TESTO INTEGRALE CON NOTE E BIBLIOGRAFIA

1. Il fenomeno sociale

È tristemente noto che le pari opportunità nel mondo del lavoro rappresentano un’utopia ben lontana. Giurisprudenza e dottrina hanno più volte sottolineato come ancora troppo spesso le realtà aziendali si rivelino viziate a causa della frequente occorrenza di fenomeni che ledono l’integrità fisica e la personalità morale dei dipendenti . Tra i tanti episodi , meritano una specifica menzione le discriminazioni. Sebbene in un primo momento rilevassero esclusivamente da un punto di vista sociologico, esse hanno acquisito in breve tempo un importane rilievo giuridico e oggi la fattispecie risulta disciplinata da un ampio corpus normativo.
Attualmente il nostro ordinamento riconosce tre tipi di discriminazione. La prima è la discriminazione diretta, che avviene quando il lavoratore subisce un trattamento differenziato sul luogo di lavoro, da parte di colleghi e superiori, in ragione del proprio genere, orientamento religioso, orientamento sessuale, handicap, convinzioni personali o di qualsiasi altra caratteristica individuale. Essa si pone in inconciliabile contrasto con il principio di uguaglianza sostanziale protetto dall’art. 3 della Costituzione .
La seconda categoria comprende le discriminazioni di tipo indiretto. In tali casi, l’applicazione di una disposizione normativa, di un criterio, prassi, atto, patto o comportamento apparentemente neutri pone alcuni dipendenti in una situazione particolarmente svantaggiosa rispetto ad altre persone, sempre in ragione delle caratteristiche personali del singolo dipendente . Il contenuto dell’atto in sé considerato è legittimo, tuttavia, la sua applicazione nella realtà lavorativa genera situazioni di disparità che l’ordinamento non può tollerare .
L’individuazione di questi primi due tipi di discriminazione risulta agevole in quanto l’art. 25 del d. lgs. 198/2006 ne fornisce una puntuale definizione.
Prive di precisa definizione, ma comunque riconosciute dall'ordinamento, sono le discriminazioni cd. collettive, che rappresentano la terza categoria . Queste si verificano quando un’intera classe o gruppo di lavoratori subisce una disparità di trattamento, in ragione di una condizione personale che li accomuna. Possono quindi essere di tipo diretto o indiretto, ma devono colpire più di un dipendente .
Diverse dalle discriminazioni, ma ugualmente meritevoli di sanzione, sono le molestie. Queste consistono in «ogni atto o comportamento indesiderato, anche verbale , a connotazione sessuale arrecante offesa alla dignità e alla libertà della persona che lo subisce, ovvero che sia suscettibile di creare ritorsioni o un clima di intimidazione nei suoi confronti» . Tale definizione non distingue tra violenza sessuale, atti di libidine e atti verbali . Infatti, la liceità di questi è sempre determinata dal consenso della vittima .
Vi sono tuttavia alcuni dubbi in riferimento alla necessaria connotazione sessuale delle molestie, perché parte della dottrina suggerisce di comprendere tra le stesse anche le condotte di mobbing .

1.1 Discriminazioni di genere e di altro tipo

A fronte di condotte discriminatorie, la vittima può accedere a tutele differenti a seconda della ragione che le ha originate. La distinzione più importante si coglie tra le discriminazioni a sfondo sessuale e quelle di altro tipo. Le prime realizzano una disparità di trattamento o di opportunità tra lavoratori in ragione del loro genere . Da un punto di vista sostanziale, vi sono molte norme che stabiliscono sull’illiceità di questa condotta. Innanzitutto, l’art. 37 della Costituzione sancisce l’identità di diritti, anche retributivi, tra lavoratore e donna lavoratrice, a parità di mansioni. Inoltre, anche le fonti sovranazionali si sono occupate del tema. In via generale, la tutela dei diritti fondamentali (tra cui sine dubio va inclusa la parità in ambito lavorativo tra uomo e donna) è prevista nel secondo paragrafo dell’art. 6 del Trattato di Lisbona. L’argomento è trattato, poi, in maniera più specifica dalla Direttiva 2006/54/CE del Parlamento Europeo, la quale persegue il “principio delle pari opportunità e della parità di trattamento tra uomini e donne in materia di occupazione e impiego” .
Da un punto di vista processuale, il primo riconoscimento della necessità di una tutela giurisdizionale specifica in materia si è avuto con l’emanazione del Codice delle Pari Opportunità, ossia il d. lgs. 198/2006. Tale riforma si è resa doverosa in seguito alla Risoluzione A5-0283/2001 del Parlamento Europeo, dalla quale è emerso che la discriminazione avviene più frequentemente nei confronti degli individui di genere femminile .
Le discriminazioni di altro tipo, invece, abbracciano tutti gli altri casi di trattamento differenziato ingiustificato. Le norme di riferimento in materia sono l’art. 15 della legge 300/1970 e il d. lgs. 216/2003.
In ogni caso, nei rapporti di lavoro, lo stress emotivo causato da atti discriminatori è decisamente accentuato, perché il datore è in grado di esercitare una forte pressione psicologica, tale da condurre i dipendenti a tollerare, se non accettare, condizioni di disparità .

2. I rimedi applicabili a fronte di una discriminazione di genere

Oggi, l’azione contro le discriminazioni di genere è interamente regolata dall’art. 28 del d. lgs. 150/2011, il quale ha realizzato una riduzione e semplificazione dei riti speciali in materia civile . La norma richiama puntualmente gli articoli 702 bis, 702 ter (fatta eccezione per i commi secondo e terzo) e 702 quater del c.p.c. Si è così delineato un procedimento che mira a garantire una duplice tutela, sostanziale e risarcitoria, al lavoratore discriminato, a cui si possono aggiungere sanzioni nei confronti del datore .
Oltre al singolo lavoratore, sono legittimati all’azione anche le associazioni sindacali e i Consiglieri di Parità, se il dipendente vittima della discriminazione vi abbia fornito l’apposita delega . Tuttavia, l’azione proposta dal sindacato è considerata un’azione collettiva, ed è disciplinata dall’articolo 38 del d. lgs. 198/2006, mentre quella proposta dal dipendente è considerata come un’azione individuale, disciplinata dal d. lgs. 150/2011. Se necessario, le due azioni possono coesistere indipendentemente.
Una volta proposto il ricorso, è possibile richiedere che venga esperito il tentativo di conciliazione, che, però, non costituisce un obbligo, né una condizione di procedibilità dell’azione. Qualora l’istanza di conciliazione sia presentata dal Consigliere di Parità e non sia possibile individuare con esattezza le vittime, costui può predisporre un piano di rimozione delle discriminazioni accertate da completarsi nel termine di 120 giorni.
La fase istruttoria del procedimento presenta due fondamentali particolarità, applicabili sia alle azioni individuali che a quelle collettive. Infatti, trattandosi di procedimenti da svolgersi di fronte al giudice del lavoro, si adottano accorgimenti ulteriori a far emergere il favor laboratoris tipico dello stesso. In primo luogo, si realizza la cosiddetta inversione dell’onere della prova. Ciò significa che l’istruzione dovrà essere finalizzata a dimostrare che la condotta discriminatoria non è imputabile al convenuto, e non invece a provare il danno lamentato dalla vittima. Inoltre, il lavoratore non deve dimostrare il dolo o la colpa del datore, bensì solamente la “portata oggettivamente svantaggiosa” dell’illecito. Parte della dottrina, a seguito di queste osservazioni ha iniziato a considerare la responsabilità del datore come oggettiva . La ratio dell’inversione dell’onere della prova è quella di ridistribuzione dei carichi probatori, così da esonerare la vittima dal dover fornire in giudizio la prova precisa di fatti che per lei possono rappresentare fonte di imbarazzo .
In secondo luogo, le allegazioni del ricorrente possono essere costituite anche solamente da elementi di tipo presuntivo. Non è quindi necessario che il lavoratore dia piena prova dell’illecito lamentato, ma è sufficiente che egli fornisca gli elementi che possono farne presumere il compimento . Il ricorrente, quindi, può strutturare la sua azione sulla base di sole presunzioni semplici. In realtà, il regime probatorio è ulteriormente agevolato rispetto a quello disciplinato dall’articolo 2729 c.c., per due ragioni. Innanzitutto, le presunzioni semplici, per poter costituire il fondamento della decisione giudiziale devono essere gravi, precise e concordanti. Invece, l’articolo 28 del d. lgs. 150/2011 richiede che le presunzioni allegate dalla vittima siano solamente precise e concordanti, eliminando ogni riferimento alla gravità . In altre parole, il grado di certezza dei fatti allegati non deve essere necessariamente elevato, perché, come accennato, l’istruzione vera e propria è focalizzata proprio sulla confutazione delle presunzioni di cui si avvale il ricorrente. Inoltre, le presunzioni allegate dal lavoratore possono anche essere di carattere meramente statistico, concetto che darà meglio analizzato infra.
Una volta conclusa la trattazione della causa, il giudice può ordinare la cessazione del comportamento discriminatorio e la rimozione dei suoi effetti . Se il datore non osserva quanto prescritto, gli potrà essere comminata la sanzione prevista dall’art. 650 c.p. e i relativi astreintes.

2.1 L’azione civile contro la discriminazione

Come già accennato, anche i casi di discriminazione non originati da ragioni di genere necessitano di tutela giudiziale. In particolare, il d. lgs. 216/2003, attuativo della Direttiva 2000/78/CE per la parità di trattamento in materia di occupazione e di condizioni di lavoro, ha previsto una serie di disposizioni volte a eliminare qualsiasi tipo di discriminazione in ambito lavorativo. Questo decreto viene spesso menzionato contestualmente al d. lgs. 215/2003, il quale, occupandosi di politiche antidiscriminatorie anche al di fuori dell’ambito occupazionale, assume rilievo marginale nella presente analisi. È interessante notare come i suddetti decreti siano nati per contrastare unicamente la discriminazione per motivi razziali. Tuttavia, effettuando un raccordo con quanto espresso dall’art. 21 della Carta di Nizza, la tutela è stata presto estesa a tutti i casi di diversità di trattamento e opportunità riconducibili a ragioni politiche e di razza, etnia, lingua, cittadinanza, nazionalità, religione, condizioni personali, handicap, orientamento sessuale, età . Infatti, ad oggi, si è provveduto a compiere le dovute integrazioni normative, così da garantire un’adeguata protezione giuridica a qualsiasi comportamento generato da motivi discriminatori.
In realtà, la tutela antidiscriminatoria non è innovativa rispetto a quanto già presente nel panorama sovranazionale. Infatti, tutte le relative disposizioni di diritto interno sono state emesse in attuazione di Direttive comunitarie . Nell’azione civile contro la discriminazione, oltre ai casi già analizzati di discriminazione diretta, indiretta e molestia, si ammette alla tutela giudiziale anche chiunque abbia subito pregiudizi in conseguenza di un “ordine di discriminare”. Questo si ha ogni volta che il datore di lavoro ordini ai suoi collaboratori di compiere atti di discriminazione .
Il procedimento inizia con la denuncia dell’interessato, ossia generalmente la vittima. Tuttavia, l’art. 5 del d. lgs. 216/2003 prevede che siano legittimate all’azione anche le rappresentanze locali delle organizzazioni sindacali nazionali maggiormente rappresentative. Queste possono intentare sia, in via autonoma, un’azione di tipo collettivo, sia, previa delega della vittima, se individuabile, una di tipo individuale.
In un primo momento la trattazione delle relative controversie era disciplinata dall’art. 4 del d. lgs. 216/2003 o da altre norme ad hoc . Oggi, in seguito alla riforma del 2011, si prevede che la disciplina dell’azione civile in materia di discriminazione sul lavoro sia governata dal procedimento sommario, esattamente come avviene in relazione alle discriminazioni sulla base del genere . La ragione di questa scelta non risiede solo nell’obiettivo di omologazione delle tutele a cui le vittime di discriminazione devono poter accedere, bensì anche nel voler garantire una tutela giudiziale certa a coloro che, a fronte di una discriminazione multipla, avrebbero potuto azionare più di un procedimento, senza avere però certezza di quale fosse quello più adeguato alla loro situazione individuale .
Prima dell’inizio della trattazione della causa, è possibile, ma non obbligatorio, esperire il tentativo di conciliazione ai sensi dell’articolo 410 c.p.c.
La fase istruttoria, infine, è regolata secondo quanto previsto per i procedimenti in materia di discriminazione di genere.

3. Focus sulle presunzioni statistiche

Come si è detto, le presunzioni di cui si avvale il ricorrente possono anche essere di carattere statistico. Ciò significa che la condotta discriminatoria si considera dimostrata anche quando il lavoratore alleghi studi statistici che affermano che il genere a cui egli o ella appartiene è maggiormente discriminato nell’ambito lavorativo dov’è occupato.
Nel processo del lavoro, inoltre, il giudice possiede incisivi poteri istruttori. Secondo l’art. 421 c.p.c., infatti, il giudice “può altresì disporre d'ufficio in qualsiasi momento l’ammissione di ogni mezzo di prova, anche fuori dei limiti stabiliti dal codice civile”. Non vi è nessuna norma che precluda il ricorso a suddetti poteri al fine di dimostrare la fondatezza o l’insussistenza di quanto affermato dal lavoratore. Anzi, è auspicabile che tutto ciò che le deduzioni istruttorie delle parti non riescono a provare sia dimostrato con il ricorso ai poteri di cui all’art. 421 c.p.c., secondo un’ottica processuale incentrata sulla ricerca della verità materiale. Ciò significa che lo stesso giudice può partecipare attivamente all’istruttoria e dedurre gli studi di carattere statistico che sostengono o smentiscono la pretesa del ricorrente. Tuttavia, tale attività può risultare difficoltosa qualora la discriminazione lamentata sia di tipo indiretto, perché quest’ultima non discende direttamente dal comportamento del datore. In tali casi, l’attività del giudice consisterà nella verifica della legittimità della ratio, degli obiettivi e dell’opportunità dei mezzi forniti dalla legge per l’esecuzione delle disposizioni ritenute fonte di disparità di trattamento .
Si è visto, quindi, che il ricorrente deve in ogni caso dedurre elementi istruttori a sostegno della sua pretesa. Ciò ha portato la dottrina maggioritaria a ritenere che non si possa parlare di vera e propria inversione dell’onere della prova. Infatti, qualora il lavoratore non riesca a provare nemmeno il fumus di quanto denunciato, la sua domanda sarà rigettata e il datore non incontrerà alcun onere di discolparsi. Sarebbe perciò più opportuno parlare di “alleggerimento” dell’onere della prova. La ratio di tale agevolazione sarebbe da rinvenire in un criterio di “vicinanza”, il quale impone che l’onere probatorio incomba sulla parte che più agilmente può assolverlo, qualora la legge non preveda regole specifiche su come distribuirlo .

4. I Consiglieri di Parità

Infine, bisogna analizzare le figure dei Consiglieri di Parità. In alcuni testi normativi si trova la dizione unica di “Consigliera di Parità” . Va però escluso che la carica possa essere ricoperta esclusivamente da individui di genere femminile, altrimenti lo stesso ruolo sarebbe fonte della discriminazione che esso si prefigge di combattere. La loro introduzione è stata fortemente motivata dalle istanze popolari che hanno lamentato l’esistenza del “soffitto di vetro”, ossia la barriera sociale che le donne sono solite incontrare quando si prefiggono di raggiungere posizioni di prestigio nel mondo del lavoro .
I Consiglieri hanno l’incarico di rimuovere gli ostacoli alla realizzazione delle pari opportunità in via preventiva tramite il ricorso alle azioni positive. Queste ultime sono definite come interventi finalizzati a favorire l’occupazione femminile e la parità sostanziale tra uomini e donne nel mercato del lavoro, ma attualmente non è presente nell’ordinamento una definizione più precisa. Anche il loro utilizzo è ridotto: l’art. 48 del d. lgs. 198/2006 impone la loro adozione alle Pubbliche Amministrazioni, ma senza prevedere un obbligo analogo per i datori di lavoro privati.
Ciascun Consigliere è territorialmente competente per la città metropolitana o ente di vasta area di appartenenza.
Inizialmente erano adibiti al solo controllo sull’esecuzione delle azioni positive, ma oggi vantano anche ampi poteri in materia di indagine e accertamento in relazione ai casi di discriminazioni denunciate sui luoghi di lavoro . Il Consigliere può anche cooperare con il Comitato Unico di Garanzia, istituito dall’art. 57 del d. lgs. n. 165/2001 e disciplinato oggi dal Collegato Lavoro. Anch’esso ha l’obiettivo di elaborare politiche volte all’eliminazione delle situazioni di discriminazione e violenze fisiche e morali, ma solo se perpetrate nei confronti dei dipendenti delle Pubbliche Amministrazioni.

5. Conclusioni

Si è dimostrato che, sia nella disciplina giuslavoristica sostanziale tanto quanto in quella processuale le discriminazioni sono riconosciute e adeguatamente tutelate dal legislatore e della giurisprudenza. Il focus è stato inizialmente posto sulle discriminazioni a sfondo sessuale, per poi estendersi anche a quelle originate da altri fattori. Ciò significa che la parità di trattamento tra i lavoratori non deve essere perseguita solamente sulla scorta dell’elenco di cui al d. lgs. 216/2003. Esso non costituisce infatti un numerus clausus, ma si apre a qualsiasi altra condizione non ivi menzionata che possa comportare una discriminazione tra persone.
Tuttavia, l’analisi si conclude con più dubbi che incertezze. In primo luogo, è incerta la natura della distribuzione dell’onere probatorio nei processi in materia di discriminazione. Non vi è ancora un’interpretazione condivisa che affermi la sussistenza di un mero alleggerimento ovvero di una vera e propria inversione dell’onere della prova. Anzi, mai come oggi la dottrina è divisa e gli interpreti non hanno ancora chiarificato le modalità di ridistribuzione degli oneri probatori.
In secondo luogo, è ragionevole domandarsi come mai nel settore pubblico gli accorgimenti per garantire la parità di trattamento tra i dipendenti siano tanti e ulteriori rispetto a quelli predisposti nel settore privato. Si può provare a sostenere che sulle Pubbliche Amministrazioni incomba una responsabilità etica in merito alla loro adozione perché le stesse si devono imporre come modello di realtà aziendale nella quale il principio del buon andamento si realizza in maniera completa. Tuttavia, ciò implicherebbe che suddetto principio non sia adeguatamente perseguito nel settore privato, mostrando le debolezze di quest’ultimo. Si potrebbe anche sostenere che invece non vi siano nel settore privato le basi per poter applicare una disciplina articolata come quella che si rinviene nel settore pubblico. Tuttavia, ciò implicherebbe che tra settore privato e pubblico vi siano differenze inconciliabili, che però non sono state adeguatamente evidenziate dagli interpreti.
L’unica certezza che resta è che la necessità di una tutela contro gli atti di discriminazione evidenzia un profondo vulnus della realtà sociale odierna, ossia la persistente intolleranza verso chi è “diverso”, la quale andrebbe estirpata alla radice, rendendo superflua la presenza di meccanismi processuali e stragiudiziali atti a rimediare alle sofferenze, patrimoniali e non, che essa causa.

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