Testo integrale con note e bibliografia
1. Il licenziamento per giustificato motivo oggettivo.
La fattispecie del licenziamento per giustificato motivo oggettivo è disciplinata dall’art. 3 della l. 604/1966 quale licenziamento dovuto a «ragioni inerenti all’attività produttiva, all’organizzazione del lavoro e al regolare funzionamento di essa».
Gli elementi costitutivi di detta fattispecie sono tre: le ragioni che determinano la soppressione del posto, il nesso di causalità tra questa e il licenziamento e il rispetto dell’obbligo di repêchage .
Pertanto, secondo la giurisprudenza e la dottrina prevalenti il licenziamento per giustificato motivo oggettivo si configura qualora il datore di lavoro intervenga sulla propria organizzazione modificandola effettivamente e tale modifica sia motivata e diretta al perseguimento di un fine «genuinamente economico-tecnico-organizzativo» , nonché connessa in modo stringente alla posizione del lavoratore interessato, il quale non può diversamente essere ricollocato nell’ambito dell’organizzazione .
Il licenziamento per giustificato motivo ricorre, quindi, in presenza di detti elementi, in difetto di anche uno solo dei quali il recesso sarebbe ingiustificato poiché privo di un elemento costitutivo della fattispecie .
2. Le ragioni inerenti all’attività produttiva e all’organizzazione del lavoro.
Le ragioni inerenti all’attività produttiva e all’organizzazione del lavoro rappresentano un limite posto dal legislatore al recesso del datore di lavoro, il quale non è, quindi, libero di recedere a suo piacimento ex art. 2118 c.c. . Dette ragioni costituiscono altresì un compromesso «fra l’interesse del lavoratore alla conservazione del posto e il potere organizzativo imprenditoriale» .
Secondo la giurisprudenza prevalente , è necessario che il riassetto organizzativo sia all’origine del licenziamento e non costituisca un mero risultato di questo. Laddove non ne rappresenti la causa bensì una conseguenza, le ragioni del licenziamento, infatti, sarebbero altre rispetto alla più efficiente organizzazione produttiva.
La giurisprudenza e la dottrina si sono, però, a lungo interrogate per comprendere in cosa consistano in concreto dette ragioni produttive e organizzative.
Secondo un primo orientamento non è infatti sufficiente una qualsiasi ragione organizzativa «idonea a determinare la soppressione del posto di lavoro» a legittimare il licenziamento per giustificato motivo oggettivo, dovendosi verificare la meritevolezza delle motivazioni poste a base del medesimo . Necessaria sarebbe, quindi, la tutela di un interesse oggettivo dell’impresa, inteso quale difficoltà economica non temporanea tale da non consentire la prosecuzione del rapporto se non a fronte di perdite notevoli per la stessa .
Rientrerebbero, pertanto, nella nozione di giustificato motivo oggettivo le ipotesi di «riassetto organizzativo dell’azienda attuato al fine di una più economica gestione di essa e deciso dall’imprenditore non semplicemente per un incremento del profitto, ma per far fronte a sfavorevoli situazioni, non meramente contingenti, influenti in modo decisivo sulla normale attività produttiva, imponendo un’effettiva necessità di riduzione dei costi» .
La giurisprudenza più recente , però, ritiene che tale nozione sia ampia al punto da ricomprendere anche «ragioni inerenti all’attività produttiva, all’organizzazione del lavoro e al regolare funzionamento di essa […] che attengono ad una migliore efficienza gestionale o produttiva ovvero anche quelle dirette ad un aumento della redditività d’impresa» . Sul punto concorda anche una parte della dottrina , secondo cui la norma non vieta un licenziamento fondato sull’incremento dei profitti e non prevede che questo posta essere intimato esclusivamente nel caso in cui l’impresa verta in condizione di crisi .
Una simile interpretazione, come sottolineato da alcuni , terrebbe in considerazione il valore della concorrenza alla luce dell’ordinamento europeo, secondo il quale «la nostra normativa mira a garantire l’esistenza e la competitività sul mercato dell’impresa ben prima che la stessa si trovi in situazione di difficoltà economica».
È bene evidenziare, però, come la rilevanza di ragioni esclusivamente organizzative, al di là delle ragioni economiche, non debba condurre ad indentificare le stesse con la mera soppressione del posto, dovendo sussistere in ogni caso condizioni oggettive che consentano al giudice di accertarne l’effettività .
Il controllo giudiziale circa la veridicità del ridimensionamento e il nesso causale tra la ragione addotta e la soppressione della posizione del dipendente licenziato rappresentano tratti comuni ad entrambi gli orientamenti .
Diversamente, verrebbe meno lo stesso effetto limitativo della facoltà di recesso posto alla base della norma.
Nella prassi, i giudici al fine di poter operare una verifica in merito, non potendo, come si vedrà, sindacare le scelte imprenditoriali , hanno declinato l’effettività delle ragioni organizzative in diversi sotto-requisiti che la situazione economico-organizzativa dell’imprenditore deve presentare per costituire idonea giustificazione causale del licenziamento, quali la serietà , l’attualità e la stabilità delle ragioni addotte . Tali requisiti non devono sussistere cumulativamente , ma è sufficiente la sussistenza di anche solo uno di questi .
3. La non sindacabilità delle scelte imprenditoriali.
Il controllo giudiziale deve limitarsi «esclusivamente, in conformità ai princìpi generali dell’ordinamento, all’accertamento del presupposto di legittimità e non può essere esteso al sindacato di merito sulle valutazioni tecniche, organizzative e produttive che competono al datore di lavoro» .
Pertanto, il giudice potrà esclusivamente controllare la sussistenza delle ragioni produttive o organizzative senza poter valutare in alcun modo le motivazioni che hanno determinato la decisione datoriale in quanto irrilevanti per l’ordinamento, così come gli obiettivi delle stesse .
Il giudicante, quindi, dovrà accertare la presenza di una «giustificazione del licenziamento e la sua coerenza alla definizione legale» nonché «la veridicità dei fatti addotti a giustificazione […], la loro non pretestuosità, la loro connessione causale» .
Diversamente, si andrebbe ad intaccare l’autonomia imprenditoriale tutelata dall’art. 41 Cost. . Vi è, quindi, un’insindacabilità delle scelte imprenditoriali «imposta dalla garanzia costituzionale della libertà di iniziativa economica» .
In concreto, nel caso in cui la ragione addotta sia di natura economica, il giudice, quindi, verificherà esclusivamente la veridicità e la sussistenza di una situazione di crisi aziendale , mentre nell’ipotesi in cui la ragione sia di tipo organizzativo, dovrà accertare l’effettività del riassetto organizzativo posto a base attraverso la soppressione della posizione lavorativa che ne è stata oggetto , nonché, secondo alcuni, la sopravvenuta inutilità della prestazione .
In entrambe le ipotesi, come sostenuto anche dalla dottrina e dalla giurisprudenza maggioritarie, dovrà essere provata la non pretestuosità del licenziamento, nel senso che questo non possa essere finalizzato a «perseguire il profitto soltanto mediante un abbattimento del costo del lavoro realizzato con il puro e semplice licenziamento d’un dipendente che, a sua volta, non sia dovuto ad un effettivo mutamento dell’organizzazione tecnico-produttiva, ma esclusivamente al bisogno di sostituirlo con un altro da retribuire di meno, malgrado l’identità (o la sostanziale equivalenza) delle mansioni» .
Una parte della giurisprudenza e della dottrina ha, inoltre, sostenuto che la ragione del licenziamento debba «essere successiva all’assunzione, dovendosi dunque configurare un quid novi» poiché solo in questo modo può essere giustificato un provvedimento che incida sull’assetto preesistente , in quanto il datore al momento della stipula del contratto di lavoro ha assunto un impegno a fronte di una valutazione circa l’utilizzabilità del lavoratore nella impresa, obbligandosi ad impiegarlo e autolimitando conseguentemente il proprio potere di iniziativa economica .
In conclusione, il sindacato del giudice sarà volto ad accertare che le misure adottate dal datore di lavoro «non eccedano i limiti di ciò che è necessario per raggiungere gli obiettivi perseguiti» e rispettino il principio di proporzionalità, non potendo valutare l’opportunità economica delle decisioni da questo prese .
4. Il nesso causale.
Il nesso causale rappresenta il collegamento tra il lavoratore licenziato e la scelta imprenditoriale che è causa del licenziamento.
Dal punto di vista causale la decisione organizzativa è il prius e la soppressione del posto ne rappresenta la conseguenza .
Il datore di lavoro è, infatti, tenuto a specificare nell’atto di licenziamento le motivazioni di questo, non potendosi limitare ad enunciare la semplice soppressione del posto ma dovendo espressamente indicare le ragioni organizzative o produttive alla base .
Occorre, pertanto, che sussista un concreto nesso tra scelte economiche dell’imprenditore e licenziamento, ricorrendo il giustificato motivo oggettivo ogni qualvolta fra le prime e il secondo esista un’oggettiva coerenza strumentale .
È, dunque, necessario accertare che la motivazione addotta dal datore di lavoro abbia una correlazione causale diretta e immediata con la posizione lavorativa soppressa, non potendo, ad esempio, ritenerla effettiva qualora attenda ad una generica crisi aziendale potenzialmente idonea a giustificare il licenziamento di un qualsiasi dipendente dell’impresa .
Pertanto, la ragione invocata a sostegno della attuata modifica organizzativa deve incidere proprio sulla posizione lavorativa del lavoratore licenziato .
La scelta che ha determinato la soppressione entra, quindi, necessariamente nella fattispecie giustificativa, non potendo assumersi solo che il licenziamento sia motivato da una soppressione del posto . Al contrario «sarebbe […] preclusa in radice la verifica di legittimità non rimanendo al giudice altro riscontro se non la presa d’atto che il lavoratore licenziato occupava il posto di lavoro soppresso» .
Il giudice è, quindi, chiamato a svolgere una valutazione di mera legittimità, che non può «sconfinare in un sindacato di congruità e di opportunità» .
Non potendo sindacare le motivazioni che hanno condotto al licenziamento la giurisprudenza ha tentato «di temperare il meccanismo della sequenza causale […] “creando” il principio dell’extrema ratio, che si sostanzia nell’onere dell’imprenditore di provare l’impossibilità di una diversa utilizzazione del lavoratore licenziando» . Il datore di lavoro dovrà provare di non poter diversamente impiegare il lavoratore : il c.d. obbligo di repêchage .
Vi è chi ritiene che il controllo del giudice sul rispetto di detto obbligo altro non sia se non la «verifica più dettagliata e in una prospettiva per così dire negativa» dell’esistenza del nesso causale tra la scelta organizzativa e la posizione del lavoratore licenziato . Come sostenuto da autorevole dottrina, infatti, tale operazione «realizza di fatto un’applicazione concreta dell’istanza di bilanciamento fra i due interessi» contrapposti, rappresentando l’unica valutazione possibile senza esondare in un sindacato di merito delle scelte imprenditoriali .
4.1. L’insussistenza del nesso causale.
Il datore di lavoro, come esaminato, non può licenziare un lavoratore per un suo semplice interesse, ma solo qualora dimostri la sussistenza di una ragione imprenditoriale (non sindacabile) nonché il nesso causale tra la soppressione del posto e il licenziamento.
Il giudice, quindi, dovrà verificare il rispetto del principio della catena causale secondo cui causa causae est causa causati .
La mancanza del nesso causale «disvela l’uso distorto del potere datoriale, emergendo una dissonanza che smentisce l’effettività della ragione addotta a fondamento del licenziamento» .
Tutto ciò premesso, «la giurisprudenza maggioritaria sembra consolidata nel pretendere la non arbitrarietà del licenziamento, ovverosia la reale presenza di una giustificazione causale, verificata attraverso l’accertamento dell’effettiva sussistenza delle ragioni organizzative addotte e del nesso di causalità tra queste ultime ed il licenziamento stesso» .
Sarà il datore di lavoro a dover provare in giudizio «la sussistenza di una ragione astrattamente idonea alla giustificazione del licenziamento» , nonché l’impossibilità di un’altra utilizzazione del lavoratore licenziato tramite la dimostrazione di fatti positivi corrispondenti .
Pertanto, nel caso in cui venga accertata la mancanza del nesso causale il licenziamento risulterà illegittimo ma tale illegittimità non implicherà un giudizio di valore sulla scelta compiuta dall’imprenditore bensì esclusivamente che questo non l’abbia compiuta ovvero ne abbia compiuta una pretestuosa, non genuina o non necessaria