TESTO INTEGRALE CON NOTE E BIBLIOGRAFIA
1. Premessa
Il contributo si propone di analizzare alcuni aspetti delle recenti pronunce della Corte Costituzionale e della Corte di Giustizia in merito alla compatibilità della tutela prevista per la violazione dei criteri di scelta nei licenziamenti collettivi, con i parametri costituzionali nazionali e di impronta costituzionale dell’ordinamento euro-unitario, in assenza di un ordine di collegamento di tipo gerarchico/kelseniano. Con l’ordinanza n. 254/2020 la Corte Costituzionale ha dichiarato inammissibile la questione di costituzionalità, sollevata dalla Corte d’Appello di Napoli, con riferimento all’art. 1 comma 7 della L. 183/2010 unitamente agli artt. 1 comma 2, 3 e 10 del D. legsl. 4.3.2015 n. 23, per la violazione degli artt. 3, 4, 24, 35, 38, 41, 111 Cost. e dall’art. 117 primo comma (stante la dedotta violazione dell’art. 24 della Carta Sociale Europea, dell’art. 30 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea nonché degli artt. 20, 21 e 47 del medesimo trattato). Nell’ambito della stessa controversia la Corte di Giustizia dell’Unione europea, con ordinanza 4 giugno 2020 nella causa C-32/20 , ha dichiarato la sua manifesta incompetenza a pronunciarsi sulla domanda pregiudiziale relativa all’interpretazione degli artt. 20, 21, 30, 34 e 47 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea nonché della direttiva 98/59/CE concernente il ravvicinamento delle legislazioni degli Stati membri in materia di licenziamenti collettivi. L’ampio ventaglio delle presunte violazioni argomentate dal collegio rimettente è stato paralizzato da ambedue le Corti con due decisioni che hanno scelto di limitare l’analisi alla soglia delle verifiche preliminari (il difetto di competenza per materia con riferimento ai margini d’intervento della Corte di Giustizia e l’irrilevanza della questione per la Corte Costituzionale). Le decisioni fanno applicazione di criteri eccessivamente restrittivi nell’interpretazione delle disposizioni che consentono l’accesso al merito del giudizio. I timori di possibili contrasti interpretativi derivanti dal nuovo corso in materia di pregiudizialità inaugurato dalla Corte Costituzionale dal 2017, sono pertanto stati fugati ed il temuto banco di prova non ha finora prodotto quell’allargamento del perimetro di tutela auspicato bensì l’applicazione di rigidi schemi interpretativi sull’ammissibilità delle questioni.
1. Analisi degli elementi di fatto generatori della controversia.
Una lavoratrice, assunta l’1.5.2016 a seguito di passaggio di cantiere ed in virtù di una clausola sociale, in data 15.5.2016 è licenziata ai sensi dell’art. 24 comma 1 L. 223/91.
A causa del mutamento dell’appalto la nuova commessa non prevedeva più la figura professionale afferente alla mansione impiegatizia già svolta dalla ricorrente nel corso del precedente contratto e pertanto, secondo i criteri di scelta adottati e formalmente comunicati alle parti sociali, ne conseguiva il licenziamento delle unità ritenute eccedentarie.
La lavoratrice proponeva ricorso davanti al Tribunale di Napoli e contestava i criteri di scelta adottati; riteneva che la procedura di riduzione del personale fosse indirizzata a tutte le unità in forze e non solo a quelle impegnate nel cantiere ove la stessa prestava servizio.
Secondo la ricostruzione offerta, l’organigramma aziendale prevedeva identiche figure professionali immotivatamente escluse dalla comparazione. Chiedeva pertanto che il giudice, accertata l’ illegittimità del licenziamento, disponesse la reintegrazione della ricorrente e condannasse la datrice alla corresponsione del risarcimento del danno.
Il giudice di prime cure rigettava il ricorso per genericità ed infondatezza dei motivi e la lavoratrice proponeva gravame innanzi la Corte d’Appello. Tra le varie eccezioni la società datrice resistente deduceva che, nel caso di specie, non fosse invocabile la tutela reintegratoria in quanto il regime applicabile rientrava nella sfera di efficacia dell’art. 10 del D. lgsl. 4.3.2015 n. 23 in ragione della data di assunzione. La Corte d’Appello riteneva che la decisione, in virtù della tempistica di costituzione del vincolo contrattuale, implicasse necessariamente il vaglio e l’applicazione, nel caso di accoglimento delle domande, della normativa di cui agli articoli 1 comma 2 e 10 del D. legsl. 4.3.2015 n. 23; ai fini del giudizio, stante la coesistenza di diversi regimi sanzionatori, assumeva rilevanza il vaglio di conformità costituzionale del regime meramente indennitario nella formulazione antecedente alla novella di cui al D.L. n. 87/2018 convertito in Legge n. 96/2018. Il giudice di secondo grado dubitava dunque della conformità della disciplina summenzionata sia con i parametri euro-unitari che con quelli costituzionali nazionali (adeguatezza ed effettività della tutela per il danno subito dalla perdita del posto di lavoro, ragionevolezza della coesistenza di plurimi regimi sanzionatori, anche rispetto ai principi di parità e non discriminazione dei lavoratori) e pertanto sollevava contestualmente sia la questione pregiudiziale di conformità avanti la Corte di Giustizia che quella di costituzionalità. E’ importante precisare che la vicenda da cui traggono origine i due giudizi attiene ad una specifica categoria di lavoratori relegati in una terra di mezzo di discipline per aver subito gli effetti della riforma (qualitativa) del c.d. contratto a tutele crescenti (in quanto assunti dopo il 7.3.2015) ma che sono rimasti esclusi dagli effetti (quantitativi) del c.d. decreto dignità (per essere il licenziamento stato intimato prima del 14 luglio 2018).
2. Prove di dialogo tra le Corti sul tema della c.d. doppia pregiudizialità
La Corte d’Appello di Napoli nell’ordinanza di rimessione afferma che non possa “negarsi che nell’ambito delle Carte fondamentali sussista, anche in forza delle comuni tradizioni giuridiche, un’ oggettiva correlazione tra gli artt. 20, 21, 30 e 47 CDFUE e gli artt. 3, 4, 35 e 111 Cost. in un rapporto che, sebbene investa omogenei diritti fondamentali, tuttavia non necessariamente li rende del tutto sovrapponibili richiedendo, quindi, un’opera interpretativa rimessa alle competenze delle rispettive Alte Corti”.
Il giudice rimettente affronta senza infingimenti il rapporto tra lo scrutinio rimesso al giudice europeo e quello devoluto al giudice costituzionale nazionale, dichiarando che “qualsiasi prassi costituzionale interna che impedisca di ritenere la supremazia del diritto dell’Unione, ostacolando anche temporalmente la facoltà del giudice nazionale di adire ex art. 267 TFUE la Corte di Giustizia, non sia compatibile con i vincoli assunti dall’Italia con l’adesione all’Unione Europea”. Ritiene pertanto di poter sollevare contemporaneamente, con separate ordinanze, entrambe le questioni prospettabili ovvero la questione innanzi alla Corte Costituzionale per la sospetta incostituzionalità di norme primarie interne (art. 1 comma 7 Legge 183/2014 ed art. 10 D. Legsl. 4 marzo 2015 n. 23 in sé ed in combinato disposto con l’art. 3 del medesimo decreto) lesive anche di diritti fondamentali di fonte sopranazionale e la questione pregiudiziale innanzi alla Corte di Giustizia dell’ Unione Europea per l’interpretazione della portata e della valenza delle stesse norme euro-unitarie “onde valutare la compatibilità di queste ultime con il diritto interno”.
Il tema della c.d. doppia pregiudizialità, laddove siano coinvolti diritti fondamentali o comunque situazioni giuridiche oggi qualificate “di impronta costituzionale” , è divenuto sempre più frequente nell’ordinamento multilivello. A fronte di un simultaneo coinvolgimento di discipline applicabili o comunque rilevanti, l’interprete si interroga se sia possibile individuare un ordine di collegamento sistematico in assenza di un criterio gerarchico piramidale di tipo kelseniano ; la riarticolazione delle sfere di competenza tra le due Corti ha nel tempo assunto i toni di una contesa che ha il sapore di un’ actio finium regundorum . A fronte di un persistente e, a parere di chi scrive, più aderente al dettato normativo, orientamento ermeneutico di tipo “monistico”, caldeggiato fin dalle origini dalla CGUE, la Corte Costituzionale italiana ha tradizionalmente concepito gli ordinamenti (nazionale e euro-unitario) come “autonomi e distinti ancorché coordinati” . La possibilità di disapplicazione della norma nazionale, nei casi di contrasto con previsioni comunitarie specifiche dotate di efficacia immediata diretta, è ormai un dato non più controverso . Qualora si presenti l’evenienza in cui la norma euro-unitaria sia priva di efficacia diretta e non sia possibile superare il contrasto in via interpretativa, l’orientamento prevalente sostiene che “il giudice comune deve sollevare la questione di legittimità costituzionale” . Fino alla sentenza Corte Costituzionale n. 269/2017 le questioni di doppia pregiudizialità venivano costantemente decise anteponendo le questioni di diritto europeo a quelle di costituzionalità; la Corte Costituzionale per un lungo periodo ha richiesto ai giudici comuni di adire preventivamente la Corte di Giustizia al fine di definire correttamente il quadro normativo sovranazionale. La ragione di tale convincimento si fondava su un presupposto di natura logica; potendo la risposta della Corte di Giustizia determinare la non applicazione del diritto nazionale per contrasto con quello euro-unitario, si reputava necessario attendere il pronunciamento di quest’ultima in quanto l’esito del giudizio del giudice comunitario era suscettibile di incidere sulla “rilevanza della questione di costituzionalità” rendendo il più delle volte inutile o non praticabile la successiva proposizione di tale giudizio . Con un obiter dictum foriero di un inesausto dibattito dottrinale, la Corte si è discostata dal precedente orientamento; il ripensamento muove dalle “trasformazioni che hanno riguardato il diritto dell’ Unione europea e il sistema dei rapporti con gli ordinamenti nazionali dopo l’entrata in vigore del Trattato di Lisbona”. Si fa riferimento all’ ingresso nel novero delle fonti della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea ovvero al conferimento di effetti giuridici vincolanti pari a quelli dei Trattati UE. La Corte ritiene che, laddove una legge sia oggetto di dubbi di legittimità tanto in riferimento a diritti protetti dalla Costituzione italiana quanto in relazione al quelli garantiti dalla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea in ambito di rilevanza comunitaria, debba essere sollevata la questione di legittimità costituzionale, fatto salvo il ricorso al rinvio pregiudiziale per le questioni di interpretazione o di invalidità del diritto dell’ Unione, ai sensi dell’art. 267 TFUE. Questo aspetto viene sviluppato con maggiore profondità fino a divenire ratio decidendi nelle sentenze 20 e 63 del 2019; La Corte motiva questo sua nuovo corso. La CDFUE “costituisce parte del diritto dell’ Unione dotata di caratteri peculiari in ragione del suo contenuto di impronta tipicamente costituzionale” . I principi ed i diritti contenuti nella Carta intersecano in larga misura i principi garantiti dalla Costituzione italiana. In questo caso “le violazioni dei diritti della persona postulano la necessità di un intervento erga omnes” e ciò perché il sindacato di costituzionalità delle leggi si situa al “centro dell’architettura costituzionale” seppur è compatibile con un concorso di rimedi giurisdizionali. Il nuovo orientamento della Corte ha come destinatari i giudici comuni i quali vengono ammoniti a non svolgere un compito di controllo diffuso di costituzionalità delle leggi attraverso il rimedio della disapplicazione .
Si specifica chiaramente che se il giudice non applica una norma interna in conflitto con la Carta di Nizza e con la Costituzione, “la non applicazione trasmoda inevitabilmente in una sorta di sindacato diffuso di costituzionalità della legge”. Giova ricordare come, diversamente dall’orientamento inaugurato nel 1984 dalla sentenza Granital, non rileva più il carattere delle norme cioè il fatto che siano self executing o meno. A questa valutazione subentra quella relativa alla loro intrinseca natura ovvero che abbiano un’ “impronta costituzionale”. Mentre la Corte Costituzionale ha cercato di impedire un progressivo svuotamento dei propri poteri attraverso una “fuga dal giudizio di costituzionalità” la CGUE, temperando il rigore inaugurato con la sentenza Simmenthal, ha evitato un conflitto diretto elaborando il principio enunciato con la sentenza 22 giugno 2010 relativa alle cause C-188/10 e C-189/10 secondo cui: “ l’art 267 TFUE osta ad una normativa di uno Stato membro che instaura un provvedimento incidentale di controllo di legittimità costituzionale delle leggi nazionali, nei limiti in cui il carattere prioritario di siffatto procedimento abbia effetto di impedire ai giudici di sottoporre questioni pregiudiziali alla Corte”. Tuttavia la stessa disposizione non osta ad una normativa nazionale come quella descritta a condizione che gli organi delle giurisdizioni nazionali sono liberi: a) di sottoporre “in qualunque momento” alla Corte di Giustizia “qualsiasi questione pregiudiziale che essi ritengano necessaria”; b) di adottare qualsiasi misura necessaria per garantire la tutela giurisdizionale provvisoria dei diritti conferiti dall’ordinamento giuridico dell’Unione; c) di disapplicare, al termine di siffatto procedimento incidentale, la disposizione legislativa nazionale che ritengano in contrasto con le disposizioni dell’ordinamento europeo. Nell’ammettere che il controllo di costituzionalità possa precedere la definitiva applicazione del diritto europeo, la Corte di Giustizia consente che, provvisoriamente, una regola interna possa temporaneamente paralizzare il diritto dell’Unione europea seppur con le condizioni sopraesposte. Ma esiste un ordine con cui i giudici di merito debbano sollevare le sue questioni? Secondo un orientamento la questione di costituzionalità dovrebbe essere prioritaria e ciò in quanto il compito della Corte consiste nel fondamentale ruolo di garante dell’uniforme tutela dei diritti laddove siano coinvolte situazioni giuridiche costituzionalmente rilevanti. Il mancato rispetto della priorità scardinerebbe il controllo di costituzionalità accentrato e si porrebbe in violazione con gli articoli 101 e 134 Cost. Naturale conseguenza di tale impostazione (che appare a chi scrive eccessivamente nazionalistica e non rispettosa della libertà del giudice nazionale di valutare liberamente l’ordine delle questioni da scrutinare) è che il rinvio pregiudiziale alla Corte di Giustizia rimarrebbe azionabile “a posteriori” qualora il giudizio di costituzionalità lasci in vigore la norma impugnata. L’impostazione delineata dalla sentenza del 2017 citata ha subito nel tempo un temperamento. Nella sentenza n. 20/2019 la Corte Costituzionale considera condizione necessaria e sufficiente per lo svolgimento del sindacato di costituzionalità anche il fatto che oggetto del giudizio siano norme “legate da una singolare connessione” con la Carta di Nizza e ipotizza che il giudice possa scegliere a quale questione dare la precedenza in maniera del tutto libera anche se sollecita l’opportunità (e non l’obbligo) di un intervento erga omnes. E’ fondata pertanto l’impressione di coloro che leggono come un “nuovo patto” il rapporto tra le due Alte Corti basata sul fatto che la “sopravvenienza delle garanzie approntate dalla CDFUE rispetto a quelle della Costituzione italiana genera in concorso di rimedi giurisdizionali, arricchisce gli strumenti di tutela dei diritti fondamentali e, per definizione, esclude ogni preclusione”.
Il giudice rimettente ha optato per il simultaneo interpello delle due Corti. Così operando ha preso le distanze dall’opzione suggerita dalla Corte Costituzionale volta a dare tendenzialmente precedenza alla questione di costituzionalità. E’ una soluzione mediana che però non appare convincente. Se il Collegio di Napoli dubitava della compatibilità della disciplina interna con l’assetto delle fonti comunitarie avrebbe dovuto prima interpellare (su questo specifico punto naturalmente) la Corte di Giustizia. Il fatto che la Corte Costituzionale nella sentenza in esame recepisca quanto statuito dalla CGUE con precipuo riferimento ai parametri euro-unitari ne è una conferma. E’ vero che l’art 117 Cost. apre l’ordinamento interno all’esterno ma lo fa nel rispetto dei vincoli dell’ordinamento comunitario. La Corte di giustizia è l’organo titolato all’interpretazione dei trattati e degli atti dell’Unione dopo che il giudice nazionale non è riuscito a sciogliere autonomamente il nodo interpretativo sull’antinomia tra fonti.
La Corte Costituzionale non potrebbe conferire ad una disposizione sovranazionale un significato difforme da quella attribuita dalla Corte di Giustizia già pronunciatasi. Nella sentenza 111/2017 in materia di parità retributiva tra donne e uomini la Corte Costituzionale, prima di procedere all’esame della compatibilità della normativa italiana impugnata con i principi della Carta, si è posta spontaneamente il problema della individuazione delle competenze dell’Unione rilevanti. Non presentando casi di incertezza in quel caso ha dato applicazione alla Carta; potrebbe però essa stessa sollevare una nuova questione interpretativa. E’ senz’altro vero che il proporre simultaneamente le due questioni può comportare un risparmio di tempo almeno in fase di ingresso ma questa scelta paga lo scotto di far perdere al giudice rimettente il controllo della tecnica decisoria essendo rimesso l’esito all’elemento casuale relativo a quale giudice si pronuncerà per primo e a quali riverberi la sua decisione avrà sull’altra questione ancora pendente. Dopo aver proposto entrambe le questioni contemporaneamente il giudice non potrà beneficiare della conoscenza scaturita dall’esito di una delle due questioni per riparametrare la domanda nei confronti dell’altra in relazione al risultato ottenuto o mancato. Potrebbe la Corte Costituzionale dichiarare rilevante una questione sollevata per gli stessi motivi per i quali il giudice ha adito ex art 267 TFUE la Corte di Giustizia? Stando all’affermazione della Corte Costituzionale nella sentenza in esame essa sul tema già deciso dalla CGUE “non ha ragione di esprimersi”. Appare opportuno allora indagare con maggiore profondità il requisito di “rilevanza della questione”.
3. Il corto circuito tra rilevanza della questione e fondatezza della domanda nell’argomentazione della Corte Costituzionale.
La Corte Costituzionale dichiara le questioni sollevate inammissibili in quanto: 1) il giudice remittente non ha offerto “nessun ragguaglio sulle ragioni che fondano l’illegittimità del licenziamento collettivo per violazione dei criteri di scelta e inducono, dunque, a disattendere le valutazioni di segno contrario espresse dal giudice di primo grado”; ed ancora in quanto “l’odierno rimettente trascura di descrivere la fattispecie concreta e di allegare elementi idonei a corroborare l’accoglimento dell’ impugnazione in virtù di una violazione dei criteri di scelta, già esclusa dal giudice di prime cure”; 2) “dalla formulazione delle censure non è dato comprendere se il rimettente prefiguri l’integrale caducazione dell’art. 10 del d. lgs n. 23 del 2015, nella parte in cui sanziona la violazione dei criteri di scelta, o una pronuncia sostitutiva, che allinei il contenuto precettivo di tale previsioni alle soluzioni dettate dall’art. 5, comma 3, terzo periodo, della legge 223 del 1991, come ridefinito dall’art. 1, comma 46 della legge 92 del 2012”. La Corte quindi prescinde dall’esame del merito costituzionale della questione in quanto, a fronte di un corposo iter motivazionale del giudice remittente, rileva alcune lacune che valuta inemendabili. Si esaminerà solo il primo dei due motivi di inammissibilità in quanto ritenuto poco comprensibile alla luce di argomentazioni logiche e di precedenti interpretazioni della Corte sulla nozione di rilevanza della questione.
La Corte contesta ai giudici partenopei di non aver dato conto del tipo di vizio da cui sarebbe stato affetto il licenziamento collettivo condotto alla sua attenzione - antecedente logico necessario per poter individuare il trattamento sanzionatorio applicabile (se relativo alla violazione della c.d. procedura o dei criteri di scelta). Con riferimento al requisito della rilevanza la Corte contesta al remittente di non indicare se la disciplina di cui si invoca lo scrutinio sia applicabile nel giudizio a quo. L’elaborazione della Corte ha nel tempo modulato il concetto di rilevanza ripreso all’art. 23 secondo comma della L. 87/1953 che si esprime con la seguente locuzione: “qualora il giudizio non possa essere definito indipendentemente dalla risoluzione della questione”. La rilevanza esprime un nesso inscindibile ed un “effettivo e concreto rapporto di strumentalità fra la risoluzione della questione di legittimità e la definizione del giudizio principale” (Ord. 282/1998).
La Corte nella pronuncia in oggetto sembra porsi in continuità con i precedenti particolarmente rigorosi che hanno ritenuto necessario che la questione investisse la norma che regola indubbiamente il rapporto controverso (sentenza 3/1974) e che le norme della cui costituzionalità si dubita debbano certamente essere applicate (sentenza 103/1977); che debba farsi applicazione concreta della norma non bastando la generica possibilità che la norma stessa venga applicata nel corso del giudizio ove si verifichino le condizioni necessarie per la sua applicazione (sentenza 10/1979) e che il giudice a quo dimostri di non poter prescindere dall’applicazione della norma sottoposta a scrutinio (sentenza 190/1984). Per contro si è progressivamente affermato un orientamento meno rigido che reputa sufficiente, al fine di integrare il requisito della rilevanza, l’astratta possibilità di applicazione delle disposizioni contestate al caso oggetto del giudizio a quo (sentenza 292/1987) ovvero richiede come requisito necessario e sufficiente che ricorra una situazione tale, valutata in limine litis, per cui la disposizione contestata sia applicabile ai fini della decisione del giudizio a quo. La valutazione in termini di applicabilità esimerebbe il remittente dal percorrere l’esame del merito nella causa principale (sentenza 241/1990) . Nel caso in esame il giudice d’appello ha ritenuto che in astratto l’applicabilità della disciplina contestata potesse giustificare la rilevanza della questione considerando come ormai stratificato evidentemente il secondo orientamento della Corte. Con un imprevisto irrigidimento interpretativo la Corte invece ha disatteso la fiducia del giudice. Ha ritenuto infatti che, poiché il compito del rimettente fosse quello di confermare o riformare il giudizio di primo grado (che aveva rigettato il ricorso e quindi ritenuto inapplicabile la disposizione sospetta di incostituzionalità), l’esame della rilevanza della questione avrebbe dovuto contemplare ed esplicitare i motivi per i quali la sentenza del giudice di primo grado fosse erronea riconoscendo fondato il ricorso e meritevole di accoglimento. Solo a questo punto dell’iter motivazionale sarebbe venuta in rilievo l’applicabilità (in concreto) del regime di tutela . Qualora invece il giudice d’appello avesse ritenuto di confermare il giudizio di primo grado tale questione non avrebbe avuto ragione di porsi. Così ragionando però la questione sarebbe rilevante solo se fondata con evidente corto circuito tra il giudizio di rilevanza e il giudizio di fondatezza nel merito. Ma vi è di più. Come esplicitato la Corte ha mutato l’orientamento che ribadiva che la questione di compatibilità comunitaria costituisce un prius logico giuridico rispetto alla questione di legittimità costituzionale in via incidentale, poiché investe la stessa applicabilità della norma censurata nel giudizio principale e, pertanto, la rilevanza della questione. Con la sentenza 63/2019 la Corte ha statuito: “a questa Corte non può ritenersi precluso l’esame nel merito delle questioni di legittimità costituzionale sollevate con riferimento sia a parametri interni, anche mediati dalla normativa interposta convenzionale, sia – per il tramite degli artt. 11 e 117, primo comma, Cost. – alle norme corrispondenti della Carta che tutelano, nella sostanza, i medesimi diritti; e ciò fermo restando il potere del giudice comune di procedere egli stesso al rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia UE, anche dopo il giudizio incidentale di legittimità costituzionale, e – ricorrendone i presupposti – di non applicare, nella fattispecie concreta sottoposta al suo esame, la disposizione nazionale in contrasto con i diritti sanciti dalla Carta. Laddove però sia stato lo stesso giudice comune a sollevare una questione di legittimità costituzionale che coinvolga anche le norme della Carta, questa Corte non potrà esimersi, eventualmente previo rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia UE, dal fornire una risposta a tale questione con gli strumenti che le sono propri: strumenti tra i quali si annovera anche la dichiarazione di illegittimità costituzionale della disposizione ritenuta in contrasto con la Carta (e pertanto con gli artt. 11 e 117, primo comma, Cost.), con conseguente eliminazione dall’ordinamento, con effetti erga omnes, di tale disposizione”. Se pertanto neppure il dubbio del giudice sulla compatibilità della disciplina interna con quella comunitaria è ostativo alla valutazione della rilevanza della questione da parte della Corte, tanto da lasciare il giudice libero di sottoporre la questione pregiudiziale anche a valle della questione di costituzionalità, come può essere considerata priva di rilevanza la questione relativa alla possibilità di applicare la disciplina nel giudizio in questione laddove il giudice sia certo dell’applicabilità della disciplina ritenendo che l’eventuale accoglimento “altererebbe il quadro normativo di riferimento”? Dalla trama dell’ordinanza di rimessione traspare che le doglianze del giudice si siano appuntate sulla disciplina sanzionatoria derivante dalla violazione dei criteri di scelta per cui la motivazione della Corte in tal senso non convince. La Corte utilizza una leggerezza del giudice rimettente (ovvero quella di aver accennato alla violazione delle procedure) e ne fa un motivo ostativo al procedere all’esame nel merito. L’apparato motivazionale contenuto nell’ordinanza di rimessione e la circostanza che anche la Corte di giustizia abbia avuto ben chiaro quale fosse il quesito del giudice, tanto da dichiararsi incompetente sulla materia dei criteri di scelta, militano a favore dell’univocità del senso della questione posta dal collegio di Napoli. Qualora la Corte di Giustizia fosse stata richiesta di un’interpretazione relativa al trattamento sanzionatorio relativo ai vizi di procedura non avrebbe potuto (ma il condizionale è d’obbligo) dichiarare la propria incompetenza poiché i vizi di procedura e soprattutto quelli gravi costituiscono gli elementi costitutivi della fattispecie . Conviene allora esaminare più approfonditamente la decisione della Corte di Giustizia sul punto.
4. Il difetto di competenza nell’Ord. 4 giugno 2020 nella C-32/20 CGUE: un approccio eccessivamente asfittico
La CGUE in relazione all’identica questione sollevata ai sensi dell’art 267 TFUE dichiara che l’art. 30 della Carta dei diritti nonché gli articoli 20, 21, 34 e 47 della Carta non hanno alcun rapporto con l’oggetto del procedimento principale. Le disposizioni della Carta si applicano agli Stati membri, ai sensi dell’art. 51, par. 1 esclusivamente per i casi in cui sia coinvolta “l’attuazione del diritto dell’Unione”. La Carta infatti non è abilitata ad estendere l’ambito di applicazione del diritto dell’Unione al di là delle competenze e compiti definiti nei trattati. La preoccupazione degli Stati membri era in origine escludere fermamente che i diritti riconosciuti dalla Carta potessero essere interpretati come base giuridica autonoma per giustificare nuove azioni delle istituzioni europee, attraverso l’adozione di atti non altrimenti riconducibili alle competenze attribuite all’Unione . La Dichiarazione n. 1 relativa alla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea allegata all’atto finale ella Conferenza intergovernativa che ha adottato il trattato di Lisbona ribadisce che “la Carta non estende l’ambito di applicazione del diritto dell’Unione al di là delle competenze dell’Unione, né introduce competenze nuove o compiti nuovi per l’Unione né modifica le competenze e i compiti definiti nei trattati”. Secondo quanto statuito dalla CGUE nel caso oggetto del nostro esame, l’art. 51 della Carta, riferendosi all’attuazione del diritto dell’Unione, postula un collegamento tra un atto di diritto dell’Unione e la misura nazionale in questione che vada al di là dell’affinità delle materie prese in considerazione o dell’influenza indirettamente esercitata da una materia sull’altra; ed ancora “….il solo fatto che una misura nazionale ricada in un settore nel quale l’Unione è competente non può collocarla nella sfera di applicazione del diritto dell’Unione e quindi comportare l’applicabilità della Carta” (punto 26 della motivazione). La direttiva 98/59 non impone un obbligo specifico relativamente al tipo di tutela da applicare in quanto l’obiettivo principale di tale direttiva consiste nel far precedere i licenziamenti collettivi da una consultazione dei rappresentanti dei lavoratori e dall’informazione dell’autorità pubblica competente. La direttiva garantisce solo un’armonizzazione parziale delle norme a tutela dei lavoratori in caso di licenziamenti collettivi, ossia la procedura da seguire mentre non ha come obiettivo quello di realizzare un meccanismo di compensazione economica generale a livello dell’Unione in caso di perdita del posto di lavoro né armonizza le modalità della cessazione definitiva delle attività di un’impresa. Le modalità di individuazione dei criteri di scelta rimangono pertanto di competenza degli Stati membri. La CGUE si dichiara manifestamente incompetente a pronunciarsi sulla questione sollevata. La Corte Costituzionale, evidentemente preoccupata di garantire una leale collaborazione tra autorità giurisdizionali e di allontanare il sospetto di invasioni di campo, fa propria l’argomentazione della Corte di Giustizia e ribadisce pedissequamente le conclusioni dell’autorità europea anche se, soggiunge, “non ha ragione di esprimersi”. L’ ambito di applicazione della Carta è soggetto ad una interpretazione multiforme da parte della Corte di giustizia . Negli ambiti legati alla integrazione economico-finanziaria e al mercato interno la Corte di giustizia tende ad applicare estensivamente la Carta (ad esempio nel caso Fransson ); Nei settori dove l’Unione ha solo compiti di coordinamento la Corte avrebbe mantenuto un atteggiamento molto cauto e restrittivo, ritenendo applicabili i diritti protetti dalla Carta solo “in casi eccezionali”, lasciando ampio spazio al principio della fiducia reciproca fra gli Stati membri in merito alla tutela dei diritti fondamentali. Nel caso c.d. Berlioz i giudici di Lussemburgo hanno ritenuto che gli Stati operino in attuazione del diritto dell’UE – con conseguente applicabilità della Carta, ai sensi dell’art. 51, nell’ambito di uno scambio di informazioni tra amministrazioni in campo fiscale previsto dalla Direttiva 2011/16/UE e ciò anche se la normativa nazionale non era stata esplicitamente adottata per attuare la disciplina euro-unitaria e anche se lo Stato commina sanzioni che la direttiva non obbligava specificamente a prevedere . Si legge infatti nella sentenza Berlioz: “Orbene, si constata che per poter garantire un effetto utile a tale direttiva, dette misure devono contemplare provvedimenti, alla stregua della sanzione pecuniaria oggetto del procedimento principale, che garantiscano che gli amministrati siano adeguatamente incitati a dar seguito alle domande formulate dalle autorità tributarie e, di riflesso, che consentano all’autorità interpellata di ottemperare al suo obbligo nei confronti dell’autorità richiedente”. Uno scenario molto vicino a quello della direttiva 98/59 in cui è contemplata espressamente “l’informazione sui criteri previsti per la selezione dei lavoratori da licenziare” e l’obbligo per gli Stati di far rispettare gli obblighi della direttiva. E’ sicuramente vero che non è contemplato un obbligo specifico degli Stati di predisporre un rimedio giurisdizionale per la violazione dei criteri di scelta ma, come testimonia il caso menzionato, non era previsto neppure un obbligo specifico per gli Stati di predisporre una sanzione per l’inadempimento alla richiesta di scambio di informazioni. L’approccio asfittico della Corte di Giustizia nel caso in esame consiste proprio nel misconoscere che laddove sia previsto un obbligo c.d. informativo e procedurale ciò che sta a valle di questo adempimento sia estraneo alla fattispecie. Ritenere che nell’ambito dei licenziamenti obblighi informativi e procedurali e obbligo di rispetto dei criteri di scelta siano materie semplicemente affini e quindi non interdipendenti equivale a disarticolare un’esigenza di tutela ritenendo che la direttiva si interessi degli atti (intesi come comportamenti dovuti) ma ritenga estranei gli effetti finali (cioè le conseguenze che derivano dalla erronea applicazione dei medesimi). Così argomentando potremmo giungere alla paradossale conseguenza che qualora non fosse previsto nessun apparato sanzionatorio contro la violazione dei criteri di scelta tale opzione legislativa sarebbe perfettamente compatibile con la direttiva in quanto materia ad essa estranea.
5. Alcuni dei tratti differenziali rispetto alle questioni già scrutinate in materia di licenziamenti individuali
Le questioni che il giudice rimettente pone all’attenzione della Corte ricalcano per molti versi quelle già decise nella sentenza 194/2018 di dichiarazione di parziale incostituzionalità del sistema di tutela indennitaria approntato dalla novella sul contratto di lavoro a tutele crescenti. Il giudice partenopeo ritiene però di poter stimolare la Corte Costituzionale a rimeditare i percorsi argomentativi svolti in quell’occasione per rigettare alcune delle censure mosse dal Tribunale di Roma quale giudice remittente. La sanzione apprestata per i c.d. nuovi assunti si paleserebbe come “inefficace rispetto al danno subito a seguito dell’illegittima perdita del posto di lavoro, priva di efficacia deterrente e inidonea ad assicurare un ristoro efficace del danno anche sotto il profilo previdenziale”. La scelta legislativa relativa alla disparità di trattamento tra nuovi e vecchi assunti ed il deteriore regime di tutela contro il licenziamento ingiustificato delle c.d. tutele crescenti, motivato dallo scopo di favorire l’assunzione a tempo indeterminato degli occupati attraverso la predeterminazione e l’alleggerimento della tutela contro il licenziamento ingiustificato, non apparirebbe più ragionevole alla luce dei criteri ispiratori della disciplina dei licenziamenti collettivi. Un primo elemento differenziale nel caso in oggetto consisterebbe nel fatto che la lavoratrice ricorrente sarebbe stata assunta in ossequio all’applicazione di una clausola sociale quindi ottemperando ad un preciso obbligo del datore di lavoro scevro da qualsiasi ponderazione relativa al vantaggio competitivo rimesso all’applicazione della nuova disciplina che pertanto, in questo caso, non avrebbe svolto né potrebbe svolgere in astratto nessuna funzione promozionale. In secondo luogo la concorrenza tra due o addirittura più sistemi di tutela all’interno della disciplina dei licenziamenti collettivi, stante la natura sincronica della procedura e della comparazione afferente ai profili professionali coinvolti all’interno di un medesimo complesso aziendale, sarebbe suscettibile di orientare il potere di scelta del datore circa i lavoratori da licenziare privilegiando o forse sarebbe meglio dire penalizzando coloro che sono stati assunti dopo la dead line di applicazione della precedente disciplina. Chi sostiene che il giudice rimettente abbia profuso le proprie energie nel tentare di focalizzare l’attenzione più sulla descrizione degli elementi della disparità di trattamento tra le due categorie di lavoratori (vecchi e nuovi assunti) e sulla quale non possono sussistere dubbi di sorta, piuttosto sulla sull’irragionevolezza della scelta legislativa, valorizza la circostanza che i suddetti elementi afferirebbero pur sempre agli effetti della disciplina e non ne altererebbero la ratio . Se è vero che “la diversità di trattamento tra fattispecie identiche è il portato naturale di ogni mutamento di disciplina e la ragionevolezza di questa diversità di trattamento va considerata non con riguardo agli effetti che produce – che fungono piuttosto da presupposto di rilevanza della questione – ma con riguardo alla loro causa vale a dire, avendo riguardo alle ragioni che sostengono la scelta legislativa di innovare alla disciplina vigente con la diversità di trattamento che ne deriva” , è altrettanto condiviso che le medesime ragioni mirano o meglio mirerebbero a favorire l’occupazione e non a favorire l’introduzione di un elemento perturbatore nella ponderazione dei lavoratori da espellere. Le argomentazioni del giudice rimettente pertanto, a parere di chi scrive, colgono nel segno in quanto evidenziano come la disciplina censurata sia irragionevole per il fatto che, laddove in una medesima procedura coesistono più regimi giuridici sanzionatori, il criterio di scelta dei lavoratori da espellere è suscettibile di venire perturbato e condizionato da un elemento esogeno alla fattispecie come le conseguenze di un’eventuale scelta illegittima. Il principio di ragionevolezza appare leso quando si accerti l’esistenza di una contraddittorietà intrinseca tra la complessiva finalità perseguita dal legislatore e la norma censurata. Mentre la razionalità si valuta sulla base della coerenza indipendentemente dalla tutela di un valore, la ragionevolezza si apprezza con un giudizio di corrispondenza tra una legge ed uno o più valori che essa intende tutelare. Anche nel caso in questione pertanto il giudizio di ragionevolezza non può ridursi ad una dimensione “meramente logico discorsiva e non interessare i profili causali del rapporto strumentale mezzi/fini e finanche quelli di proporzionalità e del bilanciamento di interessi” . La valutazione sulla scelta dei lavoratori da licenziare almeno “nella medesima procedura” non può attingere alla tutela di cui beneficiano . Vi è inoltre un ulteriore elemento che a parere chi scrive milita a favore dell’ insufficienza della disciplina sanzionatoria c.d. di mezzo ovvero quella approntata dalla riforma del contratto a tutele crescenti prima dell’aggiustamento del c.d. decreto dignità, consiste proprio nella necessità avvertita dal Legislatore di riparametrare l’indennità; l’intervento è stato volto a scongiurare che l’ammontare disciplinato comportasse il concreto rischio di ineffettività della sanzione e della mancanza di forza dissuasiva. Il lasso temporale tra i due interventi è relativamente breve e la ragione giustificatrice dell’intervento è volta a sanare un deficit di tutela (seppur solo quantitativo) e non è dovuta a nessun fattore al mutamento del quadro economico/occupazionale. Il Legislatore si è avveduto che ha compresso eccessivamente un interesse rispetto ad un risultato atteso e ha ritenuto di intervenire per ricalibrare il sacrificio. Questo intervento tardivo non può però non interferire con la disciplina restata in vigore ratione temporis. A questo punto, anche a voler ritenere ragionevole il mutamento di paradigma tra tutela reintegratoria e la tutela indennitaria, resta insoluto il dilemma dell’insufficienza, attestata dal Legislatore medesimo, relativa ai lavoratori del caso in oggetto ovvero a coloro che fluttuano tra le maglie di una tutela “crescente” ma non “dignitosa”. Sotto questo profilo la dichiarazione di insufficienza della tutela è una dichiarazione confessoria derivante dal mutamento stesso e non abbisogna di un ulteriore indagine.