Testo integrale con note e bibliografia
1. L’ingrediente di base: la fattispecie del g.m.o. – Vista l’ora tarda e considerato che l’appetito comincia a farsi sentire, ho pensato di impostare questo mio breve intervento secondo una metafora culinaria: analizzando gli ideali “ingredienti” che occorrono per realizzare le varie “ricette” sanzionatorie per il licenziamento economico ingiustificato nelle imprese che occupano più di quindici dipendenti .
Innanzitutto, occorre partire “dall’ingrediente di base” che consente di ottenere un licenziamento per g.m.o. L’art. 3, l. 15 luglio 1966, n. 604 afferma che tale giustificato motivo si configura in presenza di: «ragioni inerenti all’attività produttiva, all’organizzazione del lavoro e al regolare funzionamento di essa». Ora, la ragione, secondo la definizione che ne dà il TOMMASEO , è la «facoltà intellettuale, per cui l’uomo giudica le cose e governa se stesso»: dunque, implica una valutazione da parte del datore di lavoro e una sua decisione. Si badi, però, che la norma non si limita ad indicare come “ingrediente” delle ragioni semplici, bensì ne aggiunge il campo di riferimento, tramite il participio presente «inerenti», «all’attività produttiva, all’organizzazione del lavoro e al regolare funzionamento di essa». Sicché non basta che il datore vada in un qualsiasi “emporio” per trovare la ragione che gli consente di recedere per g.m.o., ma deve recarsi in uno “specializzato” in cui siano presenti ragioni che ineriscano al campo di riferimento indicato dalla norma.
Una volta “acquistato”, nel giusto “emporio”, la ragione inerente, occorre un altro ingrediente: vale a dire il nesso di causalità. La decisione assunta dal datore deve “amalgamarsi” con la posizione lavorativa che deve essere soppressa: deve, quindi, intercorrere un nesso causa-effetto tra la ragione e la soppressione di quel determinato posto di lavoro. È importante, come evidenziato dalla Cassazione , “mescolare” gli ingredienti nella giusta sequenza: prima la ragione e, poi, il nesso di causalità che, quindi, consente di individuare la posizione lavorativa da sopprimere. Qualora si invertisse la sequenza, il licenziamento risulterebbe illegittimo in quanto la ragione sarebbe effetto della soppressione del posto e non sua causa: ergo il “composto”, che conduce al g.m.o., “impazzirebbe”.
A questi due “ingredienti”, che costituiscono la “ricetta” normativa, la Cassazione ha aggiunto un altro “ingrediente” che “addolcisce” la “ricetta” al “palato” del lavoratore: vale a dire l’obbligo per il datore di lavoro di verificare se fosse possibile reimpiegare il lavoratore in altre mansioni. In una parola: il ripescaggio. Ora, per chi è fedele alla “ricetta originaria”, rectius normativa, tale “ingrediente” non solo non si rinviene nella stessa e, dunque, è da considerarsi come elemento inesistente nella fattispecie del g.m.o., ma la sua finalità di “confinare” il licenziamento ad extrema ratio è oggi svolta dall’art. 2103, comma 6, c.c., che prescrive, tra gli interessi che consentono la stipula del patto di modifica delle mansioni, quello «del lavoratore alla conservazione dell’occupazione». Di guisa che tale interesse non deve essere soddisfatto, qualora se ne ammettesse l’esistenza, da un obbligo , quale il ripescaggio, a carico del datore, bensì dalla facoltà del lavoratore di proporre un patto di modifica delle mansioni. Patto volto a soddisfare proprio il suo specifico interesse. In questo senso, si potrebbe dire che sussista un onere a carico del lavoratore per il mantenimento del posto di lavoro: poiché se non facesse la proposta non avrebbe, altresì, possibilità di realizzare tale risultato.
2. Per l’indennità piena togliere in tutto o in parte la fattispecie. – Qualora la “ricetta” non riesca ed il licenziamento risulti pertanto ingiustificato, occorre valutare cosa nel “procedimento di preparazione” sia andato storto e quali rimedi la legge prescrive per rendere “commestibile” quanto ottenuto.
Per i lavoratori assunti prima del 7 marzo 2015, l’art. 18, comma 7, l. n. 300/1970 prevede due rimedi in caso di licenziamento ingiustificato a seconda del verificarsi di due diversi vizi che possano aver alterato la “ricetta”. Il primo è dato dall’indennità piena: dichiarazione di estinzione del rapporto di lavoro e condanna al pagamento di un’indennità risarcitoria da un minimo di 12 ad un massimo di 24 mensilità. Il secondo dalla reintegrazione attenuata: annullamento del licenziamento, ordine di reintegrazione e condanna al pagamento di un’indennità risarcitoria fino ad un massimo di 12 mensilità.
Vediamo, allora, le “ricette” di ciascun rimedio partendo dalla prima che mi sembra più facile, mentre nel prossimo paragrafo si vedrà la seconda.
La “ricetta” della indennità piena richiede, naturalmente, di partire “dall’ingrediente base” del licenziamento per g.m.o., vale a dire la sua fattispecie, e verificare se gli elementi che la compongono ricorrano in toto ovvero in parte. Si tratta, insomma, di verificare se nella “preparazione” del licenziamento siano stati inseriti tutti gli “ingredienti” richiesti dalla “ricetta” normativa o giurisprudenziale, a seconda di quale interpretazione si preferisce seguire.
L’art. 18, comma 7, l. n. 300/1970 afferma, infatti, che «nelle altre ipotesi [rispetto a quella cui si applica la reintegrazione attenuata, n.d.a.] in cui accerta che non ricorrono gli estremi del predetto giustificato motivo, il giudice applica la disciplina di cui al quinto comma [vale a dire l’indennità piena]». Sicché, “l’ingrediente” che occorre eliminare per ottenersi l’indennità piena è la non ricorrenza degli elementi («estremi») che formano la fattispecie del g.m.o. La fattispecie, insomma, deve risultare viziata: cioè carente di uno degli “ingredienti” che la compongono.
Ora, se si segue la “ricetta” normativa, il giudice deve accertare che non ricorrano le ragioni inerenti e il nesso di causalità; mentre, se si procede secondo la “ricetta” giurisprudenziale, l’accertamento concerne anche il mancato assolvimento dell’obbligo di ripescaggio. Ad ogni modo, la “ricetta” del rimedio indennitario richiede almeno un “ingrediente” in meno di quelli richiesti dalla “ricetta” del g.m.o.
3. Per la reintegrazione attenuata togliere solo il fatto posto a base. – Diversa, invece, la “ricetta” per il rimedio della reintegrazione attenuata. Occorre, innanzitutto, dire che, anche in questo caso, la “ricetta” del g.m.o. presenta qualcosa che non va; o meglio: è non solo carente di uno degli “ingredienti” che concorrono a formarla, ma, di più, è priva del “vasellame” che ne contiene “l’impasto”. Continuando nella metafora culinaria, non si tratta di avere un “composto” con dei “grumi” o “non zuccherato”, bensì è come se si volesse preparare una “crema” senza un contenitore in cui “montare gli ingredienti”.
L’art. 18, comma 7, l. n. 300/1970 statuisce, infatti, che il giudice «nell’ipotesi in cui accerti la [manifesta] insussistenza del fatto posto a base del licenziamento per giustificato motivo oggettivo» applica [può applicare] la reintegrazione attenuata. Su tale disposizione è intervenuta due volte la Corte costituzionale: dapprima, con la sentenza 1 aprile 2021, n. 59, con la quale ha dichiarato incostituzionale la possibilità di applicazione della tutela reintegratoria e non la sua obbligatorietà, e, recentemente, con la sentenza 19 maggio 2022, n. 125, con la quale ha dichiarato l’incostituzionalità della «manifesta» riferita all’insussistenza. Ne risulta, ad oggi, che la reintegrazione attenuata trova applicazione nel caso di insussistenza del fatto posto a base del g.m.o. Ma per realizzare la “ricetta” di tale rimedio, dove trovare il fatto posto a base? Come si identifica il fatto posto a base?
La Cassazione , ancor prima delle pronunce della Consulta, ha statuito che quando si parla di «insussistenza del fatto posto a base del licenziamento per giustificato motivo oggettivo» bisogna identificare questo fatto con la fattispecie. Ha operato, quindi, un’interpretazione “correttiva” della parola fatto con la parola fattispecie. La reintegrazione trova, così, luogo quando il giudice accerti la mancanza: 1) della ragione inerente l’attività produttiva, l’organizzazione del lavoro e il regolare funzionamento di essa; 2) del nesso di causalità; 3) del ripescaggio. Basta che manchi uno di questi elementi perché il fatto debba ritenersi insussistente e si applichi la reintegrazione attenuata. Così facendo, però, pare esserci una sovrapposizione tra la “ricetta” dell’indennità piena e quella della reintegrazione attenuata: poiché gli “ingredienti” da togliere per l’una e per l’altra sono gli stessi (la mancanza di uno degli elementi che compongono la fattispecie) e medesimo è, altresì, il “procedimento di preparazione” (l’accertamento della insussistenza/non ricorrenza degli stessi).
Sennonché, il criterio discretivo tra le due “ricette” poteva rinvenirsi, fino alla sentenza n. 125/2022, in quel carattere “manifesto” che doveva contrassegnare l’insussistenza degli elementi della fattispecie del g.m.o. Carattere che, come indicato dalla Cassazione , aveva una valenza meramente processuale: vale a dire in relazione all’evidenza della prova riguardo alla sussistenza o insussistenza del fatto/fattispecie.
Seguendo l’interpretazione della Cassazione sulla nozione del «fatto posto a base», si verificherebbe oggi – a seguito della cesura della Consulta – non solo, come detto, una sovrapposizione tra le due “ricette” che portano ai due distinti rimedi reintegratorio e sanzionatorio, bensì all’introduzione di una possibilità di scelta tra le sanzioni circa il vizio dell’insussistenza del fatto che non solo la legge non prevede, ma che la Corte costituzionale ha già dichiarato incostituzionale con la sentenza n. 59/2021. Inoltre, si trascurerebbe quanto chiaramente affermato dalla stessa Corte circa l’ambito di applicazione della tutela reintegratoria: la quale ricorre in caso di «vizi più gravi, che investono il nucleo stesso e le connotazioni salienti della scelta imprenditoriale, confluita nell’atto di recesso».
Deve essere, allora, un altro “l’ingrediente” che consente, mediante la sua eliminazione, di realizzare la reintegrazione attenuata. La norma, infatti, parla di «fatto posto a base» e non di fattispecie. Il fatto, quindi, non può essere identificato con la fattispecie nel g.m.o.: innanzitutto, per la diversità del termine e, poi, perché è «posto a base» del g.m.o. e, dunque, deve essere qualcosa che si verifica (anche logicamente) prima che si formi la fattispecie, non potendosi altrimenti porsi a base della stessa. L’interpretazione della Cassazione era già stata criticata da una parte della Dottrina , che ha visto nel «fatto posto a base» il fatto costitutivo della fattispecie del g.m.o.; fatto costitutivo che non comprende tutti gli elementi della fattispecie, bensì solo quelli essenziali: la ragione e il nesso di causalità. Il ripescaggio rimarrebbe, quindi, fuori.
Si avrebbe, così, una prima distinzione sugli “ingredienti” di “preparazione” dei due regimi sanzionatori: poiché se non viene data la prova dell’adempimento dell’obbligo di ripescaggio, non si rientrerebbe più nella reintegrazione attenuata, ma nell’indennità piena. Distinzione che, tuttavia, non opererebbe per coloro che seguono fedelmente la “ricetta” normativa della fattispecie del g.m.o. e non quella giurisprudenziale poiché, nel primo caso, il ripescaggio non costituisce elemento della fattispecie.
Si può, così, andare oltre. La norma, infatti, non dice “ragioni poste a base del licenziamento per giustificato motivo oggettivo”, ma dice «fatto posto a base del licenziamento per giustificato motivo oggettivo». Il fatto, secondo me, non coincide con la ragione, che, come ricordato, implica una valutazione ed una decisione, ma è, appunto, un fatto, cioè un semplice accadimento della realtà che è posto a base del g.m.o. Affinché questo fatto sia posto a base bisognerebbe dire che è il fatto che consente alla ragione di nascere. In questo caso, il fatto si pone prima della ragione che dà luogo alla fattispecie del g.m.o., lasciando quindi tutti i vizi della stessa (la non ricorrenza degli estremi del predetto g.m.o.) nel campo di applicazione dell’indennità piena.
Che cosa, dunque, deve accertare il giudice per applicare la reintegrazione attenuata? Non solo che la fattispecie del g.m.o. non si sia perfezionata, bensì che il fatto che è posto a base della ragione non sussiste. L’impresa ha riorganizzato le mansioni tra il personale? Ha acquistato i macchinari? Ha chiuso il reparto? Tutti quei fatti che ineriscono (come afferma l’art. 3, l. n. 604/1966) all’attività produttiva, all’organizzazione del lavoro e al regolare funzionamento di essa. Fatti che trovano fondamento nel potere di libera gestione dell’impresa del datore di lavoro ex art. 41, comma 1, Cost. e dai quali scaturiscono le ragioni del g.m.o.
Conferma, in tal senso, mi pare possa trarsi da quanto espresso dalla Cassazione , secondo cui «il giustificato motivo oggettivo di licenziamento è ravvisabile anche nella soppressione d’una posizione lavorativa derivante da una diversa ripartizione di date mansioni fra il personale in servizio, attuata ai fini di più economica ed efficiente gestione aziendale, nel senso che, invece di essere assegnate ad un solo dipendente, certe mansioni possono essere suddivise fra più lavoratori, ognuno dei quali se le vedrà aggiungere a quelle già espletate: il risultato finale può far emergere come in esubero la posizione lavorativa di quel dipendente che vi era addetto in modo esclusivo o prevalente». Ora: 1) la «diversa ripartizione di date mansioni fra il personale di servizio» costituisce il fatto posto a base del g.m.o.; 2) i «fini di più economica ed efficiente gestione aziendale» costituiscono i motivi, che sono irrilevanti per il g.m.o. ; 3) «il risultato finale può far emergere come in esubero la posizione lavorativa di quel dipendente» costituisce la ragione inerente l’organizzazione del lavoro ed il nesso di casualità, che sono gli elementi (unici od essenziali, a seconda della “ricetta” che si segue) della fattispecie del g.m.o.
La medesima sentenza chiarisce, inoltre, che «il diritto del datore di lavoro di ripartire diversamente determinate mansioni fra più dipendenti [il fatto] non deve far perdere di vista la necessità di verificare il rapporto di congruità causale [nesso di causalità] fra la scelta imprenditoriale e il licenziamento, nel senso che non basta che i compiti un tempo espletati dal lavoratore licenziato risultino essere stati distribuiti ad altri [fatto], ma è necessario che tale riassetto sia all’origine [posto a base] del licenziamento [della ragione inerente l’organizzazione del lavoro] anziché costituirne mero effetto di risulta [vale a dire che la ragione inerente l’organizzazione del lavoro nasca prima del fatto (ripartizione delle mansioni) posto alla sua base]». Venendo a questioni di ordine pratico: il datore, ex art. 41, comma 1, Cost., assume la decisione di riorganizzare le mansioni; tale decisione produce l’effetto di renderne superflua la posizione lavorativa di Tizio e, dunque, produce la ragione inerente l’organizzazione del lavoro ed il nesso di causalità che fa nascere il motivo oggettivo di licenziamento di Tizio.
Sicché, la “ricetta” della reintegrazione attenuata non richiede l’indagine sui difetti che attanagliano gli “ingredienti” della fattispecie g.m.o., bensì sulla mancanza di una specificazione “dell’ingrediente” delle ragioni: vale a dire del fatto o dell’accadimento che dà loro causa. Secondo la metafora culinaria che si segue: del “vasellame” che consente di (r)accogliere le ragioni e di “montarle” con il nesso di causalità.
4. Per il contratto a tutele crescenti stessa ricetta dell’indennità piena. – Il d.lgs. n. 23/2015 che disciplina le conseguenze sanzionatorie del licenziamento illegittimo per i lavoratori assunti dopo il 7 marzo 2015, ha previsto un’unica “ricetta” rimediale a fronte del mancato pedissequo rispetto della “ricetta” del g.m.o. Tale “ricetta” riprende i medesimi “ingredienti” (ed anche i medesimi termini) dell’art. 18, comma 7, l. n. 300/1970. Infatti, l’art. 3, comma 1, d.lgs. n. 23/2015 prevede l’applicazione dell’indennità piena (da 6 a 36 mensilità) «nei casi in cui risulta accertato che non ricorrono gli estremi del licenziamento per giustificato motivo oggettivo».
Anche qui, dunque, la “ricetta” richiede l’imperfezione della fattispecie del g.m.o.: basta che manchi uno degli “ingredienti” che concorrono a comporla, che il licenziamento è ingiustificato e dà luogo, proprio per tale vizio, alla “ricetta” dell’indennità piena.
Il sistema del contratto a tutele crescenti non contempla, per il g.m.o. ingiustificato, la “ricetta” della reintegrazione attenuata. Come visto, però, tale “ricetta” si ottiene con la mancanza di un “ingrediente” (l’insussistenza del fatto posto a base) che non è nient’altro che la specificazione o, se si preferisce, la parte di altro “ingrediente” che è quello della ragione inerente. Il legislatore non valuta, quindi, più il vizio minus (inteso come parte della ragione), ma il solo vizio plus (cioè la ragione comprensiva del fatto) sicché può dirsi che tale vizio, pur non contemplato, è comunque ricompreso nel rimedio indennitario che la norma irroga in caso di licenziamento ingiustificato poiché plus semper in se continet quod est minus.
Sia consentito, fulmineamente, aggiungere che, nel sistema del d.lgs. n. 23/2015, la considerazione “dell’ingrediente” del fatto viene meno, a mio avviso, anche per il licenziamento disciplinare ingiustificato poiché, per lo stesso, “l’ingrediente” della “ricetta” per la reintegrazione attenuata non è tanto l’insussistenza del fatto contestato, ma la prova diretta di tale insussistenza.
5. Basta un poco di inchiostro e la reintegrazione non c’è più. – Giungendo al termine del “ricettario essenziale” che si è inteso fornire, siano consentite una considerazione di sintesi e una di sistema.
Per il licenziamento per g.m.o. sussistono tre “ricette”: la prima che concerne la fattispecie e che si ottiene “mescolando”, nella rigida sequenza che si elenca, i suoi “ingredienti”: 1) la ragione inerente l’attività produttiva, l’organizzazione del lavoro e il regolare funzionamento di essa; 2) il nesso di causalità tra la ragione e il posto di lavoro che si intende sopprimere; (se si segue la “ricetta” giurisprudenziale) 3): il ripescaggio.
In caso di licenziamento ingiustificato, vale a dire laddove la fattispecie non sia “lievitata” bene perché priva di uno o più “ingredienti”, si ha la “ricetta” del rimedio indennitario che richiede, appunto, la non ricorrenza degli estremi del g.m.o.: vale a dire l’assenza di uno o più degli elementi che formano la fattispecie di tale giustificato motivo.
Vi è, poi, una “ricetta” più particolare in quanto non indaga che siano assenti gli “ingredienti” della fattispecie, ma che sia inesistente il fatto che è posto a base della fattispecie. Il fatto è un “ingrediente” distinto dagli “ingredienti” che formano la fattispecie, ma concorre a comporre “l’ingrediente” plus della ragione poiché consente alla stessa di nascere. Per aversi la reintegrazione attenuata occorre, per gli assunti prima del 7 marzo 2015, l’indagine sull’insussistenza di questo specifico “ingrediente”, fermandosi altrimenti nella “ricetta” dell’indennità piena.
Cosa spero abbiate tratto da questa metafora? Che rientra nella piena discrezionalità del legislatore non solo scegliere i rimedi a fronte di “ricette” di giustificazione del licenziamento mal riuscite, bensì anche di quali “ingredienti”, rectius presupposti, comporre le “ricette” per la corresponsione delle varie tutele. Discrezionalità che, mi sia consentito, non può essere sovvertita dall’interprete che, come prescrive l’art. 101, comma 2, Cost., è comunque «soggetto» alla legge e, dunque, anche alla scelta discrezionale che la stessa contiene.
Bon appétit!