testo integrale con note e bibliografia

Primo quesito
Il primo quesito, con il quale si chiede l’abrogazione totale del d.lgs. n. 23 del 2015, chiama in causa problemi e orientamenti di politica del diritto che in questa sede non è ovviamente il caso di affrontare. Si può solo rilevare come si tratti, per le visioni e le politiche pro labor che caratterizzano i promotori, di un obiettivo intermedio, posto che non si è proposto il ritorno al testo originario dell’art. 18 St. lav. (come pure era stato ventilato), ma solo di eliminare l’ulteriore restrizione della tutela reale reintegratoria e, corrispondentemente, l’ulteriore espansione di quella indennitaria, frutto entrambe del c.d. Jobs Act. Ciò significa che resta ferma la scelta, posta a base della riforma della l. n. 92 del 2012, di superare l’unicità della sanzione per l’illegittimità del licenziamento e di articolarla, su quattro livelli, a seconda della gravità di quest’ultima: dalla sanzione reintegratoria forte per il licenziamento nullo e discriminatorio fino a quella indennitaria debole per le irregolarità procedurali. Esito, questo, non di poco conto, ove si consideri il ruolo fortemente simbolico che la tutela reintegratoria (indifferenziata) ha da sempre ricoperto, sia come precondizione per l’effettività dei diritti dei lavoratori, sia in relazione ai possibili effetti collaterali, come quello sul decorso della prescrizione.
Peraltro, non si può non rilevare come l’art. 18 St. lav. novellato – che il successo dell’iniziativa referendaria riporterebbe ad essere l’unica disciplina – abbia perduto non pochi dei suoi connotati originari innovativi per effetto della malcelata ostilità che gli hanno riservato, ciascuna nel proprio ambito, la giurisprudenza ordinaria e quella costituzionale, e su temi tutt’altro che secondari: in particolare, sulle tipizzazioni collettive degli illeciti disciplinari e sulla rilevanza del repechage per la giurisprudenza ordinaria; sulla gestione giudiziale del giustificato motivo oggettivo per quella costituzionale. Ne deriva che il quesito referendario ripropone il ritorno ad un art. 18 St. lav. in qualche modo depotenziato da quella giurisprudenza e più simile a quello delle origini. A dirla tutta, poi, non si può trascurare che lo stesso oggetto dell’auspicata abrogazione referendaria – cioè l’intero d.lgs. n. 23/2015 – è anch’esso ben diverso da quello originario, essendo stato mutilato di una delle sue caratteristiche di fondo, quella cioè della forfetizzazione vincolata, in base all’anzianità di servizio, dell’indennità risarcitoria (sentenze n. 194/2018 e n. 150/2020 della Corte costituzionale), ed avendo subìto significative correzioni anche quanto all’altra caratteristica – cioè alla ulteriore restrizione della tutela reintegratoria – dopo le sentenze della Corte costituzionale del 2024: n. 7, n. 22 (sia pure per contrasto con la legge delega), n. 128 e n. 129.
Sembra allora che, da un punto di vista concreto, l’impatto di un eventuale successo del referendum non si preannunci come particolarmente sconvolgente. Quanto, poi, alla domanda se un tale successo sia da considerare un fatto positivo o no, si tratta, ripeto, di questione di politica del diritto, le cui coordinate sono ben note, con la contrapposizione spesso ideologica (e comunque “valoriale”) fra il “principio lavoristico” e la tendenziale monetizzazione (forse anche una sorta di laicizzazione) delle tutele. La mediazione dovrebbe trovare un equilibrio diverso (ciò che dal punto di vista dei princìpi avrebbe non poco significato), ma, in concreto, non credo cambierebbe di molto. Forse l’unica, vera differenza rimarrebbe quella del ritorno – per l’accesso alla tutela reintegratoria – dell’ingiustificatezza qualificata in caso di giustificato motivo oggettivo, che il d.lgs. n. 23/2015 aveva eliminato e che la recente sentenza costituzionale n. 128/2024 ha recuperato solo in parte (con riguardo all’ipotesi di fatto materiale insussistente, rispetto al quale però resta estranea la violazione dell’obbligo di repechage).
L’abrogazione referendaria del d.lgs. n. 23/2015 – suscettibile, come appena detto, di valutazioni opposte sul piano dei princìpi, tanto che non mi sembra avere molto senso il ragionare di effetti positivi o negativi – un vantaggio (in un certo senso neutro) mi pare che lo porterebbe comunque: l’eliminazione della disparità di trattamento fra lavoratori assoggettati all’art. 18 St. lav. e lavoratori assoggettati al d.lgs. n. 23/2015 in quanto assunti dopo la sua entrata in vigore. È vero che la Corte costituzionale ha escluso la contrarietà a Costituzione di tale disparità. Ma gli argomenti usati – specie quello sul cosiddetto fluire del tempo – non mi sono sembrati generalmente inconfutabili, visto che non si tratta solo di un fenomeno di successione di leggi nel tempo, ma di coesistenza, nei medesimi ambiti, di diverse discipline a seconda della data di assunzione dei lavoratori. Di talché il ritorno ad un regime unico, seppure non sufficiente in sé a giustificare l’intervento referendario, ne costituirebbe tuttavia, in caso di successo, un effetto collaterale positivo. E al contempo, forse, una spinta per la ricomposizione di quella ulteriore, annosa disparità – ad eccezione che per la disciplina della nullità di cui al comma 1 dell’art. 18 St. lav. – in base alle dimensioni delle organizzazioni di lavoro: disparità che il severo monito della sentenza n. 183 del 2023 della Corte costituzionale imporrebbe al legislatore di eliminare (o quanto meno ridurre).
Qualche ulteriore effetto – non tanto di sistema, quanto di regolazione circoscritta – deriverebbe, in caso di successo dell’iniziativa referendaria, con riguardo ad alcuni specifici profili.
Il primo sta nel fatto che il licenziamento per disabilità fisica o psichica, al quale l’art. 2, comma 4 del d.lgs. n. 23, pur qualificandolo come privo di giustificazione, garantisce la tutela reintegratoria piena come fosse una nullità, tornerebbe alla disciplina dell’art. 18 St. Lav., comma 7, cioè alla tutela reintegratoria debole, subendo così un arretramento per il lavoratore. Finirebbero invece le discussioni relative al licenziamento per mancato superamento del periodo di comporto per malattia, che il d.lgs. n. 23/2015 aveva inopinatamente omesso di considerare e al quale la giurisprudenza della Cassazione ha comunque applicato la sanzione della nullità, sia pure di diritto comune. Per tutti i lavoratori, dunque, tornerebbe la disciplina dell’art. 18 St. lav. e la tutela reale debole propria del difetto di giustificazione. A meno che – ma soprattutto nel secondo caso la strada è in salita – non si riconducano entrambi questi vizi alla discriminazione, nonostante l’art. 18 St. lav. tenga distinte le fattispecie. D’altra parte, non mi sembra scontato, sempre per il caso del mancato superamento del comporto, che una interpretazione formatasi sul d.lgs. n. 23/2015 (nel senso della nullità) debba per forza rimanere ferma nel momento in cui, per i rapporti prima regolati da tale fonte, riviva l’art. 18 St. lav.
Il secondo profilo riguarda le organizzazioni di tendenza, per le quali l’art. 9, comma 2 del d.lgs. n. 23/2015 stabilisce, senza distinzioni, l’applicazione dell’intero decreto (e dunque anche di una possibile tutela reintegratoria per i loro dipendenti illegittimamente licenziati). L’abrogazione del Jobs Act comporterebbe, in caso di organizzazioni di tendenza eccedenti i noti limiti occupazionali, la chiusura di quello spazio e dunque, per i dipendenti, un arretramento di tutela.
Altre questioni riguardano gli effetti dell’abrogazione di norme per le quali non opera il meccanismo sostitutivo con l’art. 18 St. lav.: alludo all’art. 7 del d.lgs. n. 23/2015 sul computo dell’anzianità negli appalti e all’art. 8 sul computo e la misura delle indennità per frazioni di anno. A ben guardare, si tratta di norme introdotte a supporto di interpretazioni già accreditate, per le quali era sembrato opportuno il suggello normativo. Si può pertanto immaginare che l’ipotetica abrogazione (anche) dell’art. 7 non toglierebbe l’effetto, sia pure del tutto indiretto, di confermare, almeno come indirizzo generale, le precedenti interpretazioni sugli argomenti sopra richiamati. Cosa che non è invece ammissibile là dove la norma in ipotesi abrogata sia espressione di una chiara volontà di modificare precedenti disposizioni, com’è per l’art. 10 del d,lgs. n. 23/2015 sul licenziamento collettivo.
Quanto al profilo, suggerito dalla Direzione, della rivista, dell’eventuale influsso del quesito referendario (inteso, mi par di capire, in sé e dunque a prescindere dall’esito del referendum) sulla giurisprudenza della Cassazione e della Corte costituzionale, credo che la risposta non possa che essere negativa. Se non altro perché le due Corti hanno a più riprese manifestato, come visto, orientamenti chiaramente in sintonia con l’ispirazione di fondo della richiesta referendaria. Se poi si volesse riferire la domanda all’esito della consultazione, non credo che cambierebbero le cose, neppure in caso di bocciatura, sempre per la medesima ragione.

Secondo quesito
Il secondo quesito ha ad oggetto la parte dell’art. 8 della l. n. 604 del 1966 che stabilisce un limite massimo all’indennità risarcitoria, quantificato in sei mensilità di retribuzione, elevabile fino a 10 e 14 mensilità in relazione ad anzianità superiori, rispettivamente, a dieci e venti anni. Obiettivo del referendum è, dunque, quello di abolire del tutto i limiti massimi, lasciando peraltro intatti i criteri di concreta quantificazione, che ora vanno utilizzati dal giudice nell’arco compreso fra il limite minimo di 2,5 mensilità e i limiti massimi sopra richiamati, e che, in caso di successo del referendum, servirebbero in qualche modo a calmierare una quantificazione altrimenti rimessa alla piena discrezionalità del giudice.
Francamente mi pare che il quesito manchi di ragionevolezza e di sistematicità.
Sembra innegabile, infatti, che l’eliminazione dei limiti massimi, con la conseguente “liberalizzazione” dell’indennità, da un lato ponga problemi di gestione giudiziale, dall’altro lato sia tale da provocare un cortocircuito rispetto alla determinazione del regime indennitario dell’art. 18 St. lav.
Certo, è vero che il referendum può essere solo abrogativo, e che pertanto con lo stesso non si sarebbe potuto perseguire quello che sembra esserne stato l’obiettivo, e cioè quello di elevare quei limiti, sul presupposto che essi (soprattutto quello, più ricorrente, delle sei mensilità) siano troppo bassi. D’altra parte, lo stesso ostacolo di tipo ordinamentale riguarda anche il limite minimo: limite che i promotori del referendum certamente non condividono per la sua esiguità, ma che ovviamente non potrebbe essere corretto al rialzo per via referendaria. La verità è, a mio parere, che proprio questi vincoli ordinamentali sconsigliavano la proposizione del quesito, che, anche ove ammesso, altro non farebbe, ove poi avesse successo, che creare pasticci.
L’accoglimento del quesito, infatti, introdurrebbe, almeno teoricamente, una discrezionalità giudiziaria particolarmente estesa, magari sulla scia dei pronunciamenti del Comitato Europeo per i diritti sociali che ha ritenuto non adeguata un’indennità di 24 mensilità, e incline a mescolare i profili strettamente indennitari e quelli risarcitori. Dunque, la breccia aperta dalla eventuale abrogazione non sembra, in sé, e nel consueto bilanciamento di interessi, una ragionevole soluzione per i dipendenti delle organizzazioni datoriali medio-piccole. Anche se in concreto si può prevedere che alla prova dei fatti la giurisprudenza saprebbe comunque adottare soluzioni eque e soprattutto congrue rispetto allo specifico contesto organizzativo. E siccome l’abrogazione richiesta non tocca i criteri di determinazione dell’indennità (ad oggi sproporzionati rispetto allo scarso margine di oscillazione dell’indennità, fra 2.5. e 6 mensilità), questi verrebbero sicuramente rivalutati come parametri di contenimento di ipotesi in teoria fuori controllo: fra essi, soprattutto, il criterio del numero dei dipendenti occupati e delle dimensioni dell’impresa (ammesso che siano davvero due criteri distinti).
Ma la più problematica conseguenza dell’eventuale successo del referendum sta nel confronto fra la nuova indennità senza limiti massimi e le indennità previste nell’area di applicazione dell’art. 18 St. lav. per le ipotesi in cui non sia applicabile la tutela reintegratoria (quelle, per intendersi, della ingiustificatezza “semplice” e dei vizi procedurali: commi 5 e 6 dell’art. 18 St. lav.): ipotesi per le quali restano i limiti massimi, rispettivamente, di 24 e 12 mensilità. Come appena sopra rilevato, una ragionevole applicazione dei criteri dell’art. 8, l. n. 604/1966 può introdurre qualche rimedio. Ma non mi paiono dubbie le aporie che ne deriverebbero sul piano sistematico, con una indennità a carico delle organizzazioni minori che potrebbe superare quella dovuta da quelle maggiori, in evidente contraddizione con la scelta, pluridecennale, di non gravare eccessivamente le prime. Aporie che non vengono alimentate dalla validazione, a livello costituzionale, dei limiti massimi previsti dall’art. 18 St. lav. (sentenza n. 7 del 2024), posto che la regolarità costituzionale del livello massimo (purché adeguato) di per sé non significa che non lo si possa rimuovere (per via referendaria); e tuttavia la sensazione è che il sistema perderebbe di coerenza, nelle sue scelte (per quanto discutibili) ispirate a criteri di gradualità. A meno che non si voglia pensare che il quesito referendario sia stato progettato come un grimaldello, o una scorciatoia, per superare la tradizionale divisione fra le due classiche forme di tutela (reale e obbligatoria), qui sì in ossequio alla Corte costituzionale e al suo severo monito (sentenza n. 183/2022).

Terzo quesito
Il terzo quesito – estraneo alla materia dei licenziamenti – riprende un classico tema di interesse delle organizzazioni sindacali: quello del lavoro precario, qui fatto sostanzialmente coincidere con il contratto a tempo determinato. Non è questa la sede per discutere se una tale equiparazione sia interamente condivisibile, e se il ripristino della rigidità quanto all’apposizione del termine sia la soluzione di tutti i problemi, sia occupazionali, sia di gestione dei rapporti. Ma, per quanto ciò sia discutibile sotto taluni aspetti, certo è che va in tutt’altra direzione la più recente liberalizzazione – a tutt’oggi vigente – dei contratti a termine fino ai dodici mesi e la reintroduzione, per contratti da dodici a ventiquattro mesi (limite invalicabile), della (risalente e) generica causale delle esigenze tecniche, organizzative e produttive.
Il quesito referendario, attraverso un sapiente incastro, trasforma l’obiettivo abrogativo in un risultato sostanzialmente modificativo dell’assetto della materia. In caso di accoglimento, infatti, verrebbe eliminata del tutto la “zona franca” dei primi dodici mesi; verrebbe confermato il limite massimo di ventiquattro mesi, ma fin dall’inizio l’apposizione del termine sarebbe limitata alle previsioni collettive, oltre che alle ipotesi di sostituzione dei lavoratori.
Ora, quanto al primo effetto, esso avrebbe un peso particolarmente significativo, posto che la gran parte dei contratti a termine (tanto più dopo l’introduzione della “zona franca”) ha una durata inferiore. Ma anche per i contratti di durata superiore (e fino al limite massimo) l’eventuale accoglimento del quesito avrebbe la conseguenza di “sindacalizzare” la possibilità di apposizione del termine (fin dall’inizio e non solo a partire dal tredicesimo mese) in modo ancora più esteso di quanto non sia oggi con la “concorrenza” delle ragioni tecniche, organizzative e produttive: cioè di quello che tempo addietro era indicato – con connotazione decisamente critica – come il “causalone”, cioè come un’ipotesi dai confini assai estesi ed elastici. La gestione sindacale, nella prospettiva del quesito, si imporrebbe fin dall’inizio e avrebbe la concorrenza delle sole ipotesi sostitutive (da sempre, peraltro, previste anche dai contratti collettivi); e sparirebbe del tutto la limitazione temporale (peraltro già scaduta a settembre 2022) per la possibilità da parte dei contratti collettivi di prevedere “specifiche ipotesi” di contratto a termine. Insomma, una gestione sindacale a tutto campo (certo non sorprendente, visto che soggetto promotore è la maggiore associazione sindacale dei lavoratori), alla quale verrebbe demandato il compito di selezionare fra obiettivi di contrasto all’uso del contratto a termine come strumento occupazionale ad alto coefficiente di flessibilità, e obiettivi di differenziazione e di opportunità effettivamente temporanee.
Il quesito interviene (necessariamente) anche sul meccanismo sanzionatorio. Siccome fin dall’inizio (e non solo dopo dodici mesi, com’è ora) l’apposizione del termine sarebbe condizionata ai presupposti appena visti, è chiaro che, in caso di insussistenza di quei presupposti, la conversione in contratto a tempo indeterminato opererebbe fin dall’inizio.
Il quesito non interviene, invece, sull’ammissibilità di proroghe e rinnovi, lasciando aperte le questioni concernenti la distinzione fra le due fattispecie. Si limita ad adeguarne la disciplina all’eliminazione della zona franca dei primi dodici mesi, nel senso che proroga e rinnovi sono ammessi, alle stesse condizioni della prima stipulazione, anche nell’ambito dei primi dodici mesi e non solo a partire dal tredicesimo.
Ad uno sguardo generale, con l’eventuale successo del quesito ci troveremmo di fronte all’ennesimo movimento pendolare fra flessibilità e rigidità nell’accesso all’occupazione; con l’aggiunta però di un ruolo particolarmente significativo – nella gestione di questa alternanza – del controllo sindacale, e ovviamente di un controllo sindacale bilaterale.

Quarto quesito
L’ultimo quesito referendario – anch’esso estraneo alla materia dei licenziamenti – ha ad oggetto l’abrogazione di un frammento della disciplina della sicurezza sul lavoro negli appalti: quello che, dopo aver previsto obblighi e responsabilità dell’appaltante, in solido con l’appaltatore, per i danni non indennizzati dall’Inail, esclude tale responsabilità per i «danni conseguenza dei rischi specifici propri dell’attività delle imprese appaltatrici o subappaltatrici» (art. 26, comma 4, ultimo periodo del d.lgs. n. 81/2008, del quale appunto si chiede l’abrogazione).
Ora, la norma in oggetto ha una sua ragionevolezza: per quanto il settore degli appalti – la ben nota “filiera”, spesso difficilmente decifrabile – sia uno di quelli nei quali i rischi per la sicurezza dei lavoratori si moltiplicano e le responsabilità spesso sono difficilmente perseguibili, la responsabilità appare necessariamente connessa ad una qualche possibilità di conoscenza, di controllo e di intervento sulle lavorazioni date in appalto. Non trova più giustificazione allorché le lavorazioni appaltate rientrino in una area di conoscenze e professionalità autenticamente diverse, di cui solo l’appaltatore è a conoscenza e che egli solo possiede: cioè in ipotesi di rischi specifici, propri ed esclusivi dell’appaltatore e della sua attività. Con la conseguenza che il coinvolgimento nella responsabilità non dovrebbe operare per appalti aventi l’obiettivo di una mera esternalizzazione quantitativa (magari in funzione di un taglio di costi), ma solo in presenza di professionalità e competenze peculiari dell’appaltatore.
Ora, il quesito referendario – un po’ sull’onda di una giurisprudenza, specie penale, che ha interpretato in modo talora piuttosto ampio il concetto di rischio specifico, fino a farlo coincidere non di rado con il rischio legato all’appalto in sé – intende cancellare la differenza fra rischi comuni e rischi specifici, annullando questi ultimi e generalizzando la responsabilità a carico dell’appaltante. Non so se si possa parlare di responsabilità oggettiva, ma con l’approvazione del quesito non ci si andrebbe troppo lontano. E questo non mi sembrerebbe un risultato auspicabile. Ciò che andrebbe fatto è una intensificazione dei controlli sugli appalti, al fine di individuare quelli per i quali vi siano effettivamente violazioni delle normative sulla sicurezza, senza usare lo strumento normativo per fini impropri, quasi fosse una scorciatoia, oltre tutto di efficacia pratica tutt’altro che garantita.

Questo sito utilizza cookie necessari al funzionamento e per migliorarne la fruizione.
Proseguendo nella navigazione acconsenti all’uso dei cookie.