Testo integrale con note e bibliografia
1. Cronaca di una morte annunciata. Vizi sostanziali e vizi formali: simul stabunt, simul cadent.
A poco meno di due anni dalla sentenza n. 194 del 2018 , la Corte Costituzionale è tornata a pronunciarsi sulla quantificazione dell’indennità prevista in caso di licenziamento illegittimo dal d.lgs. n. 23 del 2015. Questa volta, il giudizio di legittimità ha investito l’art. 4 del d.lgs. 23 citato, il quale prevede che nell’ipotesi in cui il licenziamento sia intimato con violazione del requisito di motivazione di cui all'articolo 2, comma 2, della legge n. 604 del 1966 o della procedura di cui all'articolo 7 della legge n. 300 del 1970, il giudice dichiara estinto il rapporto di lavoro alla data del licenziamento e condanna il datore di lavoro al pagamento di un’indennità di importo pari a una mensilità dell'ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del trattamento di fine rapporto per ogni anno di servizio, in misura comunque non inferiore a due e non superiore a dodici mensilità.
Si tratta di una pronuncia, in qualche modo, annunciata, atteso che parte della dottrina aveva già sottolineato «l’incidenza indiretta» che la sentenza n. 194 avrebbe avuto su altre disposizioni del d.lgs. 23, fra le quali anche l’art. 4 oggi colpito dalla scure di incostituzionalità, ritenendosi che la norma questione contrastasse sicuramente «con il principio di uguaglianza e di ragionevolezza e, con particolare riferimento al licenziamento disciplinare, anche con il diritto del lavoratore alla difesa (art. 24 Cost.) e con il principio di ragionevolezza nella modulazione delle tutele fra quelle conseguenti alla violazione di regole dettate per le sanzioni disciplinari conservative (nullità) e per il licenziamento disciplinare (tutela economica)» .
In effetti, una volta travolto il meccanismo di quantificazione rigido dell’indennità e soprattutto affermata la necessità di preservare la discrezionalità giudiziaria in ragione del potere di adattamento, in termini di giustizia ed equità, della decisione alla concreta situazione che solo il giudice può esercitare , era prevedibile che la Corte ribadisse, anche per il licenziamento affetto da vizi formali e procedurali , l’illegittimità di prescrizioni legislative di rigida forfettizzazione, peraltro esistenti solo per i lavoratori assunti dopo il 2015 (atteso che, per i lavoratori cui continua a trovare applicazione l’art. 18 dello Statuto, come modificato nel 2012, il regime sanzionatorio per i vizi formali e procedurali rinvia a una quantificazione giudiziale in cui è possibile tenere conto della «gravità della violazione formale o procedurale commessa dal datore di lavoro») .
Nel solco della precedente sentenza n. 194, pertanto, la Corte – fermo restando il riconoscimento del limite massimo dell’indennizzo fissato ex lege – ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 4 citato, limitatamente al meccanismo di quantificazione rigidamente ancorato all’anzianità di servizio. Il ragionamento sotteso alla censura della disposizione che prevedeva «un’indennizzo-standard, determinato secondo un criterio generale che tenga conto dell’id quod plerumque accidit e non commisurato al pregiudizio patito dalla persona licenziata in ciascun caso concreto» , si presta, tuttavia, a una serie di riflessioni che solo in parte si sovrappongono a quelle che hanno condotto alla dichiarazione di incostituzionalità del Jobs Act di cui alla sentenza n. 194. Se, in astratto, è identico il ragionamento sulla incomprimibilità della discrezionalità giudiziaria in materia di quantificazione dell’indennità idonea a compensare il pregiudizio concretamente subito dal lavoratore, ben diverso è – o dovrebbe essere –, nel caso oggetto della pronuncia in commento il ragionamento sotteso all’operazione di bilanciamento dei diritti costituzionali che si assumono violati: l’indennità prevista dall’art. 3, comma 1, del d.lgs. n. 23 è, infatti, dovuta a seguito della violazione del principio di giustificatezza del licenziamento ; l’indennità prevista dall’art. 4, invece, per come congegnata dal legislatore nel nuovo articolato sistema dei vizi del licenziamento, sanziona il datore di lavoro per aver licenziato senza il rispetto dell’obbligo di motivazione e della regola del contraddittorio, vale a dire per la sussistenza di vizi del licenziamento che solo in parte, e solo eventualmente, si riverberano sulla giustificatezza del licenziamento medesimo.
La non perfetta sovrapponibilità dei vizi del licenziamento, cui si applica la tutela indennitaria differenziata colpita dalle due pronunce di incostituzionalità, fornisce pertanto l’occasione per una breve riflessione sullo stato dell’arte dei vizi del licenziamento ontologicamente disciplinare e sulla loro presa in considerazione nell’iter logico applicativo di quello che ormai è stato pacificamente individuato come il giudizio bifasico , che caratterizza, dalla riforma Fornero in poi, la struttura del controllo giudiziale in materia di licenziamento.
2. Le due ordinanze di rimessione: vizi formali e procedurali e giudizio bifasico.
Come è noto, dopo il 2012, il legislatore ha reso più complesso il sistema sanzionatorio in materia di licenziamento, differenziando il rimedio applicabile, non solo in ragione di un fattore estrinseco alla fattispecie qual era la dimensione dell’impresa, ma anche in ragione della data di assunzione, e soprattutto del tipo di vizio denunciato dal lavoratore e accertato dal giudice. Nella vigenza del nuovo sistema, pertanto, si è evidenziato come il giudice debba prima verificare se sussista la giusta causa o il giustificato motivo, e poi – ove il licenziamento non sia giustificato – debba valutare il “tipo” di vizio (nullità, insussistenza del fatto contestato, violazione del principio di proporzionalità, sussistenza di vizi formali o procedurali), al fine di individuare il regime rimediale applicabile.
Ciò ha comportato profondi mutamenti del modello di controllo giudiziale. In passato, infatti, salvo casi eccezionali (come quello del licenziamento in forma orale o del licenziamento nullo per motivi discriminatori), il controllo sulla legittimità del licenziamento veniva effettuato senza che il giudice fosse obbligato a distinguere concettualmente il “tipo” di vizio, in quanto tutti i tipi di vizi davano indistintamente luogo alla tutela reale o a quella obbligatoria, a seconda del dato dimensionale. In tale contesto, come è noto, consolidatasi la teoria sulla natura ontologicamente disciplinare del licenziamento per colpa , si è finito per assottigliare la distinzione concettuale fra potere disciplinare e potere di recesso , stabilendosi l’applicabilità al licenziamento disciplinare delle garanzie previste dall’art. 7 dello Statuto; ciò non in quanto vi fosse una esatta sovrapponibilità dei due poteri che restavano e restano distinti, ma in quanto si è ritenuto che l’esercizio stragiudiziale del potere di licenziamento per giusta causa e per giustificato motivo soggettivo, che trova il suo fondamento nella possibilità della parte fedele di mettere in discussione la sopravvivenza del contratto in caso d'inadempimento degli obblighi fissati nel regolamento contrattuale, rendesse opportuna una procedimentalizzazione del potere di recesso, funzionale a rendere più accertabile e controllabile (da parte del lavoratore prima e poi del giudice) la giustificatezza del licenziamento medesimo. In questa logica, dunque, a fronte di un sistema rimediale comunque per questo profilo indifferenziato, la distinzione logica e concettuale fra vizi sostanziali e vizi formali si intrecciava in un unico e inscindibile ragionamento: il mancato rispetto delle garanzie procedimentali veniva addirittura considerato dalla giurisprudenza un prius rispetto alla verifica della giustificatezza sostanziale; se, a monte, era violato l’obbligo di motivazione o le garanzie procedimentali, il giudice poteva – di fatto – ritenersi esonerato dal controllo sulla effettiva sussistenza della giusta causa o del giustificato motivo soggettivo. La procedimentalizzazione dell’art. 7 dello Statuto, originariamente pensata per “arginare” e rendere controllabile il potere datoriale di irrogare sanzioni disciplinari che non hanno eguali nel diritto comune dei contratti, è stata così estesa per via giurisprudenziale al potere di recesso, elevandosi la dimensione procedurale di protezione della persona del lavoratore a requisito di regolarità del licenziamento , che ha progressivamente assunto la medesima qualificazione giuridica (la medesima forza di vizio del licenziamento) al pari, e addirittura ancora prima, delle stesse causali del licenziamento medesimo .
Il legislatore del 2012 , prima, e quello del 2015, dopo, come si è detto, hanno ritenuto di “spacchettare” i vizi sostanziali dai vizi formali e procedimentali del licenziamento, aprendo un ampio dibattito interpretativo sui “confini” di ogni tipo di vizio , non essendo più indifferente se alcuni vizi – come la violazione dell’obbligo di motivazione o del principio di tempestività – rientrassero nella categoria dei vizi sostanziali oppure solo in quella dei vizi formali e procedurali (con definitiva esclusione di ogni possibilità di tutela reintegratoria e con maggiori limiti in termini di quantificazione dell’indennità risarcitoria). Mentre il dibattito giurisprudenziale (nei suoi esiti molto articolati quanto all’individuazione del rimedio applicabile) tende ad attrarre nei vizi sostanziali la violazione dell’obbligo di motivazione e del principio di tempestività, in quanto comunque produttivi di una sorta di vizio di ingiustificatezza dell’atto di licenziamento (che dà luogo, come ritenuto dalle Sezioni unite della Cassazione , alla tutela indennitaria “forte”), diversa sorte è toccata ai meri vizi procedimentali (quali sono quelli riguardanti la violazione di termini che incidono sul contraddittorio) che, per espressa volontà del legislatore, possono essere sanzionati solo con la tutela indennitaria “debole”.
L’art. 4 del d.lgs. n. 23 (ma anche il comma 6, dell’art. 18 dello Statuto, come novellato dalla Fornero) prevede, infatti, una sorta di priorità logica dell’accertamento della giusta causa o del giustificato motivo, cui segue – solo in caso di accertamento della sussistenza della ragione giustificativa – l’accertamento della eventuale presenza di vizi procedurali (peraltro impropriamente accorpati dal legislatore in un’unica categoria concettuale, atteso che – come chiarito dalla Cassazione – vi sono vizi procedurali, quali la mancanza di motivazione o la violazione del principio di tempestività che, di fatto, come si è detto, sono idonei a tramutarsi in vizi sostanziali del licenziamento stesso).
Fermi restando i vizi formali strutturalmente idonei a tramutarsi in vizi sostanziali (quale appunto quello attinente alla violazione del principio di tempestività), nel licenziamento per colpa, il vero e proprio ambito di operatività dell’art. 4 (come anche del comma 6, dell’art. 18 dello Statuto) deve ritenersi propriamente circoscritto ai soli vizi procedurali che, evidentemente, attengono al rispetto di eventuali termini previsti nell’ambito del procedimento a garanzia del contraddittorio. Ed è proprio su tali vizi procedurali che il nuovo modello di controllo giudiziale e rimediale segna la propria distinzione rispetto al passato. La tutela rimediale attenuata per i soli vizi procedurali (a fronte dell’accertamento giudiziale della sussistenza della giusta causa e del giustificato motivo) è, infatti, una novità legislativa di non poco conto, atteso che ancora negli anni novanta le Sezioni Unite della Cassazione incidentalmente avevano affermato (seppure ai fini di escludere la tutela reale al di fuori dell’ambito di operatività dell’art. 18) che «la sfera morale e professionale del lavoratore, la cui tutela ha avuto di mira la Corte Costituzionale, risulta maggiormente compromessa da una accusa ingiusta perché infondata, che non dà una accusa formalmente irrituale; appare invero arduo configurare il rispetto del procedimento come “un bene in sé” tutelato in via autonoma e particolarmente incisiva, tanto più che ciò non discenderebbe da una scelta del legislatore (che pure se la era prospettata in sede di approvazione della legge n. 108 del 1990, per poi scartarla), ma da una sentenza additiva di interpretazione costituzionale» .
Ed è proprio sui vizi eminentemente procedurali che le due ordinanze di rimessione alla Corte Costituzionale si soffermano, confermando appieno il nuovo iter logico-argomentativo che caratterizza il controllo giudiziale nell’era della citata destrutturazione dei vizi del licenziamento per colpa. In entrambe i casi, oggetto del giudizio era un licenziamento per giusta causa intimato dopo il 2015 e, in entrambi i casi, i giudici remittenti avevano già accertato in atti la sussistenza di una giusta causa di licenziamento ; formatosi il libero convincimento del giudice sulla sussistenza della giusta causa (e quindi, di fatto, dopo aver ritenuto non convincenti i motivi di ricorso addotti dai lavoratori che si assumevano illegittimamente licenziati), i giudici rimettenti hanno riscontrato la sussistenza di vizi procedurali, tali comunque da non “intaccare” la sussistenza della giusta causa, ma lo stesso concretanti la violazione della regola del contraddittorio . In entrambi i casi, evidentemente, è stata riscontrata una violazione solo “formale” del contraddittorio, atteso che il lavoratore – con il proprio ricorso – avrà poi sicuramente provato a giustificare il proprio operato, tuttavia non convincendo il giudice sulla ingiustificatezza del licenziamento.
Nonostante, pertanto, la giustificatezza del licenziamento, in entrambe i casi, i giudici remittenti hanno dubitato della legittimità costituzionale dell’art. 4 nella misura in cui «introduce un criterio rigido e automatico, basato sull’anzianità di servizio, tale da precludere qualsiasi discrezionalità valutativa, in violazione dei principi di eguaglianza e di ragionevolezza, in quanto in contrasto con l’esigenza di assicurare un adeguato ristoro del concreto pregiudizio subito dal lavoratore, nonché un’adeguata dissuasione del datore di lavoro dal licenziare ingiustamente o illegittimamente»: anche in tale caso, secondo il rimettente, «le esigenze di adeguato ristoro del pregiudizio subito, di commisurazione del costo del licenziamento illegittimo anche alla capacità economica dell'impresa, di valorizzazione delle peculiarità del caso concreto, valutate dalla Consulta in relazione all’ipotesi del licenziamento illegittimo per ragioni sostanziali, non possono essere ignorate nei casi di licenziamento viziato sotto il profilo formale o procedurale, atteso che anche le violazioni procedurali possiedono diverse gradazioni di gravità, e anche un licenziamento illegittimo per questioni di forma può produrre pregiudizi differenziati in base alle condizioni delle parti, all’anzianità del lavoratore, alle dimensioni dell'azienda» . In entrambi i casi, dunque, le ordinanze di rimessione invocano la necessità costituzionale di garantire un adeguato «ristoro del pregiudizio subito» per la violazione del diritto di difesa ex art. 24 Cost., atteso che l’art. 4 in questione non tiene conto di quegli elementi che invece «inducono ad aumentare detta misura, vale a dire le notevolissime dimensioni dell'impresa convenuta in termini di fatturato e l’elevatissimo numero di dipendenti occupati (nell’ordine di migliaia), nonché la non trascurabile entità della violazione commessa dalla società datrice» .
3. L’indennità “punitiva”: le ragioni del bilanciamento, il diritto alla giusta procedura di licenziamento e il valore della dignità del lavoratore.
Una volta che i vizi del licenziamento sono stati formalmente distinti in vizi sostanziali e vizi formali, nonostante l’identico meccanismo sanzionatorio standardizzato dal legislatore, è evidente che – benché l’esito finale sia stato lo stesso, vale a dire la pronuncia di illegittimità costituzionale dell’indennizzo standard – le ragioni poste a fondamento del giudizio di incostituzionalità siano state in parte differenti. Sebbene la pronuncia in commento si collochi nel solco della precedente sentenza n. 194, le ragioni sottese all’operazione di bilanciamento posta in essere dalla Corte sono infatti evidentemente diverse: nel caso dell’art. 3, comma 1, infatti, occorreva bilanciare la violazione del principio di giustificatezza del licenziamento, che aveva comportato per il lavoratore la perdita (comunque ingiusta) del proprio posto di lavoro; nel caso dell’art. 4, il bene tutelato non è tanto la perdita del posto di lavoro (cui, comunque, il lavoratore sarebbe andato incontro a causa del suo comportamento che ha dato luogo alla sussistenza della giusta causa o del giustificato motivo, già accertata per via giudiziale), quanto il diritto del lavoratore ad avere una «giusta procedura di licenziamento, diretta a salvaguardare pienamente la dignità della persona del lavoratore» (punto 14 della sentenza n. 150). Come chiarito da tempo dalla Corte Costituzionale, già con la storica sentenza n. 427 del 1989, il licenziamento c.d. disciplinare oltre a produrre la perdita del posto di lavoro lede la dignità professionale e personale del lavoratore, e pertanto il prestatore «deve essere posto in grado di conoscere l’infrazione, la sanzione e i motivi; deve essere, inoltre, posto nella condizione di difendersi adeguatamente, di fare accertare l’effettiva sussistenza dell’addebito in contraddittorio con l’altra parte, cioè con il datore di lavoro» .
Nel solco dell’orientamento giurisprudenziale citato, la proceduralizzazione del licenziamento, dunque, da strumento astratto per garantire l’effettivo contradditorio, e per far emergere l’eventuale abuso del potere datoriale, viene elevata a una sorta di vero a proprio diritto a essere licenziato solo a seguito di una corretta procedura (quella di cui all’art. 7 dello Statuto o del c.c.n.l. applicabile). Non solo quando vi è in gioco la perdita del posto di lavoro, ma anche quando il mancato rispetto della procedura rischia di intaccare la dignità del prestatore, e ciò anche ove sia accertato che lo stesso si fosse effettivamente e concretamente reso colpevole di un inadempimento.
Sebbene, infatti, la Corte Costituzionale richiami la pregressa giurisprudenza in materia di applicazione dell’art. 7 dello Statuto al licenziamento per colpa , è evidente come, nell’ambito del nuovo giudizio bifasico che caratterizza il controllo giudiziale, la correttezza della procedura del licenziamento trascenda definitivamente la sua originaria funzione volta a far emergere l’abuso e a rendere controllabile il potere datoriale, assurgendo a vero e proprio strumento per preservare la dignità del lavoratore che, nonostante l’inadempimento accertato, doveva avere il diritto pieno a potersi difendere già in sede stragiudiziale innanzi al proprio datore di lavoro.
Ove ciò non sia accaduto, e quindi nonostante la sussistenza della giusta causa o del giustificato motivo che hanno determinato il licenziamento, il vizio procedurale è, pertanto, sanzionato (dall’art. 4 del d.lgs. n. 23, come anche dal comma 6, dell’art. 18 dello Statuto) con la condanna del datore di lavoro che ha licenziato (giustamente, ma) senza il rispetto della procedura con il pagamento di una indennità che, evidentemente, non ha funzione risarcitoria, quanto eminentemente punitiva dell’esercizio di un potere sostanzialmente fondato, ma formalmente mal esercitato.
Ex lege, dunque, l’applicazione dell’art. 7 dello Statuto al licenziamento disciplinare ha effetti diversi da quelli prodotti nel caso di irrogazione di sanzioni disciplinari conservative in violazione delle disposizioni procedurali ivi previste: nell’ipotesi, infatti, in cui siano violate le regole procedurali dell’art. 7 nell’ambito dell’irrogazione di una sanzione disciplinare conservativa, il giudice annulla la sanzione e, solo ove il lavoratore provi di aver subito un effettivo danno dalla stessa, condanna il datore di lavoro a risarcire il danno subito; nel caso, invece, le garanzie procedurali del medesimo art. 7 siano violate nell’ambito di un licenziamento per colpa, il licenziamento (comunque giustificato) rimane valido, ma il datore di lavoro (a prescindere dalla prova del danno effettivamente subito dal lavoratore) viene condannato al pagamento di una indennità “puniva” per aver licenziato senza il rispetto dei vincoli procedurali e quindi ledendo, ipso facto, la dignità del lavoratore stesso che, a torto o a ragione, è stato privato anche della possibilità di difendersi. Ancora una volta, dunque, il «licenziamento per colpa sembra tenere i piedi in due staffe: una poggia sull’art. 7, poiché si tratta pur sempre di un recesso ontologicamente disciplinare; l’altro, sulle leggi» in materia di licenziamento «ogni qual volta si debbono individuare le conseguenze ed i rimedi da applicare nel caso di violazione della norma statutaria» .
Nella logica del bilanciamento tra potere di recesso (astrattamente e concretamente giustificato, ma viziato dal punto di vista procedurale) e dignità del prestatore , la sentenza n. 150 conferma, dunque, che «l’anzianità di servizio, svincolata da ogni criterio correttivo, è inidonea a esprimere le mutevoli ripercussioni che ogni licenziamento produce nella sfera personale e patrimoniale del lavoratore e non presenta neppure una ragionevole correlazione con il disvalore del licenziamento affetto da vizi formali e procedurali, che il legislatore ha inteso sanzionare. Tale disvalore non può esaurirsi nel mero calcolo aritmetico della anzianità di servizio» (punto 12). Anche la lesione della dignità e l’indennizzo “punitivo” posto dall’ordinamento a carico del datore di lavoro deve essere pertanto modulabile dal giudice, nel limite minimo e massimo previsto dal legislatore; l’adeguatezza del rimedio susseguente all’avvenuta espulsione del lavoratore, «in sé sempre traumatica», (…) «deve essere valutata alla luce della molteplicità di funzioni che contraddistinguono l’indennità disciplinata dalla legge. Alla funzione di ristoro del pregiudizio arrecato dal licenziamento illegittimo si affianca, infatti, anche quella sanzionatoria e dissuasiva» (punto 13). In altre parole, l’indennità dovuta per i vizi procedurali a «garanzia di fondamentali valori di civiltà giuridica, orientati alla tutela della dignità della persona del lavoratore», non ha la funzione di ristorare il danno, ma quella di punire il datore di lavoro che ha licenziato in maniera poco accorta, dissuadendolo dal commettere il medesimo errore procedurale in futuro.
In questo caso, è evidente, come tale indennità “punitiva” da corrispondere a fronte dei vizi procedurali segna, ancora di più di altre ipotesi analizzate dalla dottrina, «il punto di massima distanza del regime sanzionatorio del licenziamento illegittimo rispetto alla ordinaria responsabilità da violazione contrattuale» : una distanza che origina dalla stessa definizione del bene protetto (in questo caso, nemmeno il “posto di lavoro”, ma la dignità del lavoratore), e di qui, «a cascata, si riproduce nella quantificazione del danno (aritmetica, sia pure entro ristrette forchette “amministrate” dal giudice), nella prova del medesimo (non richiesta)» , e nella parametrazione possibile a prescindere dal concreto comportamento delle parti (la colpevolezza del lavoratore/la dimensione dell’impresa e il numero di occupati).
4. Criterio di quantificazione mobile, gravità della violazione e dissuasività della sanzione: quale equilibrio per la determinazione dell’indennità “punitiva” in presenza della già accertata giustificatezza sostanziale del licenziamento?
Se, tutto sommato, risultava scontato che la Corte, nel solco della precedente sentenza n. 194, difendesse la discrezionalità giudiziale, più complicato è risultato, di fatto, per la Corte fornire dei criteri che possano ispirare con ragionevole certezza la quantificazione mobile che dovrà essere operata dai giudici di merito in caso di vizi procedurali.
Sul punto, con un criterio tutto sommato in linea con la ratio dell’indennità “punitiva” in questione, l’art. 18, comma 6, dell’art. 18 post Fornero prevede che, a meno che il giudice non accerti che vi sia un vizio di giustificatezza del licenziamento (in questo caso applicando le tutele degli altri commi), il lavoratore avrà diritto all’attribuzione «di un’indennità risarcitoria onnicomprensiva determinata, in relazione alla gravità della violazione formale o procedurale commessa dal datore di lavoro, tra un minimo di sei e un massimo di dodici mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto, con onere di specifica motivazione a tale riguardo»: una parametrazione, dunque, motivata dalla gravità della violazione formale o procedurale, vale a dire non sul danno subito dal lavoratore (danno che, ovviamente, non sarebbe in questo caso realisticamente provabile), ma – in linea con la ratio “punitiva” – sul grado di “sciatteria” del comportamento datoriale che ha violato le regole procedurali propedeutiche al legittimo esercizio del potere di recesso a seguito dell’inadempimento della controparte.
In questa medesima logica, d’altra parte, l’ordinanza di rimessione del Tribunale di Roma sottolinea l’opportunità della scelta del legislatore della Fornero di collegare (a differenza dell’art. 8 della legge n. 604 del 1966, che unifica i vizi sostanziali ai vizi formali) l’indennizzo dovuto per la violazione formale-procedurale «alla gravità della stessa (comma 6), così in sostanza già prescindendo da fattori chiaramente muniti di un nesso apprezzabile col danno sofferto dal lavoratore», e quindi a un criterio che non si fondi sul danno sofferto dal lavoratore, bensì sulla gravità oggettiva della violazione. Diversamente, l’ordinanza di rimessione del Tribunale di Bari, come si è sopra accennato, evidenzia l’opportunità di considerare, in linea di continuità con i criteri utilizzabili per la quantificazione dell’indennità risarcitoria “forte” dovuta per la mancanza di giustificatezza, altri «elementi che invece inducono ad aumentare detta misura, vale a dire le notevolissime dimensioni dell'impresa convenuta in termini di fatturato e l’elevatissimo numero di dipendenti occupati (nell’ordine di migliaia), nonché la non trascurabile entità della violazione commessa dalla società datrice».
Sul punto, tuttavia, la Corte non ha ritenuto di prendere posizione, lasciando aperta la strada a una valutazione giudiziale che, a tutto tondo, tenga conto di molteplici criteri: non solo l’anzianità di servizio, «che rappresenta la base di partenza della valutazione»; ma anche «in chiave correttiva, con apprezzamento congruamente motivato, il giudice potrà ponderare anche altri criteri desumibili dal sistema, che concorrano a rendere la determinazione dell’indennità aderente alle particolarità del caso concreto», quali «la gravità delle violazioni, enucleata dall’art. 18, sesto comma, dello statuto dei lavoratori, come modificato dalla legge n. 92 del 2012, e anche il numero degli occupati, le dimensioni dell’impresa, il comportamento e le condizioni delle parti, richiamati dall’art. 8 della legge n. 604 del 1966, previsione applicabile ai vizi formali nell’àmbito della tutela obbligatoria ridefinita dalla stessa legge n. 92 del 2012» (punto 16).
Insomma, trattandosi di indennità “punitiva, cade «l’esigenza di personalizzazione del danno subito dal lavoratore» che aveva ispirato la sentenza n. 194, ma resta aperta la strada di una modulabilità della tutela che tiene conto di una pluralità di criteri che non attengono alla gravità della violazione, bensì a parametri oggettivi (la dimensione dell’impresa, il numero degli occupati ) che sganciano definitivamente, ma senza una argomentazione sul punto convincente, la citata logica “punitiva” dalla concreta gravità della violazione procedurale, aprendo di fatto spazi ai rischi di comportamenti opportunistici di lavoratori che, coscienti del loro torto/inadempimento, mirino comunque a ottenere il massimo dell’indennità sol perché dipendenti di una impresa di grandi dimensioni, che magari è incappata in un vizio procedurale di per se sostanzialmente irrilevante.
Vero è che, nel complesso panorama rimediale architettato dal legislatore italiano, oltre all’ipotesi dell’art. 18, comma 6, dello Statuto che collega la quantificazione dell’indennità dovuta per i vizi procedurali alla gravità della violazione, vi è anche l’ipotesi diametralmente opposta della disciplina applicabile al pubblico impiego che garantisce ai dipendenti pubblici la reintegra e il risarcimento anche nell’ipotesi in cui il giudice accerti anche solo un vizio procedurale , nonché (ancora vigente) l’art. 8 della legge n. 604 del 1966 per i lavoratori delle piccole imprese assunti prima del 2015 (che, come ricordato, accorpa i vizi sostanziali ai vizi procedurali) e quindi vi siano elementi di schizofrenia nel sistema rimediale del licenziamento difficilmente spiegabili in una logica unitaria, ma è anche vero che, probabilmente, il rinvio al criterio della gravità della violazione dell’art. 18, comma 6, avrebbe contribuito a una parziale coerenza del sistema rimediale applicabile al lavoro privato.
5. La concreta determinazione dell’indennizzo: i dubbi applicativi sul criterio dell’anzianità di servizio, quale «base di partenza della valutazione», e il modus operandi degli altri “criteri correttivi”.
Come nella sentenza n. 194, anche nella sentenza in commento è possibile intravedere un parziale “scollamento” fra motivazioni e dispositivo. Se, infatti, il dispositivo della sentenza si limita a dichiarare l’illegittimità costituzionale dell’art. 4, limitatamente alle parole «di importo pari a una mensilità dell’ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del trattamento di fine rapporto per ogni anno di servizio», nelle motivazioni della stessa la Corte indica una serie di criteri di parametrazione, la cui concreta applicazione apre una serie di problemi interpretativi. La Corte, infatti, non si limita a indicare i criteri in astratto richiamabili, ma precisa che «nel rispetto dei limiti minimo e massimo oggi fissati dal legislatore, il giudice, nella determinazione dell’indennità, terrà conto innanzitutto dell’anzianità di servizio, che rappresenta la base di partenza della valutazione» ; solo «in chiave correttiva, con apprezzamento congruamente motivato, il giudice potrà ponderare anche altri criteri desumibili dal sistema, che concorrano a rendere la determinazione dell’indennità aderente alle particolarità del caso concreto».
Sulla scorta di tale “scollamento” fra motivazioni e dispositivo non è, pertanto, del tutto chiaro se il calcolo dell’anzianità come «base di partenza della valutazione», sia da intendere come base modulabile pure in peius dal giudice, o solo in melius. La scelta fra l’una e l’altra opzione non solo non è indifferente, ma implica anche una precisa presa di posizione sulla funzione da attribuire a tale indennità, nonché un ennesimo problema di coerenza sistematica del sistema rimediale.
Se, infatti, considerare l’anzianità quale «base di partenza» significa che l’indennità è modulabile anche in peius dal giudice, significa che lo stesso – a fronte magari di una violazione procedurale non grave per un licenziamento assolutamente giustificato – potrà condannare il datore di lavoro anche a una indennità pari a due mensilità (il minimo), a prescindere dall’anzianità del lavoratore.
Se, invece, la «base di partenza» non è modulabile in peius dal giudice , un lavoratore con una anzianità di almeno dodici anni avrà diritto a una indennità pari a dodici mensilità anche se si è reso colpevole di un inadempimento gravissimo, ma il datore di lavoro ha irrogato la sanzione senza attendere le sue giustificazioni (infondate), pervenute in ritardo per un problema di consegna interna della posta.
Se, in altre parole, si ritiene che l’anzianità quale «base di partenza» non sia modulabile anche in peius potrebbe accadere che, a fronte di un licenziamento per giusta causa per un fatto gravissimo ma viziato nella procedura, un medesimo lavoratore con dodici anni di anzianità, possa vedersi attribuita, nel caso in cui si applica l’art. 18, comma 6, dello Statuto, tenuto conto della scarsa gravità del vizio procedurale, una indennità pari a sei mensilità; nel caso in cui si applica l’art. 4 del d.lgs. n. 23 solo sulla base dell’anzianità, considerata in senso rigido quale «base di partenza», e a prescindere dalla gravità o meno della violazione procedurale, una indennità pari a dodici mensilità (indennità dimezzabile per i lavoratori delle piccole imprese, di cui si occupa il successivo art. 9, comma 1, del d.lgs. 23 citato).
Alla luce della ratio “punitiva” dell’indennità, la soluzione interpretativa da ritenere più rispondente alle ragioni sottese al bilanciamento posto in essere dalla Corte sembra essere, tuttavia, quella dell’inesistenza di un ordine gerarchico tra i criteri, atteso che comunque il criterio più rispondente alla finalità sanzionatoria rilevata è sicuramente quello connesso alla gravità della violazione procedurale, parametrata al comportamento complessivo delle parti (e, quindi, anche alla gravità della ragione dell’inadempimento posto in essere dal lavoratore).
È innegabile che la potenziale irrazionalità del sistema deriva dalla stratificazione dei regimi di licenziamento e non dalla pronuncia della Corte. Ma è anche vero che – preso atto della funzione “punitiva” dell’indennità di cui si è detto – sarebbe stato bene preservare senza equivoci la discrezionalità giudiziale anche in peius, così almeno parificando (quanto alla citata funzione “punitiva” volta a sanzionare il datore che ha licenziato per ragioni sostanzialmente corrette, ma con errori procedurali tutto sommato minimi o irrilevanti) la possibilità di definire liberamente e con adeguata motivazione il quantum della indennità in questione; ciò tenuto conto del solo elemento che ha inciso sulla lesione della dignità del lavoratore, vale a dire il criterio della gravità della violazione formale e procedurale, così come previsto dall’art. 18, comma 6, dello Statuto, come modificato dalla Fornero che, tutto sommato, continua a rappresentare, per questo come per altri profili, un modello di bilanciamento in concreto che renderebbe, caso per caso, lo spostamento del baricentro dalla tutela reintegratoria a quella indennitaria e la ratio di “spacchettamento” dei vizi del licenziamento in linea con i principi di ragionevolezza e di proporzionalità dell’intervento legislativo.