TESTO INTEGRALE CON NOTE E BIBLIOGRAFIA
1. – Premessa. Il bel libro di Stefano Giubboni già nel titolo - “Anni difficili. I licenziamenti in Italia in tempi di crisi” - ci riporta in un baleno in un passato tutt’ora vivo: in quegli anni infuocati che a partire dalla metà degli anni ’60 fino alla fine degli anni ’70, sono dai più ricordati come l’ἀρχή di quelle branche del diritto che si riscontrano nel diritto del lavoro e nel diritto sindacale odierno.
Allora come oggi il ceto imprenditoriale viene chiamato in causa.
Allora ha reagito ai picchettaggi, alle reintegrazioni forzose sul posto di lavoro in forza dell’art. 18 Statuto Lavoratori, ovvero alle reintegrazioni di migliaia di dipendenti in forza dell’art. 28 della stessa Legge sotto la forte spinta delle OO. SS. sostenute dai cosiddetti Pretori d’assalto.
Oggi, gode, come ricorda Giubboni “della resa dei conti – tutta politica e ideologica – da molto tempo ricercata e agognata da larghi strati del nostro ceto imprenditoriale, che ha solo dovuto aspettare il momento politicamente più propizio per l’attesa rivincita: momento che finalmente è arrivato, prima, con il Governo “tecnico” di Mario Monti e, poi, soprattutto, grazie a quell’irripetibile congiunzione astrale che per un composito coagulo d’interessi si è rivelato il Governo presieduto da Matteo Renzi”.
E qui occorre subito precisare che la battaglia circa l’abolizione della tutela reintegratoria dell’art. 18 è stata, tutto sommato, una distrazione di energie su un falso problema: il rilancio del Paese, come ancora scrive Giubboni “deve passare dalla ritrovata centralità del lavoro: quindi dei suoi diritti e delle sue giuste tutele, che non sono evidentemente in contrasto con le ragioni dell’impresa”.
Ora, per un’indagine che si proponga di esprimere un giudizio di valore sulle ultime riforme intervenute a regolare il mercato del lavoro, è imprescindibile un confronto con le categorie date dal rapporto fra economia e diritto. Rapporto che è reso ancora più delicato dalla sempre più evidente complessità delle attuali organizzazioni sociali e conseguente frammentazione specialistica delle competenze individuali e delle elaborazioni dottrinali .
2. – Il ruolo dell’economica nel diritto. Data la portata dell’intervento del legislatore sulle vicende del Paese, si ritiene che lo stesso venga, almeno tradizionalmente ed almeno in parte, attuato per mezzo di un disegno etico. Quest’ultimo da intendersi nel suo significato più diffuso e ampio di complesso normativo di principi che regolano la condotta umana .
Nell’etica, alle soglie del xx secolo, ha fatto ingresso il tema economico. Croce ebbe a sottolineare con riguardo alle precedenti correnti positivistiche che “Allorché ogni soluzione che si tenti di un dato problema si rivela contradittoria, e il problema tuttavia permane, è da supporre, tra l’altro, che non si posseggano tutti i principii necessari per la soluzione. Ed io ho mostrato, in altri miei lavori, quale sia il principio di essenziale importanza, che, a mio parere, è mancato finora alla filosofia pratica. É il principio economico” .
Dunque, la scienza economica passa così dall’essere scienza descrittiva a scienza filosofica, come avvenuto secoli prima con le scienze dell’estetica e della morale. Ciò ha più importanza pratica di quanto si possa pensare. Come anticipato da Hegel nella celebre nota al § 189a , l’economica diviene ciò che Kant aveva espressamente escluso: principio etico universalis e, dunque, criterio di azione – almeno potenzialmente – in qualsiasi attività umana .
Si pone dunque il problema dei rapporti fra diritto ed economia.
Tale conclusione trova conferma, oltre che in Croce, anche in Capograssi che ebbe a sottolineare come “la vita economica raggiunge i suoi fini, in quanto il diritto le presta le sue forme e le sue forze” .
3. – Il problema dell’economica del diritto. Dette considerazioni giustificano nell’ambito civilistico e – più in particolare giuslavoristico – l’introduzione dell’economica quale argomentazione giuridica che, trattando degli effetti economici della norma, ne vada ad enucleare la ratio ovvero l’intentio legislatoris e la conseguente giustificazione in termini di effettività ed efficacia. La particolarità del metodo sta appunto nell’utilizzo di nozioni economiche, per esprimere un giudizio di valore sulle norme di diritto .
Tali processi vengono comunemente individuati nell’Economic Analysis of Law, della Scuola di Chicago e Richard Posner in particolare; ovvero nella meno consequenzialista Law and Economics, della Scuola di Yale con Guido Calabresi .
Ma che si tratti di Economic Analysis of Law ovvero di Law and Economics, nulla significano tali espressioni, se non sia ben chiaro all’interprete di quale analisi e di quale economica si stia ragionando. Difatti, vi sono molte analisi e molte economiche suscettibili di applicazione in tale campo.
Eppure, sul punto si registra spesso un’ambiguità di fondo da ricondursi all’errata convinzione che l’oggetto di studio dell’economica contempli il solo dato monetario, prescindendo dalle sue implicazioni morali od esistenziali .
Sul filo di tale concezione si basa il modello ancora largamente seguito dell’homo oeconomicus. Trattasi di una teoria che descrive il comportamento dell’uomo secondo una razionalità perfetta ed un egoismo inscalfibile . Detta concezione ha condotto molti giuristi ad avvalersi spesso di un argomento economico intriso dei (soli) concetti di utilità attesa e di costi-benefici. Rientra fra tali argomenti l’Analisi Costi-Benefici (ACB), che consiste nel valutare le norme, confrontando i loro benefici ed i loro costi espressi esclusivamente come grandezze monetarie . Il giudizio di valore che si trae da tale analisi, dipenderà dal fatto che il beneficio prodotto sia superiore, minore o eguale al suo costo . Si tratta di un modello di comportamento economico a razionalità pura, sintetizzato dalle più elementari curve di costo-opportunità.
Ma è proprio il presupposto per cui i benefici ed i costi di un intervento possano essere misurati in base alle quantità di moneta a rappresentare il limite del modello .
Infatti, non vi è alcuna legame fra i concetti di utilità e di costo, con quelli di egoismo ed humanitas oeconomica. Nondimeno, l’esperienza dottrinale sin qui sviluppata ha riscontrato come sia impossibile isolare nell’homo uno o più homunculi, facendo sì che l'uomo si arresti al puro homo oeconomicus.
Infatti, l’homo oeconomicus, l’homo juridicus, l’homo philosophicus e l’homo faber non sono che una pura astrazione che non può rendere giustizia alle complessità biologiche, psicologiche e sociali che rendono l’uomo e le sue azioni umane.
Di conseguenza anche in ambito economico, sono state sollevate obiezioni che hanno sottolineato sia la limitatezza della razionalità umana nel processo decisionale sia la presenza di ulteriori criteri di azione oltre la massimizzazione della propria ricchezza (bisogni morali, sociali etc.).
Inoltre, si è ampiamente sperimentato che l’uomo risulta influenzato da corto-circuiti cognitivi , pregiudizi ed elementi di contesto che lo portano a preferire una veloce e semplice soluzione a scelte che invece sarebbero assai complesse .
Ne consegue il fenomeno ampiamente sperimentato dall’economia comportamentale per cui l’uomo - ancorché economicamente orientato - ha la propensione a commettere molti errori di ragionamento, giudizio e decisione che vanno a scapito del suo benessere . Tali vengono chiamati dagli specialisti bias e euristiche cognitive .
Detti comportamenti, anche se non è affatto pacifico che rendano l’uomo di per sé irrazionale , rendono la sua condotta economica indubbiamente distante dal modello di razionalità perfetta di cui sopra.
In detta ottica, nella elaborazione della norma di diritto, l’applicazione delle scienze cognitive e comportamentali trova albergo come metodo di “law making” o come strumento per costruire un contesto favorevole della scelta da parte del cittadino .
Infatti, l’economia comportamentale ha posto in discussione il paradigma della razionalità , ponendo le basi per la nuova tecnica normativa dei behavioural insights (BIs). Tale corrente scientifica muove dal predetto dato empirico per cui i decisori in condizione di incertezza assumono condotte non allineate con i risultati che vorrebbero i modelli tradizionali . Così, si modellizza il comportamento delle persone incorporando nelle teorie economiche le dinamiche comportamentali . Riconosciuta dunque la fallibilità delle decisioni umane, sta all’economia comportamentale modellizzarla e incorporarla nei modelli economici, migliorando l’accuratezza degli obiettivi normativi .
Su tali differenti basi economiche il legislatore può, quindi, elaborare i propri interventi. Laddove i risultati dei modelli di economia comportamentale mostrano ampi margini per un’efficace costruzione di architetture decisionali (choice architecture) a beneficio dei cittadini, che li incoraggino cioè ad agire in modo utile a sé e agli altri . In sintesi, la choice architecture opera progettando il contesto all’interno del quale le persone sono chiamate ad esprimere le proprie preferenze, avendo a mente i processi ed i vizi cognitivi umani.
In questo senso i risultati dell’economia comportamentale sono utili prima alla costruzione degli interventi pubblici e, poi, alla loro valutazione. Infatti, queste consentono ex ante di definire le politiche normative. Ma al pari, i medesimi strumenti consentono ex post di apprezzare le relazioni causa-effetto ed il conseguente valore delle norme emanate .
Ciò sta sempre più imponendo il definitivo abbandono dell’homo oeconomicus in favore dell’homo human , puntando su leve differenti dalla fredda razionalità dei meccanismi costo-beneficio e condotta-sanzione . Ed è così che in altri Ordinamenti occidentali si è già giunti ad una tecnica legislativa che ha abbandonato la minaccia della sanzione, a favore dell’educazione, dell’informazione e della cooperazione .
4. – Concludendo sulla recente riforma c.d. Jobs Act.
Venendo, per concludere, alla riforma che il legislatore del 2015 avrebbe voluto giustificare proprio sulla base del dato economico, si è portati – alla stregua dei principi suesposti – a riscontrare che v’è invece una discrasia fra il meccanismo delle cc. dd. tutele crescenti ed i suoi auspicati effetti economici di flessibilità e competitività del mercato del lavoro.
La discrasia sta proprio nel ricorso insistente all’Analisi Costi-Benefici quale esclusiva tecnica di pianificazione e valutazione normativa in materia di politiche economiche e del lavoro, senza attenzione alcuna per il dato comportamentale che si è mostrato essere tanto rilevante quanto quello squisitamente monetario. Ciò è reso ancor più evidente dalla sempre maggiore complessità dell’organizzazione economica e sociale tipica dei paesi occidentali, ove le dinamiche aggregate sono vieppiù scarsamente controllabili e prevedibili dai singoli, ancorché investiti di pubbliche funzioni e/o osservatori scientifici qualificati . Ipercomplessità, questa, a cui le Analisi Costi-Benefici sono del tutto insensibili, al contrario di quanto, invece, può dirsi per i modelli di economia comportamentale, i quali invece si è visto che giovano proprio del dato statistico.
Ed è proprio sull’aspetto comportamentale - oltreché costituzionale - che cadono le scelte operate dal Jobs Act in materia di recesso datoriale.
Ciò è reso di particolare evidenza dal fatto che il sistema c.d. a tutele crescenti di cui al D.Lgs. 4 marzo 2015, n. 23, è ancora percepito a tutele decrescenti rispetto al dettato dell’art. 18 St. Lav., nonostante allo stato attuale preveda conseguenze monetarie (i.e. costi-benefici) almeno sul piano generale ed astratto ben più gravose, arrivando a 36 mensilità.
Infatti, il Jobs Act ha ignorato l’esigenza per il datore di una choice architecture in cui inserire le proprie scelte economiche . Ciò non è stato affatto attuato dalla riforma in parola, la quale ha lasciato una parvenza di libertà all’Imprenditore, che si è trovato tuttavia privo di un quadro normativo di riferimento che gli permettesse una ponderata valutazione delle proprie decisioni. Così il datore è emerso dalle strutture del vecchio art. 18 St. Lav., ma solo per scoprire di non saper amministrare e controllare la libertà ottenuta in materia di recesso. Il tutto con effetti talvolta anche più perniciosi di quelli previsti dalla previgente disciplina, eccedendo nel ricorso al turnover e depauperando l’invece preziosissimo capitale umano di cui dispone l’Azienda, con i conseguenti maggiori costi in termini di formazione e di dispersione del know-how.
Il Jobs Act ha dunque eliminato l’art. 18 St. Lav. per sostituirlo con nulla, se non delle indennità monetarie assai limitanti.
Così, con il superamento dell’art. 18 St. Lav., il mondo imprenditoriale del Paese si è trovato – per così dire – nell’utopia da grande tempo ritenuta auspicabile. E così si è verificato un fiorire di recessi poco soppesati dall’Imprenditore, che non hanno inciso sui concreti problemi del mercato del lavoro nazionale.
Il tutto – se non altro – è comunque giovato per comprendere che il problema del mercato del lavoro del Paese non stava affatto nell’art. 18 St. Lav..