Testo integrale con note e bibliografia
Testo dell'ordinanza di rimessione alla corte costituzionale
Testo dell'ordinanza di rimessione alla corte di giustizia dell'UE
testo dell'ordinanza del tribunale di Milano
1. Premessa.
Il Tribunale di Milano e la Corte di appello di Napoli, nel corso del 2019, hanno sollevato, con tre distinte ordinanze, dei rinvii pregiudiziali (alla CGUE e alla Corte costituzionale) che attengono alla questione della portata dissuasiva delle sanzioni nell’ipotesi di violazione dei criteri di scelta nell’ambito di un licenziamento collettivo.
La controversia, sottoposta al giudice milanese, afferiva ad un licenziamento collettivo rispetto al quale trovava applicazione il combinato disposto degli artt. 1, comma 2, e 10 del D.lgs n. 23/2015. Alla ricorrente, originariamente assunta con un contratto di lavoro a termine in data antecedente al 7 marzo 2015, era stata disposta la trasformazione del contratto a termine in rapporto di lavoro a tempo indeterminato in data successiva (al 7 marzo 2015), con la conseguente applicazione della disciplina del c.d. contratto di lavoro a tutele crescenti.
In questo contesto, il giudice milanese, con una ordinanza del 5 agosto 2019, chiedeva alla Corte di giustizia:
1) “Se i principi di parità di trattamento e di non discriminazione contenuti nella clausola 4 della direttiva 99/70/CE sulle condizioni di impiego ostino alle previsioni normativa dell’art. 1, comma 2, e dell’art. 10 del D.lgs n. 23/15 che, con riferimento ai licenziamenti collettivi illegittimi per violazione dei criteri di scelta, contengono un duplice regime differenziato di tutela in forza del quale viene assicurata nella medesima procedura una tutela adeguata, effettiva e dissuasiva ai rapporti di lavoro a tempo indeterminato costituiti in data antecedente al 7 marzo 2015, per i quali sono previsti i rimedi della reintegrazione ed il pagamento dei contributi a carico del datore di lavoro e introduce, viceversa, una tutela meramente indennitaria nell’ambito di un limite minimo ed un limite massimo di minore effettività ed inferiore capacità dissuasiva per i rapporti di lavoro a tempo determinato aventi una pari anzianità lavorativa, in quanto costituiti precedentemente a tale data, ma convertiti a tempo indeterminato successivamente al 7 marzo 2015”.
2) “Se le previsioni contenute negli artt. 20 e 30 della Carta dei diritti e nella direttiva 98/59/CE ostino ad una disposizione normativa come quella di cui all’art. 10 del d.lgs 23/15 che introduce per i soli lavoratori assunti (ovvero con rapporto a termine trasformato) a tempo indeterminato a decorrere dal 7 marzo 2015, una disposizione secondo cui, in caso di licenziamenti collettivi illegittimi per violazione dei criteri di scelta, diversamente dagli altri analoghi rapporti di lavoro costituiti in precedenza e coinvolti nella medesima procedura, la reintegrazione nel posto di lavoro e che introduce, viceversa, un concorrente sistema di tutela meramente indennitario, inadeguato a ristorare le conseguenze economiche derivanti della perdita del posto di lavoro e deteriore rispetto all’altro modello coesistente, applicato ad altri lavoratori i cui rapporti hanno le medesime caratteristiche con la sola eccezione della data di conversione o costituzione”.
Nell’ampia motivazione dell’ordinanza (48 pagine) non viene espressamente esaminato il tema della doppia pregiudizialità .
La scelta di rinviare alla Corte di giustizia, supportata dal richiamo alla sentenza Global Starned LDT , sembra, però, mossa “da un evidente spirito critico nei confronti della pronuncia della Consulta n. 194/2018 “ più che da una scelta di campo rispetto al problema della doppia pregiudizialità.
La Corte di appello di Napoli, sez. lavoro, in una fattispecie nella quale (anche in questo caso) si prospettava la violazione dei criteri di scelta, ha scelto, viceversa, la via del cumulo dei rimedi (“stante i duplici profili di contrarietà sia con il diritto dell’Unione che con la Carta costituzionale”) rimettendo, con separate ordinanze del 28 novembre 2019, la questione sia alla Corte di giustizia (per profili, in parte, simili a quelli prospettati dal giudice milanese) che alla Corte costituzionale (“considerata l’esigenza di assicurare una tutela sostanzialmente uniforme ed erga omnes in tema di diritti fondamentali”).
In assenza di una “corsia preferenziale presso la Consulta” la scelta pilatesca del Collegio napoletano potrebbe, però, portare ad un conflitto tra le Corti.
Si pensi al caso, ipotizzato da A. RUGGERI , “che la Corte costituzionale non convenga con la Corte dell’Unione circa la violazione patita dal diritto sovranazionale e, perciò, faccia luogo al rigetto della questione, malgrado la norma interna dalla stessa riguardata sia stata nel frattempo – correttamente – messa da canto dal giudice, a ciò sollecitato dal verdetto datogli dalla Corte di giustizia previamente adita”.
Sembra, quindi, ineludibile una scelta di campo nel dibattito in corso sul tema della doppia pregiudizialità per tentare di fornire qualche ulteriore supporto alla tesi che appare preferibile.
Tesi che, fin d’ora, è opportuno enunciare: nella maggior parte dei casi, ha più senso che si pronunci per prima la Corte di giustizia, salva l’ipotesi, “che gli standard nazionali di protezione dei diritti fondamentali risultino più alti di quelli offerti dalle norme dell’Unione” .
All’approfondimento di questo tema sono dedicate le pagine che seguono.
2.Il problema della doppia pregiudizialità. La scelta del rinvio pregiudiziale alla CGUE.
La Consulta in presenza di una “doppia pregiudizialità” riteneva inammissibile la questione considerato l’onere del giudice nazionale di rivolgersi alla Corte di giustizia e, solo dopo avere esperito tale rimedio, rivolgersi al giudice delle leggi .
Tale orientamento, a partire dalla sentenza n. 269/2017, è cambiato.
La Corte costituzionale, nella sentenza 269/17 ha affermato che nel caso in cui “la violazione di un diritto alla persona infranga, ad un tempo, sia le garanzie presidiate dalla Costituzione italiana, sia quelle codificate dalla Carta dei diritti dell’Unione” ritiene necessario “un intervento erga omnes di questa Corte, anche in virtù del principio che situa il sindacato accentrato di costituzionalità delle leggi a fondamento dell’architettura costituzionale”.
Si tratta di un’inversione dell’ordine logico e cronologico della “doppia pregiudizialità”.
La Consulta, pur non imponendo la necessità dell’inversione (la Corte giudicherà “alla luce dei parametri interni ed eventualmente di quelli europei secondo l’ordine di volta in volta appropriato”), lascia intendere che la questione di legittimità costituzionale sarà ordinariamente trattata per prima, lasciando la pregiudiziale comunitaria in posizione temporalmente successiva ed eventuale.
La Corte costituzionale ritiene opportuno il cambiamento di rotta “alla luce delle trasformazioni indotte sul sistema dei rapporti fra diritto nazionale ed europeo dall’entrata in vigore del Trattato di Lisbona e in particolare dall’attribuzione alla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea della medesima efficacia giuridica vincolante dei Trattati”, anche perché, prosegue la Corte, la Carta presenta “un contenuto tipicamente costituzionale ”.
Le affermazioni contenute nella sentenza non sembrano in contrasto con i precedenti della Corte di giustizia.
La Consulta, non a caso, precisa che il carattere prioritario del giudizio di costituzionalità è compatibile con il diritto dell’Unione “purché i giudici ordinari restino liberi di sottoporre alla Corte di giustizia in qualunque fase del procedimento ritengano appropriata e finanche al termine del procedimento incidentale di controllo generale delle leggi, qualsiasi questione pregiudiziale a loro giudizio necessaria; di “adottare qualsiasi misura necessaria per garantire la tutela giurisdizionale provvisoria dei diritti conferiti dall’ordinamento giuridico dell’Unione”; di disapplicare al termine del giudizio incidentale di legittimità costituzionale, la disposizione legislativa nazionale in questione che abbia superato il vaglio di costituzionalità, ove, per altri profili, la ritengano contraria al diritto dell’Unione” .
Resta, però, il fatto che si tratta di un’inversione di rotta.
E invero, prima di questa pronuncia, la stessa Corte costituzionale aveva costantemente affermato che l’accertamento della compatibilità della norma nazionale con la norma dell’Unione aveva carattere di priorità logica rispetto all’accertamento della incostituzionalità.
Con la sentenza n. 269/17, la Corte rovescia l’ordine fin qui seguito, rivendicando a sé il ruolo di attore principale .
La sentenza ha suscitato un acceso dibattito in dottrina , trovando un riscontro (diversificato) in sede di giudizi di legittimità.
Secondo un primo orientamento , la presa di posizione della Consulta non sarebbe vincolante per il giudice comune in quanto espressa in un “obiter” contenuto in una decisione di inammissibilità.
Un secondo orientamento si adegua, invece, alle indicazioni della Consulta.
Espressione di tale orientamento è la sentenza Bolognesi , nell’ambito della quale, però, si percepisce una notevole preoccupazione .
Un rinvio alla Consulta potrebbe innescare, infatti, un potenziale conflitto con la Corte di giustizia, non a caso, da subito, evidenziato da attenta dottrina .
Non occorre dimenticare, infatti, che una decisione della Corte costituzionale non potrebbe impedire un successivo intervento della Corte di giustizia.
Negare tale possibilità sarebbe sicuramente in contrasto con la giurisprudenza della CGUE laddove afferma che “il giudice nazionale le cui decisioni non sono impugnabili con un ricorso giurisdizionale è tenuto, in linea di principio, a procedere al rinvio pregiudiziale di una questione di interpretazione del diritto dell’Unione anche nel caso in cui, nell’ambito del medesimo procedimento nazionale, la Corte costituzionale dello Stato membro di cui trattasi abbia valutato la costituzionalità delle norme costituzionali alla luce delle norme di riferimento aventi un contenuto analogo a quelle delle norme del diritto dell’Unione”.
E non è certo un caso che la Cassazione abbia già evocato tale potenziale “conflitto” con la sentenza Global Starnet, auspicando un “chiarimento” da parte della Consulta e rilevando che se il “conflitto” fosse confermato “la Corte di Cassazione dovrebbe misurarsi con il dovere sulla stessa gravante ai sensi del terzo comma dell’art. 267 TFUE, di attivare il rinvio pregiudiziale ex art. 267 TFUE (ove già non attivato dalla stessa Corte costituzionale nel giudizio incidentale) e di dare al diritto dell’Unione un’applicazione conforme alla decisione conseguentemente adottata dalla Corte di giustizia” .
Ma lo scenario è in movimento.
Sulla questione sono intervenute due sentenze della Corte costituzionale (le sentenze nn. 20 e 63/2019) e l’ordinanza n. 117 del 10 maggio 2019 dove la Corte “riassume” il suo pensiero.
Nell’ordinanza si legge che resta fermo “che i giudici comuni possono sottoporre alla Corte di giustizia europea, sulla medesima disciplina, qualsiasi questione pregiudiziale a loro avviso necessaria anche al termine del procedimento incidentale di legittimità costituzionale; e fermo restando, altresì, il loro dovere – ricorrendone i presupposti – di non applicare, nella fattispecie concreta sottoposta al loro esame, la disposizione nazionale in contrasto con i diritti sanciti dalla Carta ”.
Il tutto, come già evidenziato dalla sentenza n. 269 del 2017, “in un quadro di costruttiva e leale cooperazione fra i diversi sistemi di garanzia, nel quale le Corti costituzionali sono chiamate a valorizzare il dialogo con la Corte di giustizia (da ultimo ordinanza n. 24 del 2017), affinchè sia assicurata la massima salvaguardia dei diritti a livello sistemico” .
Nell’evoluzione degli orientamenti della Consulta si avverte il tentativo di “smussare” alcune “tensioni” generate dalla sentenza n. 269/17.
Basti pensare all’ordine con cui il giudice comune deve affrontare i casi di doppia pregiudizialità.
Questo ordine, nella sentenza n. 269 era delineato nel senso che fosse necessario rinviare la questione alla Consulta (e solo in un secondo momento alla Corte di giustizia), mentre nella sentenza n. 20/2019 si sostituisce il termine “necessità” con quello di “opportunità”.
Lo stesso riferimento agli “altri profili” per disapplicare la normativa in contrasto con il diritto dell’Unione (nell’ipotesi di decisione di rigetto della Consulta) contenuto nella sentenza n. 269, risulta superato nelle sentenze nn. 20, 63 e 117 che affermano esplicitamente la totale libertà del giudice di disapplicare, per qualsiasi motivo, anche dopo la sentenza di rigetto della Consulta.
Naturalmente, restano delle zone d’ombra.
Basti pensare al problema dell’allargamento dell’ambito di applicazione della priorità costituzionale ad ipotesi, come quella esaminata nella sentenza n. 20/2019, di disposizioni attuative della Carta dei diritti fondamentali .
Nell’insieme, però, resta il fatto che l’orientamento inaugurato dalla sentenza n. 269/17 può dirsi consolidato.
Ma nel caso in esame, al di là delle scelte operate dai giudici di merito, a quale Corte andava effettuato il rinvio pregiudiziale?
Il rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia, anche in questo caso , appare la via preferibile.
Militano a favore di questa scelta, perlomeno, due argomenti.
Il primo attiene al mutamento dell’oggetto del rinvio pregiudiziale.
Il secondo riguarda l’evoluzione degli orientamenti della Corte di giustizia.
3.Il mutamento dell’oggetto del rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia.
Il primo argomento trova sostegno nell’evoluzione dell’oggetto del rinvio pregiudiziale.
Non si tratta più (o, almeno, soltanto) di chiedere alla Corte di giustizia di interpretare il diritto dell’Unione europea.
Il quesito (formulato nei termini di: se tali norme del diritto dell’Unione ostino a che sia applicata la tale norma del diritto nazionale) comporta che la CGUE deve effettuare una diretta valutazione della compatibilità della norma interna rispetto a quella dell’ordinamento europeo secondo uno schema simile a quello utilizzato dal giudice nazionale quando solleva una questione di legittimità costituzionale.
In tal modo, come è stato sottolineato “la funzione della Corte di giustizia, che pure formalmente non si pronuncia sulla legge interna (né sulla sua interpretazione, rimessa ai giudici interni, né sulla sua validità) diviene in sostanza del tutto assimilabile ad un sindacato accentrato di conformità delle leggi interne a vincoli che esse incontrano (nella specie il vincolo del rispetto degli obblighi derivanti dall’ordinamento comunitario, che sul piano interno si fonda sull’art. 11 e sull’art. 117, comma 1, della Cost.), strutturalmente non dissimile da quello della Corte costituzionale: con l’unica differenza che la pronuncia di quest’ultima, se riconosce l’illegittimità della legge, la dichiara con effetto erga omnes, di cessazione di efficacia della stessa, mentre la pronuncia della Corte di giustizia si limita a imporre al giudice interno di non applicare la legge riconosciuta incompatibile con il diritto comunitario nel caso sottoposto al suo esame, anche se di fatto non potrà non essere seguita, con effetto di disapplicazione della stessa norma interna anche negli altri casi simili”.
Se combiniamo tale mutamento (relativo all’oggetto del rinvio pregiudiziale) con l’efficacia delle sentenze della Corte di giustizia nell’ordinamento nazionale il risultato è straordinario.
L’efficacia della sentenza della Corte di giustizia non è limitata al giudice remittente ma si estende anche al di fuori del giudizio principale (efficacia extraprocessuale ) con effetto anche per gli altri giudici e le amministrazioni nazionali che devono fare applicazione delle norme dell’UE nell’interpretazione datane dalla Corte di giustizia .
L’efficacia delle sentenze della Corte di giustizia, peraltro, non è limitata all’ordinamento dello Stato in cui deve trovare applicazione ma estende la sua portata vincolante a tutti gli Stati membri dell’ordinamento dell’Unione .
Ma non basta.
Di fronte al dubbio di non conformità sarà sufficiente che il giudice di merito si rivolga alla Corte di giustizia con un rinvio pregiudiziale per “trasformare”, con la mediazione della sentenza della CGUE, l’atto comunitario (ad esempio una direttiva self executing che, però, è priva di effetti orizzontali) in un atto (la sentenza) che vale come diritto comunitario immediatamente applicabile .
Con la conseguenza (per il giudice nazionale) di potere decidere la controversia in base all’applicazione del diritto comunitario discendente dall’interpretazione della Corte di giustizia.
Una sentenza-norma che crea una sorta di nomofilachia europea vincolante per tutti i giudici dell’Unione.
In questo contesto, il rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia continua ad essere (forse anche più di prima) la via privilegiata da seguire.
4. L’evoluzione della giurisprudenza della Corte di giustizia: il caso AGET Iraklis.
Il secondo argomento si desume dall’evoluzione degli orientamenti della Corte di giustizia.
La Corte di Lussemburgo dimostra una crescente sensibilità verso l’esigenza di tutela del lavoro (nelle sue diverse articolazioni) che, ovviamente, deve essere bilanciato con la libertà d’impresa che trova tutela, tra l’altro, nella stessa Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea .
Il caso AGET Iraklis, in questo contesto, è esemplare.
La Corte di giustizia, nella causa C-201/15, veniva chiamata a chiarire quali fossero i limiti dell’intervento degli Stati membri, in materia di licenziamenti collettivi, volti a garantire la sicurezza del lavoro per i lavoratori coinvolti nelle procedure di riduzione del personale.
La controversia, nel caso di specie, è insorta a seguito del rifiuto, da parte delle autorità greche, di autorizzare la società – una controllata della Lafarge-Holcim Ltd – a ricorrere al licenziamento collettivo.
In Grecia, i licenziamenti collettivi sono subordinati a una preventiva autorizzazione amministrativa.
Ciò ha indotto il Consiglio di Stato a sottoporre alla Corte due questioni vertenti sulla compatibilità della normativa greca con la direttiva 98/59 e con alcune disposizioni del Trattato in materia di libertà di stabilimento e di libera circolazione di capitali, in combinato disposto con l’art. 16 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea.
La Corte, in primo luogo, ritiene che l’esigenza di una autorizzazione preventiva costituisca, in linea di principio, una restrizione della libertà di stabilimento.
La libertà di stabilimento, in linea di principio, comporta, infatti, la libertà di determinare la natura e la portata dell’attività che sarà svolta nello Stato ospitante “e, in particolare, le dimensioni degli impianti stabili e il numero di lavoratori richiesti a tal fine” (punto 53) perché “la decisione di procedere a un licenziamento collettivo rappresenta una decisione fondamentale nella vita dell’impresa” (punto 54).
Fatta questa premessa, la Corte esamina la seguente questione: se si possa ritenere che i tre criteri utilizzati nell’art. 5, paragrafo 3, della legge n. 1387/1983 – vale a dire le condizioni del mercato del lavoro, la situazione dell’impresa e l’interesse dell’economia nazionale – siano diretti a incentivare la protezione dei lavoratori in modo proporzionato.
La Corte, sotto questo profilo, ha cura di fissare due punti fermi.
Con il primo, puntualizza che “motivi di natura puramente economica, quali, in particolare, la promozione dell’economia nazionale o il buon andamento di quest’ultima, non possono servire come giustificazione per ostacoli vietati dal Trattato ” (punto 72). Da ciò consegue l’inammissibilità del criterio “dell’interesse dell’economia nazionale” cui fà riferimento la normativa greca (punto 96).
Viceversa, secondo punto fermo, la tutela dei lavoratori rientra tra le ragioni imperative di interesse generale ; in particolare, la Corte ha già ammesso che le considerazioni attinenti al mantenimento dell’occupazione possono costituire, in determinate circostanze e a certe condizioni, giustificazioni per una normativa nazionale avente l’effetto di ostacolare la libertà di stabilimento .
Ma la sentenza và oltre.
L’Unione, come risulta dall’art. 3, paragrafo 3, TUE, non soltanto instaura un mercato interno, ma si adopera per lo sviluppo sostenibile dell’Europa (punto 76).
“Poiché dunque l’Unione non ha soltanto una finalità economica ma anche una finalità sociale, i diritti che derivano dalle disposizioni del Trattato relative alla libera circolazione delle merci, delle persone, dei servizi e dei capitali devono essere bilanciati con gli obiettivi perseguiti dalla politica sociale tra i quali figurano in particolare, come risulta dall’art. 151, primo comma, TFUE, la promozione dell’occupazione, il miglioramento delle condizioni di vita e di lavoro, che consenta la loro parificazione nel progresso, una protezione sociale adeguata, il dialogo sociale, lo sviluppo delle risorse umane atto a consentire un livello occupazionale elevato e duraturo e la lotta contro l’emarginazione” (punto 77).
L’importanza di questa affermazione è fondamentale nell’economia della motivazione.
Il bilanciamento tra le finalità economiche e quelle sociali viene operato nella sentenza in duplice modo.
La Corte, dopo aver ricordato l’ampio margine di discrezionalità di cui godono gli Stati membri nella scelta delle misure in grado di conseguire gli obiettivi di politica sociale (punto 81), afferma che, sul piano dei principi (punto 94) una normativa come quella greca “non può essere considerata contraria alla libertà di stabilimento garantita dall’art. 49 TFUE né alla libertà d’impresa sancita dall’art. 16 della Carta” (punto 83). Libertà, quest’ultima, che “non costituisce una prerogativa assoluta” (punto 85). Peraltro, l’art. 52, paragrafo 1, della Carta ammette la possibilità di apportare limitazioni all’esercizio dei diritti sanciti dalla stessa.
Le decisioni in tema di licenziamenti collettivi sono decisioni economiche e commerciali che, normalmente, hanno ripercussioni sull’occupazione di un numero rilevante di lavoratori all’interno dell’impresa.
Per tale ragione, in mancanza di una norma del diritto dell’Unione destinata a prevenire i licenziamenti (al di là del dovere dell’informazione e consultazione previsto dalla direttiva 98/59), una normativa come quella greca può “rilevarsi idoneo a contribuire al rafforzamento del livello di protezione effettiva dei lavoratori e della loro occupazione” (punto 92).
Ma se si passa dal piano astratto (dell’esame della normativa) alle “modalità concrete caratterizzanti la fattispecie”, il discorso cambia.
Per quanto riguarda i criteri della “situazione dell’impresa” e le “condizioni del mercato del lavoro”, “tali criteri appaiono, a priori, certamente collegabili a obiettivi di interesse generale, quali la protezione dei lavoratori e dell’occupazione (punto 98), ma gli stessi “sono formulati in maniera generica e imprecisa” (punto 99). “Criteri siffatti, che non sono precisi e non riposano dunque su condizioni oggettive e controllabili, vanno oltre quel che è necessario per conseguire gli obiettivi indicati e non possono pertanto soddisfare quanto esige il principio di proporzionalità” (punto 100), violando, peraltro, gli artt. 49 del TFUE e la libertà d’impresa sancita dall’art. 16 della Carta (punti 102-103) .
Basta confrontare gli enunciati della sentenza con le conclusioni dell’Avvocato generale per rendersi conto del passo avanti compiuto dalla Corte nel bilanciamento dei diritti in campo.
Per l’avvocato generale, che “segue una logica ruvidamente neoliberale ”, la normativa greca è in contrasto con l’art. 49 TFUE perché non è adeguata, in radice, a conseguire l’obiettivo della protezione dei lavoratori.
La Corte, viceversa, non nega che, in astratto, le forti restrizioni poste dalla normativa greca siano idonee a garantire il raggiungimento dell’obiettivo di interesse generale perseguito dal legislatore, ma esclude che, in concreto, quelle condizioni possano soddisfare le esigenze di giustificazione risultanti dal principio di proporzionalità.
Certo, la Corte continua a fare il suo mestiere difendendo l’ordine degli interessi e dei diritti che restano scolpiti nei Trattati.
Ma le finalità sociali si fanno strada nel ragionamento della Corte .
La tutela dei lavoratori rientra tra le ragioni imperative di interesse generale, afferma la Corte, richiamando i suoi precedenti .
Naturalmente, le finalità economiche e quelle sociali vanno bilanciate.
E non è certo affermazione di poco conto quella che ritiene che sul piano dei principi una normativa come quella greca “non può essere considerata contraria alla libertà di stabilimento garantita dall’art. 49 TFUE né alla libertà d’impresa sancita dall’art. 16 della Carta” (punto 83).
Naturalmente, bilanciare non significa trovare un punto di equilibrio o una “via mediana” ma, secondo l’opinione preferibile , applicare un principio anziché un altro.
Nella specie, la Corte valutando le “modalità concrete caratterizzanti la fattispecie” ritiene che i criteri della “situazione dell’impresa” e le “condizioni del mercato del lavoro”, siano “formulati in maniera generica e imprecisa” (punto 99) e, come tali, in violazione del principio di proporzionalità.
Ma è bene ricordare che la gerarchia assiologia non è assoluta, ma flessibile: dipende dal caso in discussione .
In un caso diverso da quello greco potrebbe prevalere, anche in concreto, la finalità sociale.
Il capitolo dei diritti sociali in Europa è ancora, in gran parte, da scrivere.
E la Corte di giustizia, pur nel rispetto della sua vocazione originaria, si candida a scrivere pagine importanti.
Basta volgere lo sguardo su alcune delle sentenze rese dalla Corte di giustizia a partire dal 2018 per rendersene conto.
In una serie di pronunce, inaugurate dalla sentenza Egenberg dell’aprile del 2018 , e seguita da quelle emesse nelle cause Ir , Hein e Cresco Investigation la Corte di giustizia ha ammesso la possibilità di invocare in controversie tra privati alcuni diritti contenuti nella Carta (e, segnatamente, il divieto di discriminazioni fondate sulla religione o sulle convinzioni personali).
Ma il passaggio più importante si ha con le sentenze Bauer e Max-Planck dove la Corte è giunta alle medesime conclusioni con riguardo alle ferie annuali che non è soltanto uno dei diritti sociali disciplinati nel titolo IV della Carta dedicata alla solidarietà ma è anche un “principio essenziale del diritto sociale dell’Unione”.
Un processo che sembra consolidarsi nella giurisprudenza del 2019 dove, ad esempio, la Corte di giustizia confermando una precedente pronuncia nella causa C-126/16, ribadisce che le eccezioni alle regole poste dalla direttiva 2001/23 (in tema di trasferimento di imprese) sono soggette ad una interpretazione particolarmente restrittiva. Viene considerata, infatti, in contrasto con la direttiva sui trasferimenti d’impresa una disposizione, come quella belga, che attribuisce, al cessionario, una grande discrezionalità nella scelta dei lavoratori da riassumere (legislazione che potrebbe “seriamente compromettere il rispetto dell’obiettivo principale della direttiva 2001/23 (…) ossia la protezione dei lavoratori contro i licenziamenti ingiustificati in caso di trasferimento d’impresa”).
In questo (nuovo) contesto, un rinvio alla Corte di giustizia (anche da parte della stessa Corte costituzionale), non è certo da escludere.