Testo integrale con note e bibliografia
1. La vicenda giudiziaria.
Con sentenza del 4 luglio 2019, pubblicata il 13 gennaio 2020, la Corte di Appello di Firenze, Sezione Lavoro, ha rigettato l’appello del Ministero della Giustizia avverso l’ordinanza del 26 giugno 2018 del Tribunale di Firenze, con la quale veniva deciso nel merito il giudizio promosso dall’Associazione L’Altro Diritto O.n.l.u.s ( di seguito “L’associazione”) con ricorso ex artt. 44 D.Lvo 298/96, 28 D.Lvo n. 150/11 ed art. 702 bis c.p.c.,”.
Con la pronuncia che ci accingiamo a commentare è stato pertanto confermato l’accoglimento della domanda collettiva proposta dall’Associazione, domanda che era sopravvissuta alla declaratoria di carenza di interesse della domanda individuale proposta da una singola ricorrente, una cittadina di nazionalità albanese in possesso di permesso di soggiorno di lungo periodo, la quale, ammessa al concorso con riserva, non aveva però superato la prova preselettiva.
Per completezza espositiva, vi è a dire che la materia del contendere avanti alla Corte di Appello territoriale comprendeva altresì l’appello incidentale proposto dall’Associazione, avente ad oggetto la compensazione delle spese del primo grado, deliberata dal giudice di prime cure “stante la novità della questione”. L’impugnazione incidentale è stata anch’essa respinta, avendo il giudice dell’appello ritenuto che la tematica fosse stata effettivamente, fino a quel momento, oggetto di decisioni controverse e disomogenee.
Ci sia pertanto consentito di concentrare la nostra attenzione essenzialmente sulla principale questione di merito rispetto alla quale la Corte si è autorevolmente e definitivamente espressa, poiché non risulta allo stato proposto ricorso per cassazione da parte del Ministero soccombente.
In questa Rivista la complessa ed interessante vicenda ha già trovato ampio spazio di dibattito . Con la presente nota vorremmo riannodare le fila dell’interessante ed articolata vicenda processuale, richiamando in sintesi, per comodità del lettore, i prodromi che hanno condotto alla pronuncia annotata e concentrando l’attenzione sui punti maggiormente valorizzati dal giudice di secondo grado, rinviando per il resto ai precedenti, ampi contributi.
Il “casus belli” dal quale la vicenda prende le mosse è la pubblicazione da parte del Ministero della Giustizia di un bando per l’inserimento a tempo indeterminato nei ruoli dell’amministrazione della giustizia di 800 assistenti giudiziari, nel quale veniva previsto il possesso del requisito della cittadinanza italiana per l’accesso alla selezione pubblica, con conseguente esclusione dei cittadini comunitari, dei cittadini stranieri in possesso dei requisiti di cui all’art. 38 d.lvo n. 165/2001, dei titolari di carta blu e dei familiari non comunitari di cittadini italiani.
Una cittadina albanese lungo soggiornante e l’Associazione proponevano ricorso ai sensi dell’art. 44 d.lvo n. 298/96, art. 28 d.lvo n. 150/2011 e 702 bis c.p.c. convenendo in giudizio dinanzi al Giudice del Lavoro di Firenze il Ministero per ottenere: a) la declaratoria della natura discriminatoria in ragione della nazionalità di tale bando di concorso ; b) l’ordine di cessazione del comportamento discriminatorio e la rimozione degli effetti, con conseguente eliminazione della clausola contestata, ammissione alla procedura concorsuale della ricorrente e degli altri candidati stranieri non individuabili in modo diretto e riapertura dei termini, c) la condanna del Ministero al risarcimento del danno non patrimoniale.
Nella fase cautelare instauratasi a seguito di proposizione di domanda ex art. 700 c.p.c. in corso di causa, il Tribunale di Firenze aveva accolto pienamente il ricorso, dichiarando l’illegittimità della richiesta del requisito della cittadinanza italiana per la partecipazione alla selezione ed ordinando al Ministero la rimozione del criterio discriminatorio, con conseguente ammissione con riserva della ricorrente individuale alle prove preselettive. In sede di reclamo cautelare, però, il Collegio dichiarava il difetto di legittimazione attiva dell’Associazione, stabilendo che l’azione collettiva fosse ammissibile solo per le discriminazioni per razza ed origine etnica e non in relazione al fattore nazionalità e revocava l’ordinanza del Tribunale di Firenze del 27.05.2017, respingendo così il ricorso cautelare proposto dai due ricorrenti. Di contrario avviso invece il provvedimento di merito del Tribunale, che con ordinanza di accoglimento parziale del 26.06.2018 dichiarava discriminatoria la condotta ministeriale, condannava il convenuto al pagamento del risarcimento del danno non patrimoniale in favore dell’Associazione e dichiarava inammissibile l’azione individuale proposta dalla cittadina albanese ricorrente, per sopravvenuta carenza di interesse ad agire (la medesima infatti era risultata non idonea alle selezioni concorsuali cui aveva partecipato con riserva). Il Tribunale pertanto confermava sia la legittimazione ad agire dell’Associazione con la domanda collettiva che la fondatezza dell’istanza nel merito.
Nella precedente nota, veniva perimetrata l’area del contendere, circoscrivendola ai seguenti punti controversi: 1) l’ammissibilità di un’azione collettiva per il fattore di rischio “nazionalità”; 2) la specifica legittimazione attiva dell’associazione ed i requisiti necessari per tale riconoscimento; 3) il risarcimento del danno non patrimoniale in favore dei soggetti collettivi e la sua quantificazione.
Poiché all’epoca la pronuncia risultava ancora sub iudice, in quanto era pendente il giudizio d’appello, si preconizzava il grande interesse che avrebbe rivestito la sentenza di secondo grado per le questioni in diritto, sottese alla fattispecie concreta, le cui vicende in fatto si erano ormai esaurite con l’approvazione della graduatoria definitiva del concorso pubblico e l’immissione in possesso delle funzioni dei vincitori presso le sedi di servizio . Infatti, a seguito dell’esaurimento della procedura concorsuale, l’area della tutela si riduceva alla sola misura del risarcimento del danno patito da soggetti, anche non individuabili, privi del requisito della cittadinanza italiana ma cittadini comunitari o stranieri rientranti nelle categorie previste dall’art. 38 D.lvo 165/2001, che non avevano presentato domanda di partecipazione alla selezione a causa della clausola discriminatoria.
Ora, con la sentenza n. 572/2019 del 4 luglio 2019 pubblicata il 13 gennaio 2020, non impugnata dal Ministero soccombente, la Corte di Appello di Firenze mette la parola fine alla vicenda, con una pronuncia di solida struttura motivazionale, della quale non possiamo sottacere il valore di giudicato, pur nei limiti della sua efficacia “inter partes” . Ma ci sia consentito di sottolineare come un giudicato di accoglimento di un’azione collettiva, proprio perché efficace anche in favore di soggetti non individuabili, e pertanto, giocoforza, nei confronti di soggetti diversi ed ulteriori rispetto alle parti in causa in senso stretto, finisca per travalicare l’efficacia “classica” del giudicato e possa tendenzialmente determinare ricadute inusitate, sulle quali è sicuramente interessante interrogarci.
La Corte territoriale affronta sistematicamente tutte le questioni controverse, confermando nel merito le soluzioni offerte dal giudice di primo grado. Ma andiamo per ordine.
2. L’ammissibilità delle azioni collettive avverso le discriminazioni per nazionalità.
Il Ministero appellante chiedeva che il ricorso all’azione collettiva dell’Associazione venisse dichiarato inammissibile, in quanto il rito adottato si riferiva espressamente alle discriminazioni in ragione della razza od origine etnica e non riguardava la nazionalità. La Corte compie una ampia ed utile ricognizione delle fonti nazionali e sovranazionali che regolano la materia, traendone la conclusione che “la tutela antidiscriminatorie in termini sostanziali è dunque assicurata nell’ordinamento anche con riguardo al fattore ‘nazionalità’ contro comportamenti individuali e collettivi”.
Il principale argomento addotto dal Ministero in sede di gravame, ovvero l’esclusione esplicita dall’ambito di applicazione del d.lgs. n. 215/03 del fattore nazionalità, secondo la pronuncia impugnata non sarebbe valso a negare l’applicazione dell’azione antidiscriminatoria collettiva alle disparità di trattamento basate sulla nazionalità. La tutela, secondo il Giudice monocratico del merito, meritava invece di essere ampliata e non ristretta, dal momento che la nozione di discriminazione, delineata dall’art. 2 d.lgs. 215/03, fa espressamente salve le disposizioni di cui all’art. 43 comma 1 e 2 D. Lvo 286/98 che ricomprendono, fra i fattori di rischio, anche la nazionalità, accanto alla razza, al colore, all’ascendenza nazionale, all’origine etnica, alle convinzioni ed alle pratiche religiose.
La Corte condivide questa impostazione, negando che la questione sia suscettibile di una soluzione basata sulla mera interpretazione letterale dell’art. 3 d.lgs. n. 215/2003, come invece preteso dal Ministero. Tanto è vero che l’art. 2 della sopra citata norma declina un’ampia definizione di disparità di trattamento oggetto del divieto di discriminazione, la quale non potrebbe comunque giustificare trattamenti illeciti ed “oscurare le esigenze di protezione nascenti da discriminazioni, sia individuali che collettive, per nazionalità”.
E l’anello di congiunzione tra i fattori di rischio (razza/origine etnica da una parte e nazionalità dall’altra) sotto il profilo della tutela antidiscriminatoria viene individuato dalla Corte proprio nel capoverso del comma 2 dell’art. 2, il quale fa salvo il disposto dell’art. 43 co.1. e 2 del TU n. 286/1998 sulla disciplina dell’immigrazione, con ciò richiamandosi all’ampia definizione di discriminazione dello straniero ivi declinata, ricomprendente anche il fattore costituito dall’origine nazionale. Consolidata così la nozione “estesa” di discriminazione sostanziale, a questa non può che riconnettersi de plano la tutela processuale, apprestata attraverso un rito unico, previsto dall’art. 28 del d. lvo 151/2011 per ogni forma di discriminazione diversa da quella di genere (regolata invece dai due riti speciali, individuale e collettivo, previsti dagli artt. 36, 37 e 38 del D. Lgs. 198/2006).
Per questo aspetto la Corte di Firenze richiama, aderendovi, l’univoco orientamento della Corte di Cassazione, che con le coeve sentenze 8 maggio 2017 n. 11165 e n. 11166 ha esteso la possibilità di proporre l’azione collettiva anche al fattore di rischio “nazionalità”, offrendo una lettura costituzionalmente orientata degli artt. 2 e 4 d.lgs. n. 215/2003 e dell’art. 43 T.U. 286/1998, in riferimento agli artt. 3 e 24 Cost., che altrimenti interpretati osterebbero al mancato riconoscimento della legittimazione attiva di un ente esponenziale in caso di discriminazione collettiva in ragione della nazionalità .
Infatti il Ministero, nell’atto di appello, aveva consapevolmente evitato di confrontarsi con tale giurisprudenza di legittimità, pure richiamata dalle pronuncia impugnata (ed il Collegio di secondo grado non perde occasione di rimarcarlo), limitandosi a proporre un’interpretazione rigorosamente letterale delle norme sopra ricordate: sia dell’art. 5 d.lgs. 215/2003 attuativo della Direttiva 2000/43/CE, che prevede l’azione collettiva antidiscriminatoria per i fattori razza ed origine etnica, ma la esclude esplicitamente per la nazionalità, e dell’art. 44 d.lvo 286/98, che conferisce la legittimazione processuale attiva alle sole organizzazioni sindacali maggiormente rappresentative a livello nazionale.
Al contrario, gli Ermellini, con le due sentenze del 2017 sopra richiamate, successivamente confermate da altre più recenti pronunce (nel 2018 e nel 2019), partono dal presupposto che la tutela antidiscriminatoria nel nostro ordinamento abbia ormai assunto la dimensione di un vero e proprio corpus articolato di norme sostanziali e processuali in reciproca connessione, frutto di un processo additivo conseguente ad una progressiva stratificazione normativa, ed evidenziano la necessità per il Giudicante di operare, (così come efficacemente si esprime la Corte territoriale), una “interpretazione di sistema, in grado di cogliere le connessioni tra le varie norme che disciplinano i diversi fattori di discriminazione, di leggerne lo sviluppo, al fine di individuare un corpo normativo dotato di una sua coerenza e di principi comuni, questo idoneo ad escludere antinomie ed ingiustificabili disparità di tutela alla luce della Costituzione e dei principi di derivazione comunitaria” .
La Corte di Cassazione, secondo tale orientamento che può dirsi ormai consolidato, rileva che: a) il fattore di discriminazione per nazionalità si aggiunge ai fattori già vietati, ampliando e non riducendo l’ambito della tutela; b) l’azione civile antidiscriminatoria è posta a presidio della definizione sostanziale ed estesa di discriminazione individuale e collettiva; c) l’esclusione dell’azione collettiva per le discriminazioni in base alla nazionalità avrebbe profili di incostituzionalità, per contrasto con gli artt. 3 e 24 Cost. e con principi di derivazione comunitaria. Ciò emergerebbe, in particolare, tenendo conto che il medesimo fattore “nazionalità” rileverebbe diversamente rispetto alla legittimazione ad agire, se la discriminazione collettiva fosse o meno commessa in ambito lavorativo (così Cass. 28745/2019, richiamando il precedente della sentenza n. 11165/2017), con tutte i dubbi di costituzionalità derivanti da una così palmare diversificazione delle tutele sul piano dei rimedi processuali per fattori di rischio aventi pari dignità sotto il profilo sostanziale, in assenza di una ragionevole giustificazione. Infatti il fattore “nazionalità” finirebbe per essere l’unico a vedersi preclusa la tutela sul piano collettivo, fatta salva la sola legittimazione delle organizzazioni sindacali prevista dall’art. 44 comma 10 T.U. immigrazione. Non solo, si evidenzierebbe un contrasto con l’art. 6 della Carta EDU in quanto il diritto al “giusto processo” verrebbe garantito con modulazioni ed intensità diverse a seconda dei differenti fattori di discriminazione che risultano vietati nell’art. 14, fra i quali è compreso quello relativo all’origine nazionale.
Pertanto la Corte territoriale fiorentina sviluppa le indicazioni della Corte di legittimità ed approda ad un’interpretazione sistematica che amplia l’area di applicazione del diritto antidiscriminatorio, fino a garantire ad ogni fattore “una identica tutela sostanziale e processuale”. E sotto questo profilo risulta coerente il conferimento della legittimazione ad agire a soggetti collettivi, al fine di conseguire una doppio risultato: assicurare la massima estensione della tutela inibitoria, particolarmente efficace al fine di intercettare gli effetti nefasti delle disparità di trattamento prima che questi diventino irrimediabili e garantire protezione, oltre che alle vittime individuate di tali condotte, anche ad una serie indeterminata di soggetti “ a rischio di lesione avente natura diffusiva”, che va, se possibile, “prevenuta e circoscritta nella sua portata offensiva”. L’approccio sistematico della Corte si traduce, nella sentenza, nei richiami alle varie norme nazionali che prevedono per i diversi fattori di rischio la facoltà di adottare il rimedio dell’azione collettiva conferita a associazioni e comunque soggetti individuati da apposito decreto ministeriale, e si chiude con l’osservazione che il mancato conferimento della legittimazione attiva in materia di discriminazione per nazionalità alle associazioni esponenziali titolari di “attività a favore degli stranieri immigrati” e “per favorire l’integrazione sociale degli stranieri” che risultino iscritte all’elenco approvato con decreto ministeriale, come previsto dall’art. 5 del d.Lgs. n. 215/2003, costituirebbe una “vistosa eccezione” del tutto incoerente, rispetto alla generalizzata previsione dell’azione collettiva per gli altri fattori di rischio, ormai assurta a disciplina sistemica . La stessa coerenza viene ricercata dalla Corte con i principi eurounitari di equivalenza ed effettività, i quali postulano una tutela giuridica che tenga conto dell’origine della posizione soggettiva protetta e delle finalità di detta tutela . Il richiamo al principio comunitario di equivalenza, ci fornisce lo spunto per un rapido inquadramento del tema : detto principio trova la sua prima affermazione nelle due sentenze Rewe e Comet in base alle quali l’ordinamento giuridico di ciascuno Stato membro deve fissare le modalità procedurali intese a garantire la tutela delle posizioni soggettive di diritto dell’Unione, che “non possono […] essere meno favorevoli di quelle relative ad analoghe azioni del sistema processuale nazionale” . Il principio di equivalenza appare quindi come una declinazione, nell’ambito procedurale, del più generale e trasversale principio di non discriminazione. Attraverso l’equivalenza, la Corte UE ha voluto di fatto evitare che le situazioni soggettive conferite dal diritto dell’Unione fossero tutelate in maniera meno favorevole rispetto alle analoghe posizioni conferite dal diritto nazionale . Spetta quindi al giudice nazionale, che ha conoscenza diretta dell’ordinamento giuridico interno, verificare che le modalità procedurali destinate a garantire, nel diritto nazionale, la tutela delle posizioni soggettive derivanti ai singoli dal diritto dell’Unione, siano conformi al principio di equivalenza. La Corte di Giustizia ha tuttavia, nel tempo, fornito alcune indicazioni sull’attività che il giudice nazionale è chiamato a svolgere, chiarendo in particolare che il giudice nazionale deve esaminare sia l’oggetto sia gli elementi essenziali dei ricorsi di natura interna tra i quali si asserisce sussista un’analogia, nonché la sua finalità . Pertanto, applicando il principio al caso di specie, non sarebbe ammissibile una carenza di tutela processuale per situazioni disciplinate dal diritto dell’Unione, se invece tale tutela è prevista per situazioni analoghe disciplinate dal diritto interno.
Ciò che ci lascia perplessi è che, a fronte di questa ricostruzione, il principio non sembra attagliarsi perfettamente all’ipotesi in esame. Infatti, la disparità di trattamento per razza/origine etnica trova indubbiamente la sua tutela processuale (collettiva) in una normativa interna di attuazione di una direttiva dell’Unione, mentre la tutela processuale del diritto a non essere discriminati per nazionalità non avrebbe alcun “miglior trattamento” a livello nazionale, non essendo prevista in realtà alcuna tutela processuale ad hoc. Pertanto risulta difficoltoso ravvisare la violazione del principio di equivalenza, in quanto esso interviene nel caso in cui il trattamento processuale deteriore sia riservato alle posizioni soggettive derivanti dal diritto dell’Unione rispetto a quelle nazionali e non nella situazione contraria.
3. Legittimità dei limiti all’accesso ai pubblici impieghi nel diritto interno;
La censura ministeriale in sede di gravame prendeva le mosse dal combinato disposto dell’art. 38, co.2 d.lgs. 165/2001 e dell’art. 1 D.P.C.M. 7 febbraio 1994 n. 174, in forza del quale gli Stati Membri, secondo il diritto dell’Unione, possono legittimamente riservare ai propri cittadini la partecipazione a concorsi per posizioni lavorative che ricadano nell’ambito di funzioni che implicano la partecipazione diretta o indiretta all’esercizio di pubblici poteri di natura coercitiva ed aventi oggetto la tutela di interessi generali dello Stato. La Corte, nel confermare l’ordinanza del Tribunale di Firenze, ripercorre analiticamente la disciplina della materia, concludendo che, nel caso di specie, detto limite non è applicabile. Per comodità del Lettore, sintetizziamo il fulcro della decisione, che si incentra su un triplice ordine di considerazioni: a) l’art. 38 del D.Lgs. n. 165/2001 ha assunto una nuova formulazione con la novella n. 97 del 2013, che equipara i cittadini dell’Unione ai cittadini dei Paesi terzi nell’accesso ai pubblici impieghi; b) l’art. 45 del TFUE, che consente una limitazione all’accesso ai pubblici impieghi da parte degli ordinamenti nazionali per i cittadini di altri Stati dell’Unione, è stato più volte interpretato dalla Corte di Giustizia dell’Unione Europea, rispetto alla nozione di pubblica amministrazione, in modo da garantirne una definizione uniforme (sentenza 12.02.1974 C-152/73 e C-405/01) e “funzionale” (CG 27.11.1991 C-4/91), considerando legittima la limitazione per quei soli posti che implichino la partecipazione, diretta o indiretta, all’esercizio di pubblici poteri, e per le mansioni che abbiano ad oggetto la tutela di interessi generali dello Stato, purché tali compiti vengano esercitati abitualmente; c) nel caso di specie, le mansioni di assistente giudiziario poste a concorso devono essere valutate in termini funzionali, verificando se presuppongono o meno l’esercizio abituale di pubblici poteri, inteso come poteri di imperio e coercizione collegati a funzioni di interesse pubblico.
Sulla base di questi presupposti, secondo la Corte è possibile superare la rigidezza dell’elencazione tassativa del Decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri n. 174 del 7.02.1994 , (che designa i posti e le funzioni per i quali è richiesta la cittadinanza italiana secondo un criterio meramente soggettivo, ovvero individuando l’ente pubblico), attraverso il rispetto dei principi fissati della giurisprudenza della Corte di giustizia . Pertanto si presenta come ineludibile una dettagliata disamina in fatto delle mansioni specifiche insite nella figura professionale dell’assistente giudiziario ed una verifica in concreto se esse coinvolgano effettivamente l’esercizio diretto in forma abituale e prevalente di pubblici poteri, intesi come di coercizione o di imperio nei confronti di terzi, avvalendosi del parametro rappresentato dalla declaratoria del contratto collettivo. Risulta pacifico come questa figura professionale appartenga alla categoria del personale non dirigenziale e svolga un’attività di collaborazione tecnica o amministrativa nell’ambito dell’amministrazione della giustizia, con adibizione abituale limitata alla gestione di registri ed alla assistenza all’attività del Magistrato. Il punto più significativo delle doglianze ministeriali consisteva nella scarsa valorizzazione, da parte del Tribunale, della funzione certificatoria, svolta anche dall’assistente giudiziario in assenza di figure superiori. Ma anche la Corte ha ritenuto che tale compito non si possa definire connaturato a tale figura professionale, se non in via occasionale e residuale, da esercitarsi in via suppletiva in assenza dei profili professionali superiori cui tali funzioni sono invece affidate per legge e per contratto, quale il cancelliere esperto . Pertanto si ritiene che l’assistente giudiziario svolga un’attività ausiliaria e preparatoria anche sotto questo profilo, solo occasionalmente sostitutiva di funzioni superiori. Un’attività che per quanto integri in senso lato una partecipazione al funzionamento dell’amministrazione della giustizia, non per questo possa essere considerata una partecipazione diretta, specifica e coercitiva all’esercizio di pubblici poteri.
4. Il risarcimento del danno non patrimoniale in favore dei soggetti collettivi e la sua quantificazione.
Nella precedente nota abbiamo già avuto occasione di argomentare relativamente alla natura del pregiudizio non patrimoniale, il cui risarcimento è previsto dalla disciplina antidiscriminatoria di derivazione comunitaria. La determinazione quantitativa di questa particolare fattispecie di danno peraltro è strettamente correlata alla nozione di azione collettiva ed alla sua poliedrica funzione rimediale. Infatti a seconda della funzione che si vuole valorizzare e del bene collettivo che si intende reintegrare grazie ad essa ( pertanto ove la si voglia vedere sotto il profilo del rimedio per lesioni plurisoggettive, ovvero come intervento a tutela di una sommatoria di posizioni individuali omogenee, o, ancora, come intervento a tutela di un interesse superindividuale oppure dello stesso ente esponenziale, che viene delegittimato a cagione del comportamento lesivo), anche il modello di rimedio risarcitorio ed i criteri di determinazione del quantum assumono un assetto diverso . Il Giudice di primo grado nella sentenza impugnata aveva inquadrato il pregiudizio non patrimoniale nella categoria del “danno comunitario”, definendolo “danno presunto e con valenza sanzionatoria” il cui risarcimento deve essere determinato in conformità ai principi di adeguatezza, effettività, proporzionalità, dissuasività. Più precisamente, il Giudicante di prime cure aveva fatto riferimento, nella quantificazione del danno, “dell’ampia platea dei potenziali discriminati, del profilo professionale e del numero dei posti oggetto del bando” e quindi pareva aver voluto valorizzare in maggior misura l’aspetto di lesione plurisoggettiva della condotta, senza però potersi addentrare più a fondo, nella motivazione, in assenza di ulteriori elementi su cui fondare una diversa determinazione delle conseguenze patrimoniali della condotta discriminatoria. Infatti nel corso del giudizio non erano stati allegati dai ricorrenti altri elementi di fatto da cui desumere una più completa valutazione del danno, come ad esempio dati anche statistici sul presumibile numero di soggetti che avrebbero avuto potenzialmente i requisiti per partecipare al concorso, ma non lo avevano fatto perché scoraggiati dalla presenza della clausola limitativa, o la perdita di chances economiche legate al profilo professionale messo a bando. Inoltre il beneficiario della tutela risarcitoria non poteva che essere l’Associazione, unico ricorrente sopravvissuto alla declaratoria di inammissibilità del ricorso che aveva riguardato la ricorrente individuale. In sede di gravame, il Ministero lamentava l’assenza di prova dell’effettiva lesione degli interessi di tutti quei soggetti solo potenzialmente danneggiati dalla condotta discriminatoria, sostenendo che non vi sarebbe stato alcun danno ulteriore, salvo quello lamentato dalla ricorrente individuale, dal momento che nessun altro concorrente, all’infuori di lei, aveva in realtà impugnato il bando a cagione dell’esclusione. La Corte nel confermare an e quantum del risarcimento così come statuiti nel provvedimento appellato, prende posizione rispetto alla tipologia della lesione, definendo il danno da discriminazione un “danno-evento, in quanto conseguenza diretta della lesione del diritto a non subire disparità di trattamento”, ribadendo, in piena sintonia con la giurisprudenza comunitaria ( in particolare con la sentenza Feryn ) che la lesione del diritto ad accedere al pubblico concorso deve ritenersi sussistente “in termini potenziali” già al momento della pubblicazione del bando contenente la clausola di esclusione dei candidati privi del requisito della cittadinanza, anche se tale esclusione generale non si sia effettivamente tradotta in un danno specifico a carico dei potenziali aspiranti. E tale ristoro deve essere proporzionale al danno subito, consistente nella compressione del diritto a partecipare al mercato del lavoro ed avere natura dissuasiva, dal momento che l’assenza di una misura risarcitoria o l’irrisorietà della stessa finirebbero per frustrare l’effettività dell’azione antidiscriminatoria dell’ente collettivo. Indubbiamente nella pronuncia annotata l’aspetto risarcitorio risulta meno sviluppato sotto il profilo motivazionale degli altri profili esaminati e risente della conclusione un po’ tranchant della vicenda in corso di causa, a seguito dell’esaurimento della specifica procedura concorsuale e dell’assegnazione dei posti, senza che alcun soggetto non cittadino italiano abbia in definitiva davvero beneficiato della vittoriosa azione collettiva. Residua pertanto il valore simbolico del ristoro pecuniario garantito all’Associazione, che ne conferma il ruolo di garante di un interesse generale superindividuale. E, forse, un’efficacia latu sensu sanzionatoria (e quindi per ciò stesso dissuasiva) verso il Ministero agente la condotta discriminatoria, volta, pro futuro, a scoraggiare la pubblicazione di altri bandi contenenti clausole discriminatorie in base al fattore “nazionalità” al di fuori delle tassative prescrizioni di legge. E’ legittimo chiedersi a questo punto cosa sarebbe accaduto se l’azione collettiva proposta dall’Associazione avesse ottenuto un “piano di rimozione” degli effetti discriminatori comprendente non solo e non tanto l’ammissione con riserva della singola ricorrente discriminata ( la quale, come abbiamo visto, era risultata poi inidonea alle prove preselettive, perdendo così interesse a coltivare l’azione giudiziaria), quanto, più efficacemente, una generale riapertura dei termini del bando, adeguatamente depurato dalla clausola di esclusione, per consentire la partecipazione di altri soggetti non identificabili privi del requisito della nazionalità, ma in possesso delle altre caratteristiche richieste (ad esempio, come nel caso di specie, cittadini di paesi terzi lungo soggiornanti) . Una riapertura dei termini accompagnata da efficaci misure comunicative.
6. Conclusioni.
Nella precedente nota ci permettevamo di osservare come in siffatte vicende giudiziarie, a fronte di un apparato normativo antidiscriminatorio complicato, lacunoso e disorganico, si richieda al giudice un intervento ermeneutico molto incisivo, con tutti i rischi che comporta una così ampia attività di supplenza conferita alla magistratura rispetto al legislatore, cui spetterebbe istituzionalmente il compito di armonizzare norme particolarmente delicate. Vi è a dire che tale compito di nomofilachia risulta essere stato ampiamente esercitato dalla giurisprudenza di legittimità, che in questi ultimi anni si è attestata, in materia di rimedi alla discriminazione per nazionalità, su un orientamento costante ed ha reso il compito del giudice di merito meno difficoltoso. Ciò non toglie che la stratificazione normativa in materia antidiscriminatoria verificatasi nel tempo nel nostro ordinamento risulti ancora assai disomogenea, essendo frutto dell’intreccio fra le norme preesistenti (il TU Immigrazione del 1998) ed i due decreti “gemelli” del 2003, n. 215 e 216, di (imperfetto) recepimento delle due Direttive comunitarie ( la 43/2000/CE e la 78/20007CE). Tanto è vero che l’Italia ha subito un procedimento di infrazione, cui solo parzialmente si è posto rimedio . Sotto il profilo processuale, poi, la riduzione dei riti operata attraverso l’art. 28 del d.lgs. n. 150/2011 ha determinato sicuramente una notevole semplificazione, senza però risolvere del tutto le aporie sistemiche derivanti dall’intrecciarsi variegato di fattori di discriminazione legati all’immigrazione, che, come nel caso affrontato dalla sentenza commentata, devono essere risolte caso per caso dall’interprete. Non solo. Abbiamo avuto già occasione di dolerci per l’effetto negativo provocato da una eccessiva semplificazione, frutto della scelta di convogliare tutte le precedenti azioni antidiscriminatorie per fattori diversi dal sesso verso la procedura sommaria “comune” di cui all’art. 702 bis c.p.c., la quale non garantisce tempi certi al giudizio e soprattutto non prevede, come in precedenza, il cd. “doppio binario” (un’azione ordinaria ed un’azione sommaria urgente). Mentre in materia antidiscriminatoria è fondamentale poter contare su un rapido intervento inibitorio, restitutorio e ripristinatorio, ben più che risarcitorio, per rimediare agli effetti nefasti di tali condotte. Tanto è vero che anche nella fattispecie portata in giudizio i ricorrenti, per ottenere in tempo utile una pronuncia che sterilizzasse gli effetti dell’esclusione dal concorso dei soggetti discriminati, non avendo a disposizione un rimedio “speciale”, hanno dovuto avvalersi dell’azione prevista in via generale dall’art. 700 c.p.c., intraprendendo un’azione d’urgenza in corso di causa ed ottenendone una pronuncia cautelare di limitato respiro ( l’ammissione con riserva della sola ricorrente), senza riaprire i termini di partecipazione per gli altri potenziali interessati. Un provvedimento che peraltro aveva dato luogo ad un reclamo, con conseguente appesantimento dell’iter processuale ed inevitabile rischio di pronunce contrastanti.
Siamo pertanto ancora di fronte agli esiti di una scelta di politica legislativa che non risolve le aporie del sistema e lascia all’interprete l’ingrato compito di uniformare il trattamento processuale della variegata casistica delle discriminazioni legate all’immigrazione ed al trattamento dello straniero appartenente a Paesi terzi, nella quale con grande frequenza si intrecciano fattori misti od incrociati, dando luogo a discriminazioni multiple