Testo integrale con note e bibliografia

Viviamo in un paese che appartiene a una parte del mondo privilegiata, sia in termini di benessere, sia di diritti e garanzie.
Molte delle diseguaglianze che hanno caratterizzato gran parte della storia dell’umanità e che ancora oggi sono presenti in molte regioni del pianeta, nel nostro vecchio mondo sono solo ricordi. Viviamo una condizione di benessere diffuso che, almeno per ora, ci ha permesso di far fronte a importanti crisi economiche con minimi danni alla civile convivenza. Ancora oggi, nel perdurare di condizioni di crisi che paiono sempre meno congiunturali e sempre più strutturali, il sistema pur con non poche difficoltà pare reggere, garantendo buone condizioni di vita e ampie protezioni di welfare a gran parte della popolazione.
Eppure anche nel nostro paese le condizioni sociali, economiche e culturali di uomini e donne sono ancora lungi dal vedere raggiunta una situazione di parità. È presente un gender gap importante, che vede nell’ambito del lavoro un luogo privilegiato per evidenziarsi, sia in termini di occupazione, sia di retribuzione, sia di prospettive di carriera. Questo nonostante la scolarità femminile in questi ultimi anni abbia avuto un incremento elevatissimo, accompagnato da prestazioni mediamente superiori a quelle maschili.
Il mondo del lavoro dunque, a differenza di altri ambiti della vita civile, è un contesto che ancora mostra importanti discriminazioni tra uomo e donna.

 

permanere della discriminazione nel lavoro e alcune conseguenze

Va detto che, nel corso degli ultimi anni, con la crescita della partecipazione femminile al mercato del lavoro è avvenuta una vera e propria rivoluzione dei modelli di divisione del lavoro sociale secondo il genere. Tuttavia si è trattato di una rivoluzione incompiuta (Zanfrini, 2005), poiché in effetti non si è accompagnata a una corrispondente rivoluzione nella vita degli uomini. È infatti rimasta una consistente asimmetria, di cui il segnale più evidente è il pensare alla conciliazione vita-lavoro come un problema delle donne. Asimmetria che va a costituire un aspetto cruciale per il futuro dei mercati del lavoro, dei meccanismi che permettono il raggiungimento e il mantenimento della crescita economica, nonché dei sistemi di protezione sociale.
Si può dire che la diversità sessuale ha avuto un ruolo centrale in ogni epoca e in ogni società umana come criterio sul quale fondare la divisione sociale del lavoro. Tuttavia con l’avvento dell’era industriale tali differenze sono divenute il fondamento per il costituirsi di due luoghi d’azione separati: il lavoro e la famiglia. Il primo un dominio maschile e il secondo, rappresentato dal lavoro familiare o di cura, il dominio femminile. È nel quadro di tale separazione che va collocata l’invenzione della figura della “casalinga”, oggetto di oscuramento sociale per via della sua estraneità al mercato del lavoro retribuito. Inoltre, formandosi un regime di breadwinner fondato su una asimmetria di genere e sulla conseguente natura accessoria del lavoro domestico e di cura, si è quindi prodotta la profonda quanto irrisolta separazione tra la sfera della produzione e la sfera della riproduzione.
Le cose oggi appaiono in cambiamento. Grazie all’incremento della partecipazione delle donne al mercato del lavoro retribuito il lavoro familiare ha potuto emergere dalla sua invisibilità. Dapprima attraverso la diffusa denuncia delle difficoltà del doppio ruolo, considerata la condizione di sovraccarico funzionale che caratterizza l’esperienza delle famiglie (almeno nel nostro Paese, data la specificità del nostro modello “familistico” di welfare). Quindi attraverso la rivendicazione di un diritto alla conciliazione come chiave di volta per rendere accessibile da parte delle mogli-madri lo stesso diritto al lavoro.
Oggi le cose stanno cambiando, ma permangono ancora profonde distanze, rendendo urgente ripensare a un assetto così profondamente incorporato nel funzionamento normale della nostra società.
In primo luogo sul piano dei comportamenti diffusi. Le donne investono molto di più di un tempo nella loro formazione, tanto da essere diventate la componente maggioritaria nei sistemi di istruzione e dimostrando non di rado – come abbiamo visto – prestazioni migliori. Inoltre scelgono sempre più itinerari di studi in teoria professionalizzanti (pur essendo le donne ancora troppo poco presenti nell’ambito della formazione terziaria di natura tecnico-scientifica) e non unicamente orientati a occupazioni “femminili”. Inserite nel mercato del lavoro, continuano a lavorare anche dopo il matrimonio e la nascita dei figli, sia perché vedono nel lavoro non solo un veicolo di emancipazione economica, ma anche uno strumento di autorealizzazione e un tassello insostituibile della propria identità personale sociale, sia perché si ritrovano spesso nella necessità di lavorare per integrare il reddito del partner o perché, sempre più di frequente e per varie ragioni, sono loro ad assumere il ruolo di unico o principale breadwinner. Tutto ciò rende insoddisfacente, quando non impraticabile, la tradizionale soluzione attraverso la quale molte donne hanno nel passato risolto la problematica della doppia presenza, ovvero l’uscita – idealmente temporanea, ma spesso definitiva – dal mercato del lavoro.
In secondo luogo, sul piano degli equilibri sistemici, la partecipazione femminile al mercato del lavoro si presenta – per evidenti ragioni di sostenibilità degli attuali regimi di accumulazione – come un imperativo delle società che devono far fronte alle conseguenze dell’invecchiamento demografico. Specularmente, la discriminazione che le donne subiscono nell’accesso ai posti di lavoro e nei successivi percorsi di carriera è passata da essere rivendicazioni “femminista” minoritaria a rappresentare una posta in gioco decisiva per la tenuta del modello sociale europeo.
Non a caso, incrementare i tassi di occupazione femminile costituisce, ormai da tempo, uno dei principali obiettivi individuati in sede europea (si veda la Strategia Europa 2020).
In terzo luogo, la asimmetria di genere che permane alla base dei modelli sociali di divisione del lavoro comincia a subire un’inattesa denuncia anche da parte maschile, nel solco di un desiderio di riappropriarsi del diritto-dovere a concorrere in maniera più “equa” alla cura familiare. Quella che è stata fino ad oggi tematizzata come “questione femminile”, oggetto di dibattito in occasione soprattutto della Giornata della Donna o della Festa della Mamma, comincia oggi ad affermarsi coi tratti di una questione – anche – maschile.

La relazione vita-lavoro tra conflitto e conciliazione

Data l’interdipendenza tra organizzazione e richieste temporali del lavoro remunerato e quelle del lavoro familiare è evidente ancora oggi la natura conflittuale del sistema “famiglia-lavoro” (Saraceno, Naldini, 2007). Conflittualità per lungo tempo gestita attraverso l’oneroso sforzo quotidiano affrontato dalle donne per tenere insieme responsabilità familiari ed impegno professionale, continuando ad assumere la componente predominante del lavoro domestico e di cura, nonché a dover fare i conti con la lentezza dei sistemi sociale e di welfare nell’adeguarsi ai nuovi bisogni e stili di vita.
Al contempo, il fatto che, troppo spesso, le ambizioni di sviluppo delle donne lavoratrici vengano disattese quando esse si rifiutano di “comportarsi da uomo”, testimonia sia il cattivo funzionamento delle organizzazioni produttive, sia di una sorta di metamorfosi del lavoro stesso. Se un tempo il lavoro poteva essere inteso solo come qualcosa di immediatamente funzionale al benessere economico delle famiglie, esso rischia di andare a detrimento della qualità della vita familiare (e dei progetti di vita familiare) quando diventa troppo e invasivo dei tempi personali e familiari. E, a maggiore ragione, quando diventa eccessivamente oneroso sul piano fisico ed emotivo, precario, sottopagato. In tal modo, se l’organizzazione sociale e dei luoghi del lavoro si è dimostrata incapace di risolvere in modo decisivo tale conflitto – nonostante gli interessanti sforzi sul fronte, per esempio, del welfare aziendale – a maggiore ragione esso si rivela,
in modo più drammatico, nell’esperienza delle donne che, pur volendolo, non hanno invece lavoro.
Anche dati recenti dimostrano che la partecipazione al mercato del lavoro resta per le donne italiane fortemente influenzata dal ruolo coperto in famiglia e dal numero di figli. Influenza speculare nel caso del lavoro maschile, dato che gli uomini con l’assunzione di responsabilità familiare e la crescita del numero di figli vedono invece aumentare i loro tassi di partecipazione, giacché è soprattutto su di essi che grava l’aspettativa di diventare il principale breadwinner, quando non di raggiungere traguardi tangibili nei percorsi di carriera. Non va poi dimenticato che il bisogno economico è solo una delle variabili che entrano nel gioco della decisione di offrirsi o meno sul mercato del lavoro e che va comunque incrociato con la necessità per una moglie-madre di riorganizzare lo stile di funzionamento familiare, con un prevedibile aumento dei consumi e, in molti casi, anche il necessario ricorso a prestazioni a pagamento. E ciò vale soprattutto in quei territori che presentano maggiori carenze nell’offerta di servizi di sostegno al lavoro familiare, e che non a caso registrano tassi di attività e di occupazione femminile clamorosamente bassi. Infine, il dilemma circa il modo migliore di allocare il lavoro familiare diventa quasi insolubile nel caso delle donne condannate per la loro condizione biografica a dover scegliere tra il benessere economico e la qualità della vita familiare. Si tratta di situazioni ancora limitate, ma che meritano di essere considerate dato l’impatto sempre maggiore che i processi di fragilizzazione della famiglia, così come lo stesso progressivo esaurimento delle solidarietà intrafamiliari, porteranno in un futuro ormai prossimo. È infatti proprio nelle famiglie per qualche aspetto “atipiche” (ammesso che il termine “tipico” riferito alla famiglia possa essere oggi ancora utilizzabile) che si evidenziano le conseguenze più preoccupanti del crescente scarto tra i nuovi bisogni di cura e di supporto e l’offerta, in senso lato, di dispositivi per la conciliazione. Si pensi a riguardo all’esperienza delle donne emigrate, spesso sole e comunque prive di una famiglia allargata alla quale appoggiarsi per ottenere sostegno economico o un supporto allo svolgimento dei compiti genitoriali e per di più costrette a fare i conti con immaginario collettivo che vede la cura dei familiari e il lavoro come strutturalmente inconciliabili (come nel caso tipicamente italiano dell’assistenza domiciliare a tempo pieno). Così alle donne immigrate, che lavorano per consentire conciliazione alle donne italiane, viene negata qualunque possibilità di conciliazione per sé, portando a saldatura l’iniquità di genere con quella su base nazionale ed etnica e producendo, nel quadro di una nuova divisione internazionale del lavoro improduttivo, una delle forme più dolorose di disuguaglianza globale.

Le trasformazioni sociali come ulteriore fattore di complessità

Oltre al modello diffuso di famiglia, sono gli stessi processi di socializzazione delle giovani generazioni che stanno cambiando e, per certi versi, sono già profondamente cambiati, così che l’identità di genere e gli stessi stili di funzionamento familiare sono e saranno sempre meno ancorati al vecchio binomio che prevedeva una rigida distinzione dei ruoli sul mercato del lavoro e in ambito familiare. Ciononostante la questione della conciliazione fatica ad affrancarsi dal suo inprinting iniziale, che la definisce appunto come un problema delle donne, ed è proprio questa connotazione rispetto al genere a rallentare l’individuazione di soluzioni più sostenibili a livello di sistema (Zanfrini, Riva, 2010).
Anzi, su questo fronte, sembrano destinati a nascere ulteriori problemi, anche in relazione ai profondi e sconvolgenti mutamenti demografici in atto. Basti pensare a come le riforme pensionistiche avranno l’effetto di sottrarre un anello prezioso, quello delle nonne, attualmente molto impegnate nell’accudimento dei nipoti, alla catena familiare della cura.
Potrebbe sembrare che un contesto di crisi perdurante, in cui l’unico obiettivo sembra quello di avere un lavoro qual che sia, non sia propizio ad affrontare tale problema. Eppure anche nelle situazioni in cui il bisogno di un lavoro è più cogente non è possibile accettare qualunque soluzione di impiego, in particolare se sono date condizioni insostenibili sul fronte della conciliabilità con le responsabilità di cura. Altrimenti sarà proprio la questione della conciliazione a portare a consolidarsi gravi e talvolta drammatiche forme di diseguaglianza sociale.
Tra di esse – come abbiamo visto – le divisioni di genere giocano un ruolo primario, dato che le norme e le pratiche organizzative continuano a penalizzare chi non esprime fedeltà assoluta ed incondizionata al proprio lavoro, ovvero quante non possono o non vogliono comportarsi secondo ciò che è imposto dallo stereotipo maschile. Ma non è questo solo un tema femminile. Quello della conciliazione è un diritto disatteso soprattutto per gli uomini: quelli che sperano di affrancarsi dalle aspettative di comportamento e di successo professionale che la società rivolge loro e che possono rivelarsi per molti un onere troppo pesante o anche semplicemente indesiderato; o più semplicemente coloro che vorrebbero vedere la paternità riconosciuta sul posto di lavoro e nelle organizzazioni, e ambiscono a fruire dei dispositivi per la conciliazione senza subire stigmatizzazione e penalizzazioni.

La necessità di promuovere il superamento del gender gap nei contesti di lavoro

A fronte di questa situazione, il traguardo a cui dobbiamo tendere è quello definito in sede europea: le principali direttive e raccomandazioni comunitarie emanate negli anni disegnano l’obiettivo di una partecipazione equilibrata delle donne e degli uomini all’attività professionale e alla vita familiare, da realizzarsi attraverso il superamento di quella profonda asimmetria tra i ruoli sociali lavorativi che comporta per donne evidenti disparità in quanto a condizioni e ad opportunità di accesso e permanenza sul mercato del lavoro; ma che comporta anche, per uomini, uno svantaggio sul versante del coinvolgimento nella vita familiare (Riva, 2009). Va, ad esempio, letta in questo senso la Direttiva Comunitaria relativa all’equilibrio tra attività professionale e vita familiare per i genitori e i prestatori di assistenza approvata nel giugno 2019 (Direttiva UE 2019/1158 del Parlamento europeo e del Consiglio).
La partecipazione equilibrata di uomini e donne all’attività professionale e alla vita familiare è quindi considerata un elemento indispensabile allo sviluppo della società; la premessa di un nuovo contratto sociale di genere in cui l’effettiva parità, sostanziale e non solo formale, sia socialmente accettata come condizione di democrazia reale, presupposto di cittadinanza e garanzia dell’autonomia e delle libertà individuali.
L’adeguamento dell’offerta di servizi per l’infanzia, la definizione del diritto al congedo parentale, l’adozione di strumenti di flessibilità nell’ambito degli accordi collettivi di lavoro e la promozione di una ripartizione più equilibrata del lavoro di cura tra uomini e donne sono gli strumenti individuati per rimuovere gli ostacoli sulla via della partecipazione equilibrata di uomini e donne sia al mercato del lavoro sia alla vita familiare e ci pare di poter dire che molti passi in questi ultimi anni sono stati fatti anche nel nostro paese in questa direzione.
Tuttavia nonostante la lungimiranza dell’approccio europeo, che vorrebbe superare la logica delle azioni rivolte esclusivamente alle donne affermando la necessità di strategie globali integrate, vi è da rimarcare una sua progressiva deriva che ha portato a riaffermare uno schema di cittadinanza fondata sull’omogeneità con il modello maschile e sulla convinzione che il lavoro retribuito sia il principale, se non l’unico, veicolo di appartenenza sociale (auspicando al tempo stesso una conseguente riduzione del tempo dedicato alla cura). L’obiettivo di far crescere l’occupazione femminile è considerato un traguardo indispensabile e ha così avuto la meglio sull’ambizione di promuovere l’attraversamento dei tradizionali confini di genere in entrambe le direzioni, contribuendo anche a una rivalutazione sociale culturale del lavoro informale di cura.
Prova ne è che nello stesso dibattito politico, nelle rivendicazioni sindacali e nei programmi di welfare aziendale le iniziative per la conciliazione sono tendenzialmente presentate come uno strumento per garantire alle donne la fruibilità del diritto al lavoro, venendo incontro alle loro “specifiche” esigenze. Questa impostazione rafforza un’idea della conciliazione come un problema “femminile”, un’idea dell’esperienza lavorativa e della vita familiare come domini alternativi e in conflitto (com’è del resto evocato dallo stesso termine conciliazione), la sua percezione come un costo per le aziende e la sua società. Superare tale visione distorta, segnando una reale discontinuità nelle politiche e pratiche a favore della conciliazione (opportunamente ridefinita come work-life balance: Zanfrini, 2017) implica, in primo luogo, il definitivo superamento delle pratiche sociali di divisione del lavoro, mirando ad un assetto sociale in cui tanto gli uomini quanto le donne possano realizzare la propria identità e le proprie capacità non solo attraverso la partecipazione alla sfera professionale, ma anche trovando spazio di soddisfazione e benessere nella cura delle relazioni familiari e sociali, dell’impegno civile e solidale, nel tempo libero.
In tale scenario, in cui l’incentivazione di un maggiore coinvolgimento maschile nei compiti di cura è un elemento strategico, il diritto a un buon equilibrio tra lavoro e vita privata dovrebbe diventare esigibile da tutti, anche dagli uomini, oggi ancora penalizzati nell’accesso ai dispositivi per la conciliazione. Nonostante il legislatore, in attesa di recepire la nuova Direttiva UE, abbia dato segno di maggiore attenzione a questa tematica, incrementando la disponibilità di giornate retribuite nell’ambito del congedo di paternità, già presente nel nostro ordinamento ma successivamente rafforzato nelle ultime Leggi di bilancio (L. 145/2018). Si tratta certamente di segnali importanti, che vanno nella direzione di garantire i diritti e la possibilità ad entrambi i genitori di compartecipare alla prima cura dei figli, ma al momento più rilevanti sul piano simbolico che su quello sostanziale.
In effetti, occorre andare oltre alla visione della conciliazione come un complesso di dispositivi a favore di quanti hanno le responsabilità di cura più incombenti, definendola invece come un diritto universale, uno dei fondamentali diritti di cittadinanza. Solo in tal modo, infatti, diventa possibile contrastare le discriminazioni cui va incontro chi è portatore di pesanti carichi di cura. E occorre anche ragionare della costruzione di welfare rinnovato, che prenda sul serio l’individualizzazione dei corsi di vita e che, nel tentativo di favorire un equilibrio tra responsabilità collettive e individuali nella gestione dei bisogni nuovi e dei rischi sociali, si proponga quale obiettivo qualificante la definizione di politiche di capacitazione, più che di conciliazione senso stretto (Zanfrini, Riva, 2010). Vale a dire di un insieme di interventi e dispositivi che progettato e realizzato congiuntamente dai diversi organi di governo locale, dalle imprese, dal terzo settore, dall’associazioni e dalle varie rappresentanze, offra soluzione a carattere abilitante, cioè tali da consentire a ciascuno di sviluppare le proprie capabilities lungo tutto il corso di vita.
Infine, è necessario superare la rappresentazione del lavoro e della vita extra lavorativa come due domini in conflitto. Intercettando le istanze di policentrismo esistenziale che definiscono i progetti di vita delle donne e degli uomini del nostro tempo, ma anche mettendone a valore le ricadute per la competitività aziendale e per lo sviluppo del territorio. Si tratta innanzitutto di riconoscere come la qualità del lavoro sia strettamente collegata, e in qualche misura dipendente, dallo sviluppo di una maggiore qualità della vita, e non solo viceversa, come si tende spesso a sottolineare.
È pur vero che se il lavoro diventa troppo o “cattivo” pregiudica inevitabilmente la qualità della vita affettiva e familiare, ma è altrettanto vero che la serenità e l’equilibrio della vita personale e degli affetti familiari consentono alle persone di lavorare meglio, di essere più motivati e produttivi.
Per converso, lo stesso apporto individuale ai risultati di impresa risulta mortificato quando si chiede alle persone di esaurire la propria esistenza e i propri interessi entro il perimetro dell’azienda, come avviene quando i percorsi di carriera sono strettamente dipendenti dal presidio fisico della postazione di lavoro e dalla disponibilità a prolungare l’orario di presenza.
Si tratta di aspettative che hanno tradizionalmente penalizzato le donne, ovvero le lavoratrici mogli e madri e le loro ambizioni di carriera. Ma che oggi però si rivelano come profondamente penalizzanti per lo sviluppo di imprese e territori, sempre più tributari della capacità di dialogare efficacemente coi loro ambienti sociali di riferimento.
Presentate in questi termini, le politiche di conciliazione, ovvero di armonizzazione tra vita e lavoro, rappresentano certamente la premessa di un nuovo patto sociale fondato sull’equità di genere, vale a dire sulla condivisione di diritti, opportunità e responsabilità nella sfera lavorativa e in quella extra lavorativa in genere, così da rendere davvero effettivo il rispetto delle scelte e delle preferenze soggettive. Un patto nel quale trovi compimento quella già definita come una rivoluzione incompiuta; un mutamento tanto radicale quanto parziale e imperfetto, dato che i cambiamenti intervenuti nei comportamenti sociali e lavorativi delle donne non si sono accompagnati da una revisione dell’ideologia di genere nella famiglia e nel mercato del lavoro.
Crediamo che ciò a cui le persone realmente aspirano sia un’organizzazione della società e dei luoghi di lavoro che consenta loro di tenere insieme autorealizzazione e responsabilità, impegno professionale e ruolo dentro la famiglia, vita privata e vita pubblica esprimendo la propria e insopprimibile diversità (di genere, ma non solo) in tutti questi ambiti. In buona sostanza, occorre recuperare un concetto integrale di libertà: non solo libertà di (essere posti nelle condizioni di scegliere) e libertà da (essere liberi da coercizione), ma anche libertà come capacità di azione, ovvero di realizzare un proprio progetto di vita ove il lavoro si integri in maniera armonica con le altre sfere di impegno e di auto realizzazione (Zanfrini, 2017).

Il self-empowerment per la promozione di employability e work-life balance

Si tratta in altri termini di realizzare programmi di empowerment sociale, che da un lato favoriscano alla comunità e alle sue componenti collettive e singole l’accesso a quelle risorse che consentono un allargamento delle possibilità disponibili, dall’altro sviluppino percorsi educativi nella direzione del superamento dell’omologazione nel contesto lavorativo allo stereotipo maschile tradizionale.
È da considerare attentamente, in questa prospettiva, lo sviluppo impetuoso del “nuovo” welfare aziendale, che sta dimostrando inedite capacità di risposta alle diverse esigenze di conciliazione di donne e uomini che lavorano. Certamente lo sviluppo del secondo welfare può portare qualche preoccupazione circa il rischio di un impoverimento delle risorse dedicabili al welfare universale. D’altra parte però, per le proprie caratteristiche di flessibilità e personalizzazione, mostra potenzialità impensabili nel contesto del welfare “tradizionale”. Va peraltro sottolineato che un buon utilizzo del welfare aziendale richiede una nuova apertura delle organizzazioni di lavoro verso le mutate esigenze dei propri membri, anche e soprattutto in termini di work-life balance. Così come chiede di migliorare la capacità di dialogo tra persona e azienda, specialmente in un momento di crisi delle organizzazioni di rappresentanza, in una prospettiva win-win che risulta attualmente un po’ appannata e che rappresenta invece la base di una conciliazione non “antagonista” ma protagonista di un nuovo engagement lavorativo, dato che in un contesto come quello odierno avere collaboratori che presentino un conflitto di lealtà tra lavoro e famiglia non è certamente di nessun vantaggio per le organizzazioni.
Sarebbe peraltro riduttivo posizionare le cause del gender gap esclusivamente all’esterno del soggetto. Da tempo la prospettiva ecologica ci ha consegnato un individuo in costante e reciproco rapporto con il contesto, per cui le condotte individuali e collettive risultano originate da una relazione circolare con l’ambiente.
L’assetto sociale e delle organizzazioni di lavoro propongono un modello di lavoro divisivo rispetto alla vita familiare, alternativo alle attività di cura, centrato su un idealtipo di lavoratore uomo, ma tale assetto viene fatto proprio dalla persona che vi si adatta quasi in modo mimetico, preferendo rinunciare allo sviluppo delle proprie potenzialità piuttosto che assumersi il rischio di confliggere con ciò che è percepito come “normale”.
Sviluppare self-empowerment, inteso come processo di apertura di nuove possibilità psicologiche per sé (Bruscaglioni, Gheno, 2000), è dunque la dinamica che risponde all’esigenza di attivare un diverso protagonismo femminile, capace di integrare ciò che il sistema sociale divide. Risponde anche alle nuove, timide, istanze maschili di riappropriazione dei propri spazi di vita extra-lavorativa, dentro alla famiglia o meno.
In questa prospettiva la conciliazione (o meglio come abbiamo detto il work-life balance) diventa la risultante di un lavoro “esterno”, teso a ridurre gli ostacoli e a garantire l’accesso alle risorse esistenti, ma anche a ripensare le suddette risorse tenendo maggiore conto dei mutamenti sociali in atto, ed uno “interno”, teso ad allargare la propria pensabilità positiva di donna, di uomo, di lavoratrice/tore, anche superando quel confidence gap che spesso rappresenta un ostacolo concreto, ancorché di natura psicologica, all’occupabilità femminile di qualità (Orestein, 2013).
Il permanere di sacche imponenti e diffuse di discriminazione risulta, infatti, anche alimentato dalle scarse attese che frequentemente le donne hanno circa le proprie prospettive di sviluppo professionale, che non di rado le incatenano a interpretare con rassegnazione un ruolo ancillare nell’equilibrio vita-lavoro. Rafforzare la confidenza nelle proprie capacità e risorse porta a sviluppare maggiore sentimento di potere e, con esso, aumentare le possibilità percepite, sia in campo lavorativo che personale e familiare (Peila-Shuster, 2017).
Lo sviluppo del self-empowerment prende il via da un rafforzamento della dimensione desiderante, che di frequente è nascosta nel contesto lavorativo (Gheno, 2019). È infatti socialmente accettato che si lavori innanzitutto per soddisfare un bisogno, mentre il desiderio di lavorare o ricercare la desiderabilità nel proprio lavoro è condizione consentita a pochi. Eppure spesso la differenza tra buono e cattivo lavoro risiede proprio nella sua desiderabilità, non nel considerarlo mera risposta a necessità.
Nel percorso di apertura di una nuova possibilità la persona deve fronteggiare, non solo gli ostacoli ambientali, ma anche le proprie difficoltà storiche soggettive percepite, che attendono solo l’occasione di attivarsi in concomitanza di progetti di vita sfidanti (Gheno, 2005). Tale fronteggiamento, pur essendo personale, difficilmente può avvenire senza un aiuto. Depotenziare le proprie difficoltà storiche soggettive richiede la capacità di rielaborare le proprie esperienze di vita formulando una nuova ipotesi di azione, capacità che frequentemente richiede un accompagnamento psicoeducativo.
La prospettiva deve quindi essere quella di una integrazione tra l’affermazione di diritti ad una buona conciliazione vita-lavoro, e questo è il compito del legislatore, del governante e dell’amministratore locale, la loro applicazione, e questo è il compito del management aziendale, ma anche delle parti sociali, nonché della magistratura, e la loro declinazione nell’identità delle persone, e questo è il compito di quanti operano sul versante educativo.
Questa potrebbe essere anche la strada per ridefinire una rappresentazione del lavoro umano che non si limiti ad accettare supinamente il fatto che il lavoro “vero” è quello retribuito, per cui quello domestico e familiare non sarebbe vero lavoro. Il desiderio, oltre che il bisogno di lavorare, permetterebbe di reinserire il lavoro post-rivoluzione industriale nella dimensione della generatività, ricomponendo virtuosamente la sfera della produzione a quella della riproduzione.

 

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