando “il contrasto tra quanto disposto dal comma 2 dell’art. 34 del d.lgs n. 276/03 ed i principi affermati dalla direttiva 2000/78 la cui efficacia diretta non può essere messa in discussione essendo essa espressione di un principio generale dell’Unione Europea”.
Ritenuto il carattere discriminatorio della norma censurata, la Corte milanese condannava la società a riammettere l’appellante nel posto di lavoro con il risarcimento dei danni subiti.
La Corte di cassazione, preferendo “evitare lo sdrucciolevole terreno della disapplicazione ”, percorso in silenzio dalla Corte di merito ha rimesso la questione alla Corte di giustizia.
La scelta operata dalla Suprema Corte appare assolutamente corretta.
L’art. 267 TFUE stabilisce un obbligo di rinvio solo in capo agli organi giurisdizionali “avverso le cui decisioni non possa proporsi un ricorso giurisdizionale di diritto interno”, mentre gli altri organi hanno una facoltà di rinvio.
La ratio della previsione dell’obbligo di rinvio in capo alle giurisdizioni di ultima istanza risiede, evidentemente, nel fatto che esse costituiscono l’ultima sede in cui è possibile operare il rinvio. A tale ragione, però, si aggiunge la considerazione che tale obbligo “mira ad evitare che in uno Stato membro si consolidi una giurisprudenza nazionale in contrasto con le norme comunitarie ”.
L’obbligo per il giudice di ultima istanza di operare il rinvio non impedisce, però, che lo stesso possa compiere una valutazione in ordine alla fondatezza del dubbio interpretativo.
La questione fu affrontata dalla Corte di giustizia nella fondamentale sentenza CILFIT del 1982 .
La sentenza chiarì che il giudice nazionale di ultima istanza può astenersi da sottoporre la questione pregiudiziale alla Corte di giustizia quando la corretta applicazione del diritto dell’UE si impone “con tale evidenza da non lasciare adito ad alcun ragionevole dubbio”(c.d. teoria dell’atto chiaro).
Il principio viene enunciato in termini restrittivi (non deve esistere “alcun ragionevole dubbio”) e circondato da ulteriori cautele, attraverso l’affermazione che il giudice nazionale deve “maturare il convincimento che la stessa evidenza si imporrebbe anche ai giudici degli Stati membri e alla Corte di giustizia” e rammentando che l’interpretazione delle norme UE comporta un raffronto tra le varie versioni linguistiche, la considerazione del suo contesto e del suo stato di evoluzione (punti nn. 16-20 della sentenza CILFIT).
Nella specie, La Corte di legittimità non ha ravvisato gli estremi del c.d. atto chiaro.
In mancanza di un precedente specifico sul tema, la Suprema Corte ha, quindi, ritenuto, di effettuare un rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia al fine di sapere se la normativa italiana si pone in contrasto con il “principio generale di non discriminazione in base all’età di cui alla direttiva 2000/78/CE e all’art. 21 della Carta dei diritti fondamentali”.
Scelta condivisibile, perlomeno, per due ragioni.
In primo luogo, perché si pone in linea con quanto enunciato nella sentenza CILFIT.
In secondo luogo, perché ribadisce, sia pure implicitamente, che il compito di assicurare la c.d. monofilachia europea spetta alla Corte di giustizia, sia pure con la collaborazione dei giudici nazionali.
3. La sentenza della CGUE del 19 luglio 2017, C-143/16.
La Suprema Corte, con la sua questione pregiudiziale, ha chiesto, in sostanza, se l’art. 21 della Carta nonché l’art. 2, paragrafo 1, l’art. 2, paragrafo 2, lett. a), e l’art. 6, paragrafo 1, della direttiva “debbano essere interpretati nel senso che essi ostano ad una disposizione, quale quella di cui al procedimento principale, che autorizza un datore di lavoro a concludere un contratto di lavoro intermittente con un lavoratore che abbia meno di 25 anni, qualunque sia la natura delle precisazioni da eseguire e a licenziare detto lavoratore al compimento del 25 anno”.
Nell’esaminare la questione, la Corte doveva scegliere se esaminarla alla luce del diritto primario e/o della direttiva.
La Corte sceglie di esaminarla alla luce del direttiva (punto 17), secondo un orientamento consolidato .
In realtà, come precisa l’Avvocato generale BOBEK nelle conclusioni del 23 marzo 2017, assumere la direttiva come ambito di analisi principale “non preclude in alcun modo la contestuale applicabilità dell’art. 21, paragrafo 1, della Carta. Infatti, fintantoché le disposizioni in questione rientrano nell’ambito del diritto dell’Unione attraverso l’applicazione della direttiva 2000/78, l’ambito di tutela della Carta trova applicazione in forza del suo articolo 51, paragrafo 1” .
In sostanza, il rapporto tra l’art. 21 della Carta e la direttiva non è di reciproca esclusione ma, viceversa, di attuazione e complementarietà.
Affermazioni di grande importanza che comporta, perlomeno, tre ricadute operative.
La prima consiste nel ritenere rilevante l’art. 21 della Carta nell’interpretazione del diritto derivato dell’Unione e del diritto nazionale “rientrante nell’ambito di applicazione del diritto dell’Unione”.
La seconda comporta che le disposizioni della Carta rappresentano il criterio “di rifermento ultimo per la validità del diritto derivato dell’Unione”.
La terza attiene alla possibilità di ricorrere al “principio generale” laddove l’applicazione della direttiva sia ostacolata dal fatto che la controversia riguarda soggetti privati.
La seconda questione che la Corte ha esaminato attiene alla qualifica come “lavoratore” del Bordonaro, ai sensi dell’art. 45 TFUE.
La Corte, in primo luogo, ha ricordato la nozione “comunitaria” di lavoratore caratterizzata dalla circostanza “che una persona fornisca, per un certo periodo di tempo, a favore di un’altra e sotto la direzione di quest’ultima, prestazioni in contropartita delle quali riceva una retribuzione”.
A questi elementi, la Corte aggiunge che, in una valutazione globale del rapporto di lavoro del sig. Bordonaro “siano presi in considerazioni elementi relativi non solo alla durata del lavoro e al livello della retribuzione, ma anche all’eventuale diritto a ferie retribuite, alla continuità della retribuzione in caso di malattia, all’applicabilità al contratto di lavoro di un contratto collettivo, al versamento di contributi e, nel caso, alla natura di questi ultimi”.
“E’ dunque verosimile”, afferma la Corte, “che il contratto di lavoro del sig. Bordonaro sia tale da consentirgli di avvalersi della qualità di lavoratore (…) considerato che non si può ritenere che la sua attività “sia stata puramente marginale e accessoria” (punti 20-22).
Valutazione, finale, che la Corte demanda al giudice di rinvio (punto 23).
Le affermazioni della Corte sono state criticate (“un fuor d’opera”) da chi evidenzia che l’ambito della direttiva 2000/78 “ha un ambito di applicazione più ampio (del lavoro subordinato) in quanto ricomprende anche l’accesso al lavoro autonomo”.
Resta il fatto che la riflessione sulla nozione “comunitaria” di lavoro subordinato resta centrale al momento attuale.
Basti pensare all’incerta qualificazione della nuove forme di lavoro digitale.
Il passaggio successivo della Corte attiene all’esame del problema della “disparità di trattamento”.
Comparabilità non significa essere identici.
Come ricorda l’Avvocato generale, si tratta soltanto di esaminare se, “rispetto a una determinata qualità (ossia, il tertium comparationis, che può essere un valore, un obiettivo, un’azione, una situazione) gli elementi di paragone (quali persone, imprese, prodotti) dimostrino più analogie o più differenze”.
Esame che deve essere condotto non in maniera generale e astratta, bensì in modo specifico e concreto in riferimento alla prestazione di cui trattasi .
Sulla base di queste premesse, la Corte, esaminato l’art. 34 del d.lgs 276/2003, ha constatato l’esistenza di una disparità di trattamento basata sull’età (punto 28) .
A questo punto, la Corte ha affrontato il problema della “giustificazione” della norma interna (in base all’art. 6, paragrafo 1, della direttiva 2000/78).
In sostanza, la Corte ha esaminato se la disparità di trattamento accertata potesse essere oggettivamente giustificata da una finalità legittima e se i mezzi impiegati per conseguire tale finalità fossero appropriati e non sproporzionati rispetto a quanto necessario per conseguire la finalità perseguita.
Sulla finalità legittima, la risposta della Corte appariva scontata, considerato l’ampio margine di discrezionalità di cui godono gli Stati non solo nella scelta di perseguire uno scopo determinato fra altri in materia di politica sociale e di occupazione, ma anche nella definizione delle misure atte a realizzarlo .
La promozione delle assunzioni, peraltro, costituisce una finalità legittima di politica sociale e dell’occupazione degli Stati membri, in particolare, quando si tratta di favorire l’accesso dei giovani all’esercizio di una professione
Sotto questo profilo, il governo italiano aveva indicato una serie di obiettivi alla base della misura quali: la promozione della flessibilità nel mercato del lavoro al fine di aumentare il tasso di occupazione; favorire l’inserimento dei giovani nel mercato del lavoro; fornire un’opportunità di prima occupazione.
Obiettivi che, in linea di principio , possono, certamente costituire una finalità legittima.
Ed in questo senso si è espressa la Corte (punto 39).
Ma il vero punto critico era un altro: la proporzionalità dei mezzi impiegati.
L’Avvocato generale, infatti, aveva evidenziato, rispetto al fine generale di promuovere la flessibilità nel mercato del lavoro, come non fosse chiaro “perché l’onere di realizzarlo dovrebbe gravare soltanto su specifiche fasce di età” con il risultato di esporre i giovani lavoratori al rischio “di restare confinati nei gruppi più precari del mercato del lavoro”.
Rispetto all’obiettivo di promuovere l’occupazione giovanile non appariva coerente la previsione del licenziamento automatico al compimento dei 25 anni di età che “sposta semplicemente il problema, rinviando la disoccupazione alla fascia di età successiva”.
Quanto alla finalità di fornire ai giovani un’opportunità di prima occupazione, la norma risulterebbe inefficace perché non richiede che i giovani da assumere con contratto intermittente siano privi di una pregressa esperienza professionale, ma “fà riferimento unicamente all’età”.
Per tali ragioni, l’Avvocato generale riteneva opportuno demandare al giudice del rinvio l’esistenza, in concreto di una finalità legittima e la proporzionalità dei mezzi impiegati.
La Corte è stata di parere opposto ritenendo i mezzi adoperati per il conseguimento delle finalità descritte dal governo italiano “appropriate e necessarie” (punto 46) “considerato l’ampio margine discrezionale riconosciuto agli Stati membri”.
Affermazione che non si fa carico delle osservazioni dell’Avvocato generale non delegando, peraltro, al giudice del rinvio alcun margine di valutazione.
La conclusione a cui perviene la Corte di giustizia è stata criticata da una parte della dottrina .
In realtà, il mancato rinvio al giudice del rinvio desta più di una perplessità.
Non spetta alla Corte pronunciarsi sulle interpretazioni del diritto interno, compito che incombe esclusivamente ai giudici nazionali competenti.
La Corte, nel pronunciarsi sul rinvio pregiudiziale, può fornire precisazioni dirette a guidare il giudice nazionale nella sua valutazione, ma non può sostituirsi ad esso, come ribadito nella recente sentenza della Corte di giustizia (sempre in tema di discriminazione per ragioni di età) del 28 febbraio 2018, C-46/17.
Resta il fatto che la Corte, in questa fattispecie, ha seguito una via diversa.
A questo punto, la parola è tornata alla Corte di Cassazione.
4. La fase discendente: la sentenza della Cassazione nella sentenza 21 febbraio 2018, n. 4223.
La Suprema Corte, nella sentenza n. 4223/18, ha preso atto della sentenza della Corte di giustizia.
E’ scontato che la sentenza interpretativa della Corte di giustizia vincoli il giudice a quo , salva la possibilità di un nuovo rinvio pregiudiziale, sia per sollecitare un revirement sulla base di nuovi elementi di valutazione , sia per avere chiarimenti su una pronuncia già resa .
La Corte di Cassazione “non può sostituire il proprio giudizio a quello della Corte di Lussemburgo”, si legge, correttamente, nella motivazione.
Né ha ritenuto che fossero sussistenti “ragioni di sorta per disporre un nuovo rinvio pregiudiziale avendo la Corte di giustizia chiarito tutti gli aspetti della vicenda ed escluso la sussistenza di profili discriminatori rilevanti sotto il profilo dell’Unione.
Né sono emersi nuovi elementi di valutazione essendo la formulazione del contratto da sempre nota ed essendo valutata dai giudici di merito”.
La Suprema Corte ha ritenuto, infine, che non vi fossero gli estremi per una rimessione alla Consulta perché “non vi sono ragioni per ritenere che la giurisprudenza costituzionale offra una tutela (antidiscriminatoria)ai giovani più intensa di quella che proviene dalle fonti sovranazionali”.
Partita chiusa?
Nella specie, certamente, si.
Ma, in generale, non credo che Cenerentola abbia perso la scarpetta.
La discriminazione in base all’età è diversa dagli altri “motivi sospetti”, quali la religione, le convinzioni personali, l’handicap o le tendenze sessuali.
Diversamente dagli altri motivi, la discriminazione diretta in base all’età può essere giustificata ai sensi dell’art. 6 della direttiva 2000/78.
Ma malgrado tale “diversità”, la discriminazione per età ha fatto molto strada.
Basti ricordare le affermazioni contenute nella sentenza Vital Perez dove si legge che il margine di discrezionalità concesso agli Stati membri “non può avere l’effetto di svuotare della sua sostanza l’attuazione del principio di non discriminazione in ragione dell’età”.
O alle affermazioni contenute nella sentenza Age Concern England dove si legge che “semplici affermazioni generiche, riguardanti l’attitudine di un provvedimento determinato a partecipare alla politica del lavoro, del mercato del lavoro della formazione professionale, non sono sufficienti affinchè risulti che l’obiettivo perseguito da tale provvedimento possa essere tale da giustificare una deroga al principio di non discriminazione in funzione dell’età” .
La questione, quindi, non può ritenersi definitivamente chiusa.

 

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