Testo Integrale con note e bibliografia Testo della Sentenza
Abstract: il commento esamina la questione di costituzionalità sollevata dal tribunale di Roma, nel contesto del principio di giustificazione di ogni recesso, già affermato dalla Corte Costituzionale nel lontano 1965, con particolare riguardo al parametro dell’art. 3 Cost. ed alla contemporanea vigenza nel nostro ordinamento giuridico di due diversi regimi di tutela per la stessa tipologia di licenziamento illegittimo. Il commento, premesso il rispetto delle norme sottoposte al giudice delle leggi del principio dell’affidamento, esamina i profili della razionalità e ragionevolezza del diverso regime vigente per gli assunti prima del 7.3.2015, ai quali si applica l’art. 18 Statuto come modificato dalla legge 2012/92 e per quelli assunti dopo, ai quali si applica il decreto legislativo 2015/23 emanato sulla base della legge delega 183/2014 art. 1 comma 7 lettera c).
1. Le norme del Jobs act oggetto dell’ordinanza del tribunale di Roma.
La questione di costituzionalità sollevata dal Tribunale di Roma riguarda la sanzione economica prevista dal complesso normativo legge 183/2014 art. 1 comma 7 lettera c) e decreto legislativo 23/2015, artt. 2, 3 e 4.
Tuttavia, se l’occasione per la rimessione al giudice delle leggi è stata la sanzione prevista per il licenziamento economico per giustificato motivo oggettivo, è l’intero sistema sanzionatorio per i licenziamenti illegittimi, a partire dalla legge delega, che viene investito delle censure di violazione degli artt. 3, 4, 76 e 117 Cost. .
Tutto il sistema sanzionatorio del licenziamento illegittimo, a cui fa rinvio anche l’art. 10 del decreto legislativo n. 23/2015 relativo ai licenziamenti collettivi, sarà sottoposto al vaglio del giudice delle leggi. Del resto sospetti di incostituzionalità della nuova disciplina sono stati avanzati dalla dottrina immediatamente dopo la sua entrata in vigore , anche se si sono levate voci in favore della compatibilità costituzionale e comunitaria del Jobs Act.
Qualunque sia l’opinione che può aversi al riguardo, è bene premettere che il decreto legislativo 23/2015 rispetta il principio costituzionale, più volte applicato dalla Corte, della tutela dell’affidamento nei rapporti di durata, vale a dire l’attenuazione del principio di uguaglianza nel passaggio da un regime giuridico ad un altro tipico delle leggi di riforma che non si applicano ai rapporti giuridici sorti prima della loro entrata in vigore.
Come è noto il decreto legislativo 4.3.2015 n. 23, oltre a non aver creato una nuova tipologia di contratto di lavoro subordinato a tempo indeterminato , ha modificato unicamente le sanzioni per tutti i tipi di licenziamento illegittimo solo nei confronti dei lavoratori assunti con contratto a tempo indeterminato dal 7.3.2015. Per i lavoratori già in servizio a quella data si continua, invece, ad applicare la legge 28.6.2012 n. 92 di riforma del mercato del lavoro. Risulta, pertanto, rispettato l’art. 3 cost sotto il profilo della tutela dell’affidamento nei rapporti di durata, come sarà più ampiamente trattato nel paragrafo 7.
Ma il vaglio di costituzionalità non riguarda affatto quest’aspetto che certamente, da solo, non può valere a rendere le nuove norme compatibili con la costituzione.
L’ordinanza rimette, dunque, alla Corte l’intero sistema sanzionatorio dei licenziamenti illegittimi del Jobs act incluso l’art. 2 del decreto legislativo 23/2015 per il licenziamento discriminatorio, nullo ed intimato in forma orale.
La scelta di rimettere alla Corte Costituzionale anche l’art. 2 del decreto legislativo 2015/23 appare tecnicamente ineccepibile in quanto il giudice ha ritenuto la non conformità alla Costituzione dell’intero sistema sanzionatorio dei licenziamenti illegittimi disciplinato dagli art. 2, 3 e 4 del DLVO 23/2015 come fondato sulla legge delega art. 1 comma 7 lettera c).
Non si condivide, quindi, la critica, contenuta in uno dei primi commenti all’ordinanza di rimessione, sulla incomprensibile inclusione nella questione di costituzionalità della disciplina del licenziamento nullo, discriminatorio di cui all’art. 2 del DLVO 23/2015.
L’autore sostiene che non si comprende perché venga sollevata la questione di legittimità anche dell’art.2 DLVO 23/2015 quando, secondo lo stesso iter argomentativo dell’ordinanza di rimessione, non sarebbero presenti nella tutela reintegratoria forte prevista dall’art. 2 DLVO 23/2015 quei motivi di inadeguatezza e irragionevolezza che il Giudice rileva in relazione alla sola tutela indennitaria.
In realtà è tutto l’impianto normativo che disciplina la tutela dei lavoratori assunti dopo il 7.3.2015 che è investito delle censure, tenuto conto che esso è destinato interamente a sostituire l’art. 18 dello Statuto, come novellato dalla legge 2012/92, rimasto in vigore per i rapporti di lavoro subordinato stipulati antecedentemente al 7.3.2015 data di entrata in vigore del decreto legislativo 4.3.2015 n. 23.
Del resto non avrebbe avuto senso rimettere alla Corte Costituzionale solo la disciplina della sanzione nei licenziamenti economici perché è evidente il collegamento logico e giuridico tra le norme del decreto legislativo 2015/23 emanate sulla base delle regole contenute nell’art. 1 comma 7 lettera c) della legge delega 10.12.2014 n. 183; scelta, quindi, tecnicamente ineccepibile quella del giudice remittente, anche in base al rilievo che la reintegra nel posto di lavoro non viene ritenuta, nell’ordinanza di rimessione, tutela costituzionalmente necessitata e, quindi, non viene censurata la esclusione della reintegra per i licenziamenti economici, ma appunto la disparità di trattamento tra vecchi e nuovi assunti, l’entità della sanzione, l’assenza di discrezionalità del giudice nell’applicare la sanzione concreta e così via, nel contesto di una riforma delle sanzioni per il licenziamento illegittimo che ha riguardato anche i casi di nullità del licenziamento, rispetto alla disciplina vigente del 2012. Anche la disciplina del licenziamento nullo e discriminatorio contenuta nell’art. 2 del decreto legislativo 2015/23 presenta alcune differenze di disciplina rispetto alla riforma del 2012, come evidenziato dalla dottrina. E come si vedrà nel prosieguo, è proprio sul terreno della contemporanea vigenza di due diversi regimi sanzionatori per i licenziamenti illegittimi che si fonda la questione di costituzionalità.
L’eventuale accoglimento integrale della sollevata questione comporterebbe l’estensione del sistema sanzionatorio previsto dalla legge precedente n. 92 del 2012 cd. legge Fornero e, quindi, l’art. 18 novellato con le tutele differenziate ivi previste anche agli assunti dopo il 7.3.2015 .
In definitiva la Corte, in caso di accoglimento, è chiamata ad un’operazione chirurgica di invalidazione integrale delle nuove norme anche con riguardo alla disciplina dei licenziamenti nulli e discriminatori, che comporterebbe l’applicazione di un solo regime sanzionatorio per i licenziamenti illegittimi nell’area di applicazione dell’art. 18 statuto.
Ovviamente ciò vale in caso di accoglimento, mentre gli esiti del giudizio di costituzionalità possono essere di inammissibilità o rigetto tout court della questione, oppure interpretativa di rigetto o di accoglimento, o ancora manipolativa o con monito al legislatore.
2. Il principio di giustificazione di ogni forma di recesso nella giurisprudenza della Corte costituzionale.
Il giudice remittente, come si è appena detto, espressamente esclude la censura di illegittimità costituzionale delle nuove regole in materia di sanzioni per il licenziamento illegittimo per l’avvenuta eliminazione della tutela reintegratoria – se non per i licenziamenti nulli e discriminatori e per specifiche fattispecie di licenziamento disciplinare - in conformità a quanto più volte ribadito dalla Corte costituzionale e ritiene conforme a Costituzione l’avvenuta marginalizzazione della reintegra .
Il giudice delle leggi ha, invero, ripetutamente escluso che la tutela reintegratoria costituisca l’unico possibile paradigma attuativo dei precetti costituzionali di cui agli art. 4 e 35 cost. (sentenze 46/2000, 44/1996 e 194/1970).
Tuttavia nella sentenza 46/2000, relativa alla proposta di referendum abrogativo dell’art.18 Statuto, in particolare, la Corte Costituzionale, dopo un breve excursus storico normativo sul pregresso regime di libera recedibilità ex art. 2118 c.c. con obbligo di preavviso, afferma la introduzione, attraverso la legge 15.7.1966 n. 604, del principio di necessaria giustificazione del licenziamento e sottolinea come l’art. 18 Statuto sia indubbiamente manifestazione dell’indirizzo di progressiva garanzia del diritto al lavoro previsto dagli artt. 4 e 35 cost che ha portato nel tempo ad introdurre temperamenti al potere di recesso del datore di lavoro.
Al tempo stesso la Corte costituzionale affida alla discrezionalità del legislatore le modalità di realizzazione a tale temperamento, ritenendo che la reintegra non concreti l’unico paradigma possibile dei principi ricollegabili agli artt. 4 e 35 Cost.
La decisione della Corte Costituzionale sulla legittimità costituzionale degli art. 1 comma 7 lettera c) della legge delega 183/2014 e artt. 2, 3 e 4 del decreto legislativo 2015/23 avrà, dunque, un peso decisivo sulla perdurante tenuta o meno, nel nostro ordinamento, del principio di giustificazione di ogni forma di recesso; principio opposto a quello di libera recedibilità che, già dal 1965, la Corte Costituzionale ha affermato chiaramente non essere più un principio del nostro ordinamento, tanto da determinare l’emanazione, di lì a poco, della legge 1966/604.
In definitiva il principio di giustificazione di ogni forma di recesso dal rapporto di lavoro subordinato costituisce il frutto del bilanciamento di diversi principi presenti nella Costituzione e, quindi, un limite alla pur ampia discrezionalità del legislatore nel difficile compito di innovazione del diritto del lavoro.
Tale principio trova inoltre riscontro nelle fonti internazionali, richiamate dal giudice remittente, tra cui in particolare l’art. 30 carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, per cui deve ritenersi costituzionalizzata la garanzia del lavoratore ad essere licenziato solo per giustificato motivo. Conclusivamente l’inesistenza del principio di libera recedibilità è una certezza dell’ordinamento giuridico attuale con conseguente impossibilità per il legislatore di reintrodurlo attraverso forme attenuate o tendenziali.
3. La questione principale: Art. 3 Cost. razionalità e ragionevolezza
Pur essendo richiamati vari profili di illegittimità costituzionale delle nuove norme nell’ordinanza di rimessione, il filo rosso della decisione della corte costituzionale sarà verosimilmente rappresentato dal principio di uguaglianza nelle sue declinazioni della razionalità e ragionevolezza.
Il tema principale sembra rappresentato dalla concomitante esistenza di due diverse forme di tutela, a parità sostanziale di situazioni, tra i lavoratori assunti prima del 7.3.2015 ai quali, in caso di licenziamento economico illegittimo si applica una sanzione che varia a seconda della situazione e della tipologia di illegittimità previste dalla legge 2012/92 e i lavoratori assunti dopo il 7.3.2015 ai quali si applica una sanzione economica prefissata dal legislatore che cresce di due mensilità di retribuzione per ogni anno di servizio.
Come sarà analizzato al paragrafo 6, il cuore della censura di illegittimità costituzionale riguarda la diversità di regime a parità di condizioni sostanziali e di identica illegittimità del licenziamento e, quindi, investe il principio di razionalità della legge.
La giurisprudenza costituzionale ha fissato il principio di razionalità nella formula “a situazioni uguali, legge uguale, a situazioni diverse leggi diverse” . E’ chiaro che il problema per il giudice delle leggi sarà quello di verificare l’equivalenza delle situazioni di fatto tra lavoratori assunti prima e dopo il 7.3.2015 e controllare se la data di assunzione sia in grado di evitare la “rottura dell’interna coerenza dell’ordinamento giuridico”.
In tale giudizio la Corte seguirà lo schema ternario diverso da quello binario legge – costituzione. Il contrasto non dovrà essere esaminato direttamente tra norme della legge delega e del decreto legislativo n. 23 del 2015 e art. 3 Cost, ma dovrà intervenire nel giudizio il terzo attore il cd. tertium comparationis rappresentato dalla norma di paragone che è costituita dalla legge 2012/92.
Il controllo del giudice delle leggi riguarda, altresì, la ragionevolezza vale a dire la prudenza e l’equità della scelta legislativa nel contesto dell’insieme delle prescrizioni costituzionali.
Riguarda, infine, l’art. 3 Cost. con riferimento all’automatismo legislativo previsto in caso di illegittimità del licenziamento, a prescindere dalla fattispecie concreta, che impone al giudice di applicare, in ogni caso, la sanzione economica prevista dalla legge aumentata di due mensilità per ogni anno di servizio, precludendo, quindi, qualsiasi discrezionalità idonea ad adattare la regola astratta al caso concreto.
Ed è proprio il caso concreto che mette a nudo la capacità del diritto di regolare con efficacia e ragionevolezza i comportamenti umani e di costituire un limite all’arbitrio.
Appare, quindi, opportuno, prima di analizzare più ampiamente il tema dei principi costituzionali coinvolti nel procedimento davanti alla Corte, ora sommariamente esposto, partire dalla fattispecie concreta e dalla sua qualificazione nel giudizio a quo.
4. La fattispecie concreta
L’incipit dell’ordinanza di rimessione alla Corte Costituzionale del Tribunale di Roma contiene la motivazione del licenziamento economico impugnato davanti al giudice da una lavoratrice assunta nel maggio 2015 e licenziata nel dicembre dello stesso anno: si tratta di una motivazione tautologica definita evanescente che accenna a “crescenti problematiche di carattere economico-produttivo”.
Non vi è altro. Ti licenzio perché ti licenzio.
Non si comprende se è in atto una crisi economica aziendale, se sussistano invece ragioni produttive e/o decisioni imprenditoriali alla base della riduzione o cancellazione di un posto di lavoro, a prescindere da eventi catalogabili come crisi vera e propria, o altra ragione organizzativa o produttiva.
Ben diversa normalmente appare la casistica giurisprudenziale in correlazione alla fattispecie astratta definita dall’art. 3 della legge 604/1966 che indica, nel giustificato motivo oggettivo, ragioni attinenti all’attività produttiva, all’organizzazione del lavoro e al regolare funzionamento di essa (art. 3 legge 604/1966).
La contumacia del convenuto, nel caso concreto esaminato dal giudice del Tribunale di Roma, cristallizza l’assenza sostanziale di motivazione e di prova sulla reale natura “economica” del licenziamento intimato ad una lavoratrice assunta nel maggio 2015 e licenziata nel dicembre 2015.
Dall’ordinanza di rimessione si comprende anche che non è stata allegata altra circostanza di fatto idonea a radicare un’ipotesi di nullità del licenziamento, che non è per nulla dedotta dalla parte attrice tanto che il giudice ritiene impraticabile la strada della interpretazione conforme.
La vicenda, quindi, che sta alla base dell’ordinanza di rimessione presenta delle caratteristiche peculiari, sia sul piano processuale per la contumacia del datore di lavoro e per le allegazioni limitate della parte istante, che sul piano sostanziale - carenza assoluta di motivazione di un licenziamento qualificato economico dal datore di lavoro. Soprattutto sembra esclusa, sulla base delle prospettazioni ma anche sulla base dei testi normativi in comparazione tra loro, legge 2012 e legge 2014-2015, la possibilità per il giudice di accedere ad una diversa interpretazione del testo normativo.
5. Nozione di licenziamento economico. Il giustificato motivo oggettivo
La qualificazione del licenziamento da parte del giudice: limiti.
Si tratta, dunque, di un licenziamento qualificato “economico” per il quale la legge delega sul Jobs ACT art. 1 comma 7 lettera c) legge 183/2014, senza possibilità di equivoci, esclude la reintegra.
La legge delega (art. 1, comma 7 lettera c legge 183/2014), come è noto, esclude del tutto per i licenziamenti economici la possibilità della reintegrazione del lavoratore nel posto di lavoro, prevedendo un indennizzo economico certo e crescente con l’anzianità di servizio.
La nuova terminologia usata nella legge delega n. 183 del 2014 “licenziamento economico”, è stata criticata da alcuni in quanto assimila nella nozione “licenziamento economico” due istituti profondamente diversi, sul piano giuridico, nel nostro ordinamento, quali sono il licenziamento per giustificato motivo oggettivo e i licenziamenti collettivi.
Altra parte della dottrina, in realtà, già usava la locuzione oggi adottata dal legislatore delegante “licenziamenti economici”, con riferimento sia al licenziamento per giustificato motivo oggettivo sia al licenziamento collettivo, sulla scorta della terminologia adoperata in altri paesi . E va ricordato che entrambi i licenziamenti, quello collettivo e quello individuale per giustificato motivo oggettivo, costituiscono un atto di recesso del datore di lavoro dal rapporto di lavoro determinato da ragioni economiche e produttive e non, quindi, da motivi inerenti la persona del lavoratore.
In altri paesi, come la Francia, si parla di licenziamenti per motivi economici; locuzione quest’ultima che sembra più corretta sotto un profilo lessicale, rispetto alla formula “licenziamento economico” che è obiettivamente generica. Proprio dal code du travail francese art. L 1233-3 traiamo la definizione di licenziamento per motivi economici, in negativo, come “licenziamento non inerente la persona del lavoratore” ed, in positivo “licenziamento dipendente da difficoltà economiche e/o innovazioni tecnologiche”.
La locuzione “licenziamento economico” nella legge delega 183/2014 e l’equazione licenziamento economico = no reintegra ha una spiegazione ed un effetto immediato nell’impatto sociale (cd law in action).
La spiegazione è che il diktat della legge delega, con la chiara esclusione di ogni forma di reintegra per i licenziamenti “economici”, risponde alla pressione della Governance economica europea che, da anni, richiedeva al governo italiano di modificare la vigente legislazione in materia di licenziamento sul presupposto che la realizzazione di riforme del mercato del lavoro possa ridurre il lavoro sommerso ed aumentare la partecipazione al mercato del lavoro. Ed in effetti, in relazione alla disciplina dei licenziamenti, la Commissione, già nel Libro Verde del 2006, ha rivolto pressanti inviti alle riforme in tema di licenziamento soprattutto riguardo al licenziamento economico .
La soluzione adottata dal legislatore italiano ha, dunque, un suo antecedente specifico nel libro verde della commissione CE 2006 e nelle tesi di alcuni economisti francesi che considerano l’imprevedibilità della decisione giudiziale, in materia di licenziamento per motivi economici, una remora per i datori di lavori ad assumere personale.
Se, dunque, la legge delega n. 183/2014 chiude un percorso costellato dai pressanti inviti della commissione Europea a modernizzare il diritto del lavoro ed escludere la reintegra nel posto di lavoro per i licenziamenti economici, già iniziato con la riforma del mercato del lavoro del 2012 (legge 2012/92), dall’altro lato, la nitida indicazione della legge delega del 2014 costituisce un indubbio invito ai datori di lavoro a scegliere comunque la strada del licenziamento economico per essere al riparo dall’eventualità della reintegra. L’effetto della legge 183/2014, in altri termini, è un incentivo ad optare, comunque, per la qualificazione del licenziamento in termini di licenziamento “economico”.
Tuttavia accanto alla law in action esiste pur sempre il sistema (law in the code).
Se la legge delega stabilisce l’equazione licenziamento economico = no reintegra, occorre porsi la domanda se la totale carenza del motivo economico possa comportare le stesse conseguenze di un licenziamento economico ingiustificato.
In linea generale può affermarsi che il principio di effettività che caratterizza la tutela del lavoratore, in ragione della inderogabilità delle norme in materia di lavoro, determina la necessità che l’interprete privilegi la ragione sostanziale rispetto all’ aspetto formale.
Pur essendo ovviamente riservata al datore di lavoro la motivazione del licenziamento, non è consentita un’operazione di auto qualificazione del licenziamento per scegliersi la tutela meno gravosa a prescindere dalla sostanza dell’atto, vale a dire dalla vera ragione giustificatrice del licenziamento e invadere l’area del giustificato motivo oggettivo con un licenziamento, ad esempio, ontologicamente disciplinare.
Ciò è tanto più evidente nel momento in cui non solo sono stati introdotti nell’ordinamento giuridico vari tipi di sanzioni in relazione alle diverse ipotesi di illegittimità del licenziamento, dalla legge di riforma del mercato del lavoro 2012, ma è stato previsto dalla successiva legge delega 2014/183, “il divieto” di reintegra per il licenziamento economico.
Né è ipotizzabile la inclusione nella nozione di giustificato motivo oggettivo della previsione di un evento futuro idoneo a determinare il recesso per ragioni economiche atteso che, secondo la giurisprudenza costante di legittimità, il giustificato motivo oggettivo deve riguardare circostanze attuali e non future .
Sul punto non può concordarsi con la tesi, espressa in uno dei primi commenti all’ordinanza di rimessione alla corte costituzionale, che ravvisa nel giustificato motivo oggettivo una “perdita attesa superiore a una soglia prestabilita” che implica il riconoscimento che, salvi i casi di crisi aziendale gravissima e quindi immediatamente evidente, il g.m.o. non è suscettibile di prova giudiziale in senso proprio, perché è costituito da un evento futuro; e un evento futuro non può mai essere oggetto di prova, né documentale né testimoniale.
Il giustificato motivo oggettivo, secondo l’attuale disciplina, così come interpretata dal diritto vivente, non può riguardare eventi futuri e mere previsioni ma deve riguardare, per essere considerato legittimo, una scelta organizzativa attuale.
A ben guardare l’interpretazione giurisprudenziale del giustificato motivo oggettivo come riferito ad eventi attuali di natura organizzativa e produttive e non a previsioni ed eventi futuri deriva direttamente dal principio di necessaria giustificazione di ogni recesso come contrapposto al principio di libera recedibilità di cui si è tratto nel paragrafo 2.
Si concorda pienamente sul fatto che le circostanze future non possano essere oggetto di prova né testimoniale né documentale, ma in un contesto in cui è preclusa la libera recedibilità, la previsione di un evento futuro ed incerto non può giustificare un licenziamento per g.m.o perché si finisce per dar luogo ad un recesso equiparabile, sul piano giuridico, ad una scelta rimessa alla pura volontà del datore di lavoro, tornando tendenzialmente al principio civilistico di libera recedibilità che già dal 1965, secondo la Corte costituzionale, non costituisce un principio generale del nostro ordinamento.
L’eventuale carenza totale del motivo economico può comportare, dunque, la qualificazione del licenziamento come non economico.
L’ipotesi è quella che di fronte alla carenza radicale di un motivo economico serio che sorregga il licenziamento, questi perda la sua natura di licenziamento economico - per motivi economici, per dirla alla francese, e si trasformi in un licenziamento nullo perché inerente la persona del lavoratore e non più sorretto dal motivo economico.
D’altro canto la tesi degli economisti francesi e del pensiero di law and economics che si è tradotto nel “divieto” di stabilire la reintegra per i licenziamenti economici è, appunto, quello di evitare che il datore di lavoro, nel compiere modificazioni o decisioni riguardanti la sua impresa, trovi ostacolo nelle lungaggini delle decisioni giudiziarie. Ma quegli stessi autori non mettono in dubbio che non può aversi un finto licenziamento economico che giustifichi l’assenza di vaglio giudiziario . Sicché la successiva proposizione logica a tale affermazione dovrebbe comportare una differenza di sanzione tra il licenziamento economico vero e quello finto.
Se tale ipotesi può avanzarsi in astratto, e potrebbe alla lunga incidere sul diritto vivente (inteso come interpretazione consolidata della Corte di cassazione), che si formerà sul Jobs act, nel caso concreto del procedimento pendente innanzi al giudice del Tribunale di Roma, il giudice remittente, in assenza di una domanda relativa alla nullità del licenziamento di reintegra nel posto di lavoro, di allegazioni sulla natura ontologicamente disciplinare del licenziamento e/o discriminatoria, non avrebbe potuto verosimilmente dar luogo ad una qualificazione diversa da quella del licenziamento economico e accedere ad una qualificazione del fatto in termini di licenziamento inerente la persona del lavoratore. Il principio della rilevabilità di ufficio di ipotesi di nullità va coordinato con il principio dispositivo e della domanda fissato dagli artt. 99 e 112 c.p.c come spesso affermato dalla giurisprudenza .
Ma soprattutto ad impedire, allo stato, un’interpretazione del genere di quella sopra prospettata è proprio la legge delega e la differenza tra la legge del 2012 e la riforma del 2014-2015 che consiste proprio, quanto ai licenziamenti economici (sia per giustificato motivo oggettivo che collettivi), nella esclusione della reintegra anche nei casi di manifesta insussistenza del fatto, come sarà più ampiamente analizzato nel paragrafo successivo: il giudice non poteva ignorare quanto prescritto dalla nuova legge e avventurarsi in un’operazione interpretativa creativa sulla base della legge del 2012, inapplicabile ai nuovi assunti. E, d’altro canto, nel nostro ordinamento non è dato al giudice decidere secondo il fatto, sia pure così suggestivo come quello del caso sottoposto al giudice di Roma. Il giudice deve decidere secondo legge per realizzare la calcolabilità giuridica che è un tratto ispiratore, tra l’altro, della riforma del jobs act.
Il Jobs act nasce, quanto al regime sanzionatorio dei licenziamenti, anche come reazione all’eccessiva discrezionalità del giudice prevista dalla legge di riforma del mercato del lavoro del 2012 e, quindi, con un’ottica di semplificazione di una disciplina, quella della riforma del mercato del lavoro del 2012, apparsa a molti troppo complessa.
Anche sotto tale profilo la motivazione dell’ordinanza del tribunale di Roma riportata alla nota 15 appare pienamente condivisibile. L’interpretazione del giudice non può spingersi fino al punto di obliterare il diritto vigente , tenuto conto dell’art. 101 della Cost e del sistema di soggezione del giudice alla legge che consente unicamente decisioni secondo la legge e non secondo il precedente, il fatto o i valori .
Resta dunque la considerazione che la legge delega costituisce un incentivo a ricorrere al licenziamento economico e tale effetto sembra concretizzarsi in casi come quello portato davanti al giudice del tribunale di Roma, lavoratrice assunta nel maggio 2015 e licenziata nel dicembre 2015 senza alcun motivo economico dedotto.
Il giudice si è, dunque, trovato di fronte all’alternativa di condannare il datore di lavoro alle 4 mensilità o sollevare la questione di costituzionalità.
Il nodo principale che dovrà sciogliere la Corte Costituzionale non riguarda tuttavia l’entità in sé della sanzione stabilita dalla legge delle 4 mensilità di retribuzione, ma la circostanza che nell’ordinamento esiste un’altra forma di tutela per la stessa illegittimità molto più forte che è quella prevista dalla legge 28.6.2012 n. 92.
6. Art. 3 COST. Le differenti discipline di tutela dal licenziamento economico illegittimo: legge 2012 /92 e Jobs act a confronto, anche in relazione alle altre norme della costituzione richiamate nella ordinanza.
Il principio di uguaglianza richiede trattamento uguale rispetto a situazioni uguali e trattamento diverso rispetto a fattispecie diverse.
Qualche autore afferma che la previgente disciplina dell’art. 18 Statuto, nel testo originario, prima della legge di riforma del mercato del lavoro del 2012, offriva una tutela non ragionevolmente indifferenziata delle varie ipotesi di illegittimità da esso previste, di talché poteva fruire della stessa tutela il lavoratore licenziato per una banale ragione formale, come, ad esempio, il mancato rispetto, seppure di poco, di un termine a difesa in caso di licenziamento disciplinare e, allo stesso modo, il lavoratore oggetto della più pesante e conclamata discriminazione.
La legge di riforma del mercato del lavoro ha certamente avuto il merito di introdurre molte diverse tutele consentendo un’ampia – secondo taluni eccessiva – discrezionalità del giudice.
Relativamente ai licenziamenti “economici”, oggetto del diktat della commissione Europea, la riforma del 2012 ha cercato di differenziare la tutela e, pur intaccando il precedente regime di reintegra indifferenziata in caso di illegittimità del licenziamento economico, per recepire le tesi sulla modernizzazione del diritto del lavoro, ha introdotto un’importante differenziazione.
In particolare, per il caso del licenziamento per giustificato motivo oggettivo è prevista, nella legge 2012/92, la ipotesi di manifesta insussistenza del fatto.
La fattispecie del licenziamento per manifesta insussistenza del fatto previsto dalla legge Fornero, quanto al giustificato motivo oggettivo, risponde bene nelle ipotesi di totale inconsistenza del motivo economico e si ricollega proprio alle teorie di law and economics che stanno alla base della tesi per cui nessuno meglio dell’imprenditore può stabilire per quale ragione assumere o licenziare i lavoratori e non è il caso che i giudici mettano il becco su faccende relative alle dimensioni e all’organizzazione dell’impresa.
La legge 28.6.2012 n. 92 risponde alla tesi sopra enunciata eliminando sostanzialmente la reintegra nei licenziamenti economici, ma al tempo stesso scoraggiando comportamenti arbitrari del datore di lavoro. L’ ipotesi del 5° comma dell’art. 18 Statuto, come modificato dalla riforma del 2012, con tutela meramente indennitaria, senza reintegra si verifica in tutti i casi in cui vi è un difetto di giustificazione del licenziamento per giustificato motivo oggettivo, per mancata prova dell’obbligo di repechage, oppure perché il motivo addotto sussiste ma non è tale da potersi considerare un giustificato motivo, alla luce della giurisprudenza maturata sul punto. Ed è prevista, in tali casi, la tutela indennitaria e, quindi, solo economica anche se ben più cospicua di quella prevista per i lavoratori poco anziani dal Jobs act.
Ma quando il motivo economico addotto non esiste, si ricade nella ipotesi eccezionale della cd tutela reintegratoria debole di cui al 4° comma, dell’art. 18 novellato dalla riforma del 2012 con reintegra ed un massimo di 12 mensilità di retribuzione, applicabile al licenziamento per giustificato motivo oggettivo.
Nel caso in cui non vi sia un difetto di giustificato motivo oggettivo, ma una totale assenza di esso, la ipotesi di recesso, nella previsione della riforma del 2012, perde il collegamento con ragioni economiche derivanti dalla gestione dell’impresa e si colloca in prossimità concettuale ai licenziamenti adottati per motivi inerenti la persona del lavoratore.
In altri termini, se una ragione economica oggettiva non vi è per nulla, il recesso viene ad assumere connotati del tutto diversi da quelli del licenziamento economico e ciò spiega e rende razionale e bilanciata la scelta legislativa del 2012 di adottare una sanzione simile, anche se non identica, a quella prevista per i licenziamenti discriminatori.
Analoghe considerazioni possono farsi per i licenziamenti collettivi in quanto il vizio relativo ai criteri di scelta comporta la tendenziale assimilazione del licenziamento economico collettivo a quello per motivi inerenti la persona del lavoratore.
In definitiva nel nostro sistema esiste una disciplina dei licenziamenti economici, con previsione residuale della reintegra, che risponde razionalmente alle esigenze di modernizzazione del diritto del lavoro senza tuttavia dar luogo ad un regresso sbilanciato delle tutele del lavoratore.
La razionalità della scelta di introdurre la reintegra in tutte le ipotesi in cui il licenziamento economico e, quindi, per ragioni oggettive non sia tale ma riveli una considerazione della persona del lavoratore appare di palmare evidenza, per la prossimità tendenziale al licenziamento discriminatorio.
Ora nel caso sottoposto al giudice del Tribunale di Roma si tratta proprio di manifesta insussistenza del motivo economico che, tuttavia, non consente al giudice di trattare il licenziamento alla stregua di un licenziamento non economico per le carenti allegazioni e l’assenza di domanda, oltre che per la ragione fondamentale che la legge delega esclude in materia rigida e tassativa la reintegra per i licenziamenti economici, come si è già detto.
In tale contesto, pur non volendo condividere la tesi espressa dal giudice remittente della irrazionalità della entità della sanzione che contrasta, per la sua pochezza, con la tutela del lavoro ed il principio di uguaglianza, non può non colpire il fatto obiettivo che, in identica situazione di fatto, se il lavoratore fosse stato assunto il 3.3.2015, avrebbe goduto di una tutela molto più intensa.
La disparità di trattamento è data proprio dalla coesistenza di diversi regimi di tutela unicamente collegati alla data di assunzione.
Pur volendo aderire alla tesi avanzata da P. Ichino per cui la sanzione in sé non è irrisoria, tenuto conto che si tratta di una lavoratrice che ha lavorato per soli 5 mesi e considerato che anche negli altri paesi europei non è prevista una tutela indennitaria così forte , occorrerà, comunque, scrutinarne, sotto il profilo della razionalità, l’adeguatezza e la congruità nel paragone con quella garantita, in identica fattispecie, ai lavoratori dalla Riforma del Mercato del lavoro del 2012.
Il trattamento deteriore previsto per “i nuovi” lavoratori non sembra giustificato.
La data di assunzione non sembra elemento idoneo ad evitare la “rottura dell’interna coerenza dell’ordinamento giuridico”, secondo quanto si è già indicato al paragrafo 3.
In decisione recente della Corte Costituzionale relativa alla destituzione dei dipendenti dell’arma dei carabinieri è stato affermato che la disciplina censurata viola il principio di uguaglianza, in quanto sottopone a un ingiustificato trattamento deteriore l'appartenente all'Arma dei carabinieri, in caso di condanna, rispetto ai dipendenti dello Stato e di altre amministrazioni pubbliche.
La comparazione tra i due regimi rende la sanzione stabilita dal Jobs act anche contrastante con le fonti comunitarie ed internazionali richiamate nell’ordinanza di rimessione. Il giudice remittente, molto opportunamente, nel dispositivo richiede alla Corte Costituzionale lo scrutinio degli art. 3,4,76 e 117 cost. letti autonomamente ma anche in combinazione tra di loro.
La sanzione di 4 mensilità, oltre ad essere obiettivamente non di entità cospicua, non appare né adeguata secondo l’art. 30 della Carta di Nizza (che impone agli Stati membri di garantire una adeguata tutela in caso di licenziamento ingiustificato); né appropriata ai sensi della convenzione ILO n. 158/1982, né congrua ed adeguata secondo l’art. 24 della carta sociale europea, soprattutto se raffrontata con la sanzione prevista in identiche fattispecie per i lavoratori “anziani” dalla legge del 2012.
Ed è quindi ancora una volta l’art. 3 cost che dà corpo alle violazioni indicate dal giudice degli artt. 76 e 117 Cost. tenuto conto che sempre il comma 7 dell’art. 1 legge 183/2014 detta il criterio al legislatore delegato di agire in coerenza con la regolazione dell’Unione Europea e le convenzioni internazionali.
Per l’altro licenziamento economico, quello collettivo (disciplinato dagli artt. 3 e 10 del DLVO 23/2015), interamente regolato da normativa europea, l’entità della sanzione prevista dal decreto legislativo 23/2015 e la coesistenza delle diverse tutele dal licenziamento illegittimo per i lavoratori già in servizio al 7.3.2015 determina l’assenza delle caratteristiche previste dalla Corte di Giustizia per le sanzioni in caso di violazioni del diritto comunitario. Sin dalla sentenza C-383/92 dell’8.6.1994 la Corte di Giustizia ha elencato le caratteristiche che deve avere una sanzione stabilita dal diritto interno, per essere compatibile con il diritto comunitario .
La necessaria presenza di efficacia dissuasiva ed idonea a garantire effettività nel rispetto del principio di equivalenza rispetto a situazioni analoghe delle misure dirette a sanzionare violazioni delle norme comunitarie (e tali sono tutte quelle che disciplinano il licenziamento collettivo) è del resto affermato innumerevoli volte dalla Corte di Giustizia .
E’ evidente che l’esistenza di due categorie di lavoratori assunti prima e dopo il 7 marzo 2015 con differenti tutele in caso di licenziamento non solo non conferisce alcuna capacità dissuasiva alla sanzione per i licenziamenti collettivi illegittimi, ma la oggettiva entità diversa della sanzione per il licenziamento collettivo relativamente agli assunti dopo il 7.3.2015 potrebbe addirittura innescare meccanismi discriminatori incentivando il licenziamento proprio dei lavoratori più giovani o indurre comportamenti discriminatori e non oggettivi nella scelta dei lavoratori da licenziare nei licenziamenti collettivi.
Tali considerazioni riguardano direttamente solo il licenziamento collettivo che è interamente disciplinato dalle norme comunitarie, che, proprio per la derivazione comunitaria di tutte le norme che lo disciplinano, non era originariamente compreso nella riforma del 2014-2015 o quantomeno è stato oggetto di forti richiami in sede di lavori preparatori al decreto legislativo 23/2015 .
7. segue Art. 3 cost. Tutela dell’affidamento, non discriminazione, ragionevolezza. Gli automatismi legislativi.
Il principio di tutela dell’affidamento e la costante affermazione della giurisprudenza costituzionale in tema di riforme che non si applicano ai rapporti già in corso risultano sicuramente rispettati dal Jobs act. Tuttavia ciò non è ovviamente sufficiente ad escludere la violazione dell’art. 3 Cost.. e degli altri principi costituzionali richiamati.
Come si è già detto, ma conviene ripeterlo visto che i fautori della compatibilità costituzionale del jobs act hanno il faro acceso solo su questo principio e tengono in ombra tutto il resto, la diversità di tutele, a seconda della diversa data di assunzione, prima o dopo il 7.3.2015, rispetta il profilo della tutela dell’affidamento, spesso indicato dalla Corte costituzionale come corollario dell’art. 3 Cost; indubbiamente il legislatore del 2014-2015 si è posto il problema che un’eventuale estensione indifferenziata del nuovo regime di tutela dal licenziamento illegittimo, se avesse colpito tutti i rapporti di lavoro subordinato, poteva creare problemi sotto il profilo della tutela dell’affidamento.
Sotto tale aspetto certamente si è tenuto conto, nella riforma del 2014-2015, della giurisprudenza costituzionale sugli interventi legislativi nei rapporti di durata e si è scelto di limitare la riforma ai nuovi rapporti di lavoro. Il problema di compatibilità costituzionale in materia di interventi legislativi sui rapporti di durata si è presentato, ad esempio, in tema di limiti massimi di entità della retribuzione in rapporti di lavoro di determinati settori .
Non è pertanto invocabile, né, d’altra parte, è stato richiamato dal giudice remittente il profilo della tutela dell’affidamento.
Se il profilo di tutela dell’affidamento nei rapporti di durata avalla la scelta legislativa di applicare il nuovo regime solo ai nuovi rapporti di lavoro sorti dopo la sua entrata in vigore, vi sono altri aspetti del principio di uguaglianza che vengono in considerazione e che sembrano compromessi dalla scelta legislativa.
In primo luogo se il contratto a tutele crescenti identificasse un nuovo modello di contratto di lavoro subordinato a tempo indeterminato, come era nelle originarie intenzioni del legislatore, diretto a superare il dualismo del mercato del lavoro, tra insider ed outsider , non vi sarebbe stato problema di violazione del principio di uguaglianza perché la disciplina del contratto di lavoro subordinato sarebbe stata differenziata giuridicamente con conseguente esclusioni di arbitrari livellamenti di situazioni diverse .
Il riferimento è ai tanti disegni di legge e, soprattutto a quello Boeri e Garibaldi sul contratto unico a tutele progressive cui fa cenno anche il giudice remittente quando richiama la temporaneità della regressione di tutela da licenziamento illegittimo.
La scelta legislativa è stata invece, quella di non modificare il contratto di lavoro subordinato a tempo indeterminato e di intervenire solo sui licenziamenti stabilendo tutele crescenti riguardanti unicamente la crescita della indennità risarcitoria per il licenziamento illegittimo con l’anzianità di servizio.
La soluzione legislativa risponde all’esigenza di garantire la prevedibilità da parte dell’imprenditore del costo del licenziamento sottraendola a scelte variabili della giurisdizione.
Tuttavia la scelta legislativa guidata anche dallo scopo di rafforzare le opportunità di ingresso nel mondo del lavoro da parte di chi è in cerca di un’occupazione (art. 1 comma 7 legge 183/2014) e di favorire l’occupazione stabile dei giovani potrebbe paradossalmente creare un effetto discriminatorio in ragione dell’età oltre a presentare profili di irragionevolezza e sproporzione rispetto all’obiettivo sopra indicato.
Gli assunti dopo il 7.3.2015 che vengono illegittimamente licenziati presto con minore anzianità di servizio e, quindi, destinatari di indennità più basse sono con molta probabilità proprio statisticamente i più giovani provenienti dal bacino degli esclusi dal lavoro, i cd outsider.
La tutela obiettivamente meno intensa del posto di lavoro, li rende soggetti più deboli e, quindi, più facilmente oggetto di provvedimenti di recesso da parte del datore di lavoro e potrebbe orientare anche le scelte nei licenziamenti collettivi come osservato dai primi commentatori della riforma del 2015.
Ed è proprio il criterio rigido ed unico del calcolo della indennità risarcitoria in funzione automatica dell’anzianità di servizio, senza alcuna possibilità di modulazione e di valutazione di altri criteri, che dà luogo a discriminazione, in quanto, verosimilmente, i più giovani sono assunti dopo il 7.3.2015 e per quelli che vengono licenziati subito, come la lavoratrice del giudizio sospeso in attesa della decisione della Corte, potrebbe crearsi una discriminazione indiretta per ragione di età in violazione della direttiva 2000/78 e del principio generale del diritto comunitario che vieta le discriminazioni in ragione dell’età.
Il jobs act che doveva servire, nelle intenzioni del legislatore, a favorire la conclusione di contratti stabili di lavoro per i cd outsider ed i giovani, spesso assunti a termine, potrebbe paradossalmente dar luogo a risultati molto diversi dalle intenzioni del legislatore come dimostra la vicenda concreta del licenziamento della lavoratrice a distanza di soli sette mesi dall’assunzione. Quasi un contratto a tempo determinato con la differenza che, avendo concluso un contratto di lavoro subordinato a tempo indeterminato, l’impresa ha potuto godere degli sgravi contributivi per 36 mesi previsto dalla legge n. 190/2014.
Va, dunque, considerato l’aspetto della congruità e proporzionalità di una scelta legislativa così rigida, rispetto all’obiettivo di rivitalizzare il mercato del lavoro e favorire l’occupazione.
Sotto il profilo della ragionevolezza, l’art. 3 cost è stato ritenuto violato in una norma relativa a versamenti richiesti alla Cassa Previdenza dottori commercialisti per l'incongrua scelta di sacrificare l'interesse istituzionale della CNPADC (cassa nazionale Previdenza assistenza dottori commercialisti) ad un generico e macro economicamente esiguo impiego nel bilancio statale.
I dati provenienti dall’ISTAT in questi giorni sul perdurante massiccio ricorso al contratto a tempo determinato confermano che il Jobs act non sembra neppure aver raggiunto quel risultato di favorire l’occupazione stabile dei più giovani, realizzando così un modesto risultato sotto il profilo dell’incentivo dell’occupazione rispetto alla precedente riforma del mercato del lavoro del 2012.
Va poi sottolineato che vi è accordo quasi unanime della dottrina sul fatto che le norme giuridiche non creano posti di lavoro .
Altro aspetto che riguarda l’art. 3 Cost concerne l’automatismo risarcitorio collegato unicamente all’ anzianità di servizio.
Se come si è visto il principio di uguaglianza richiede trattamento uguale per situazioni uguali e trattamenti differenziati per situazioni diverse, è evidente che qualora la legge non consenta al giudice l’adeguamento della sanzione alla fattispecie concreta si crea una rigidità che impedisce il rispetto concreto del principio di uguaglianza.
Quando la tutela è unicamente offerta dalla sanzione economica, come nel caso dei licenziamenti illegittimi economici, appare norma bilanciata quella che consente al giudice di calibrare il quantum del risarcimento alla vicenda concreta.
Non sembra invece rispondere ad un criterio di ragionevolezza una norma che stabilisce la progressione solo in funzione dell’anzianità di servizio.
La Corte costituzionale, sovente, sottopone al vaglio di ragionevolezza gli “automatismi legislativi”, vale a dire quelle previsioni che al verificarsi di una data evenienza ricollegano una conseguenza giuridica predeterminata e inderogabile. Sempre più frequentemente la Corte costituzionale dichiara l’illegittimità costituzionale delle disposizioni legislative che contengono tali “automatismi”, in particolare quando esse sono formulate in modo tale da non permettere al giudice (o eventualmente alla pubblica amministrazione) di tenere conto delle peculiarità del caso concreto e di modulare gli effetti della regola in relazione alle peculiarità della specifica situazione .
Ed anche qui deve richiamarsi la ben diversa situazione dei lavoratori “anziani” per i quali è invece prevista la possibilità per il giudice di graduare la sanzione per il licenziamento illegittimo in base al caso concreto. La legge deve riconoscere la sua impotenza a regolare il fatto concreto e, quindi, deve lasciare al giudice un margine di discrezionalità nell’adeguare la sanzione al caso concreto così come del resto avviene per i licenziamenti economici dei lavoratori “anziani”( assunti prima del 7.3.2015) ove è prevista, nella legge di riforma del mercato del lavoro 2012, qualora non vi sia la reintegra, un'indennità risarcitoria onnicomprensiva determinata tra un minimo di dodici e un massimo di ventiquattro mensilità dell'ultima retribuzione globale di fatto, in relazione all'anzianità del lavoratore e tenuto conto del numero dei dipendenti occupati, delle dimensioni dell'attività economica, del comportamento e delle condizioni delle parti, con onere di specifica motivazione a tale riguardo.
Ancora una volta il tertium comparationis rende piuttosto evidente la carenza di ragionevolezza delle nuove norme che stabiliscono rigidamente il crescere della indennità risarcitoria di due mensilità per ogni anno di servizio.
La rigidità del meccanismo fissato dall’art. 3 del DLVO 2015/23 è in funzione della necessità delle imprese di conoscere il costo del licenziamento e costituisce una reazione ai costi eccessivi del passato dovuti anche alla durata dei processi ed al meccanismo rigido della reintegra nel posto di lavoro previsto dall’originaria norma dell’art. 18 statuto. Tuttavia essa era già stata modificata dalla riforma del mercato del lavoro del 2012 che ha previsto anche un rito accelerato per le controversie in materia di licenziamento; rito che ha raggiunto il risultato di abbattere i tempi del processo e diminuire di molto le cause di impugnativa di licenziamento. Tale diminuzione oggettiva deve ascriversi, del resto, ad una serie di riforme tra cui l’art. 32 della legge 183/2010 cd collegato lavoro del 2010 che ha introdotto il doppio termine di decadenza.
Il quadro legislativo complessivo ed i risultati già raggiunti sull’abbattimento dei tempi del processo forse avrebbero dovuto costituire un freno ad ulteriori interventi riduttivi delle tutele dei lavoratori.
Conclusioni
La Corte è quindi chiamata a compiere una decisione che terrà conto della complessità di principi che figurano nella costituzione e che riguarderà, anche da una parte, le ragioni dell’impresa e, dall’altra, quelle dei lavoratori.
Pur non richiamato nell’ordinanza di rimessione, il convitato di pietra della vicenda è l’art. 41 cost. primo comma che tutela la libertà di iniziativa economica privata; norma da sempre collegata al tema del licenziamento economico ; sull’altro piatto della bilancia vanno posti gli artt.4 e 35 Cost. che, peraltro, non riguardano solo le ragioni dei lavoratori occupati ma anche le politiche di inclusione dirette a favorire l’ingresso nel mercato del lavoro e l’accesso dei giovani al lavoro con rapporto di lavoro stabile.
Il problema è che non è chiaro per nulla se il regresso di tutele favorisca l’inclusione stabile degli outsider e qualche dato statistico sembra smentire questa tesi e dare ragione a quella dottrina sopra richiamata, che afferma che il diritto non crea occupazione.
Sul bilanciamento tra ragioni dei lavoratori e dell’impresa si fonda, a sua volta, il principio giustificativo di ogni forma di recesso che si è visto costituire un argine indiscusso alla discrezionalità del legislatore.
La decisione della Corte, pur tenendo conto del complesso quadro di principi finirà, soprattutto in caso di sentenza di rigetto o accoglimento, per applicare un principio piuttosto che un altro. Mentre infatti il bilanciamento tra i principi costituzionali è tipico dell’attività legislativa, nelle decisioni della Corte, tendenzialmente il risultato finale del bilanciamento è una scelta che consente ad un principio di prevalere su un altro in quella specifica decisione.
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