TESTO INTEGRALE CON NOTE E BIBLIOGRAFIA
1- L’evoluzione legislativa e giurisprudenziale in tema di giudizio di proporzionalità del licenziamento disciplinare
Negli ultimi 13 anni si sono registrati ricorrenti tentativi del legislatore di vincolare quanto più possibile il giudizio di proporzionalità, da parte del giudice, dei licenziamenti disciplinari e di ridurre la tutela reintegratoria a fronte di licenziamenti rivelatisi privi di giusta causa o giustificato motivo soggettivo.
Dapprima l’art. 30 del c.d. collegato lavoro (legge n. 183/2010) ha previsto che il giudice debba valutare il licenziamento disciplinare tenendo conto delle tipizzazioni di giusta causa e di giustificato motivo soggettivo presenti nei contratti collettivi di lavoro.
Poi la novella dell’art. 18 Stat. ad opera della legge n. 92/2012 e la sua distinzione fra tutela indennitaria e reintegratoria ha cercato di spostare l’accento sulla differenza tra fatto materiale e fatto giuridico e – secondo una certa interpretazione dottrinaria (v. meglio infra) - sulla riconducibilità o meno del fatto contestato ad una tipizzazione specifica ad opera della contrattazione collettiva.
Successivamente, un orientamento della Cassazione maturato in ambito di contratti di lavoro sorti anteriormente al 7.3.15 ha affermato che gli illeciti punibili con sanzioni conservative non potrebbero essere tipizzati mediante pattuizioni collettive contenenti clausole generali, con asserita conseguente estensione dei casi in cui applicare il comma 5 dell’art. 18 Stat. anziché il comma 4.
Tale indirizzo è stato poi abbandonato dopo che l’ordinanza interlocutoria n. 14777/2021 della VI Sez. civile ne aveva messo in dubbio la linearità interpretativa, ordinanza – quest’ultima – sostanzialmente condivisa dalle più recenti pronunce (nn. 11665/2022, 13065/2022 e 20780/2022) della S.C. .
Infine, il problema del giudizio di proporzionalità del licenziamento disciplinare si complica per effetto dell’art. 3, co. 2°, d.lgs. n. 23/15 (c.d. Jobs Act), che condiziona la reintegra nel posto di lavoro, in caso di licenziamento disciplinare privo di giusta causa o di giustificato motivo soggettivo nei contratti a tutele crescenti, alla diretta dimostrazione in giudizio dell’insussistenza del fatto materiale oggetto di contestazione, restando esclusa ogni valutazione di proporzionalità della sanzione da parte del giudice.
Queste compressioni del giudizio di proporzionalità e dell’area della tutela reintegratoria devono però fare i conti non soltanto con la nozione legale di giusta causa e giustificato motivo soggettivo (v. artt. 1 e 3 legge n. 604/66, derogabili solo in melius da parte dei contratti collettivi: v. art. 12 legge n. 604/66) e con il carattere imperativo dell’art. 2106 c.c. (che in tanto riconosce al datore di lavoro un potere disciplinare in quanto esso sia esercitato “secondo la gravità dell’infrazione”), ma soprattutto con ineludibili esigenze di compatibilità, ancor prima che costituzionali, logico-sistematiche proprie dell’ordinamento e che in altre occasioni il legislatore ha chiaramente avvertito.
Basti pensare, ad esempio, al pubblico impiego contrattualizzato, nel quale il vigente art. 63, comma 2-bis, d.lgs. n. 165/2001 attribuisce al giudice il potere di rideterminare la sanzione annullata – appunto - per difetto di proporzionalità.
Ma procediamo con ordine.
2- La giurisprudenza della S.C. sul giudizio di proporzionalità tra l’intimato licenziamento disciplinare e l’addebito contestato
Inizialmente, alcune sentenze della S.C. – in tema di rapporti lavorativi sorti prima del 7.3.2015 - avevano statuito, sia pure sotto diverse prospettive, che in presenza di condotte disciplinari punite dal contratto collettivo con sanzione conservativa fosse dovuta la tutela di tipo reintegratorio prevista dall’art. 18 Stat. così come novellato dalla legge Fornero .
Ma a partire da Cass. n. 12365 del 2019 si è affermato che l’accesso alla tutela reale di cui all'art. 18, comma 4, Stat., sempre come modificato dalla legge n. 92/2012, presupporrebbe una valutazione di proporzionalità fra sanzione conservativa e fatto addebitato così come esplicitamente e specificamente tipizzato dalla contrattazione collettiva: in assenza di tale espressa e specifica tipizzazione, ove cioè il CCNL rimetta al giudice la valutazione dell'esistenza di un simile rapporto di proporzione in relazione al contesto in cui sia stato commesso l’illecito disciplinare oggetto di addebito, al lavoratore spetterebbe solo la tutela indennitaria di cui all'art. 18, comma 5, Stat. .
In altre parole, secondo tale orientamento ogni qual volta, pur esclusi giusta causa o giustificato motivo soggettivo, nondimeno un illecito disciplinare (meno grave) sussista, il co. 4° dell’art. 18 sarebbe applicabile solo ad infrazioni specificamente tipizzate come passibili di sanzioni conservative e non anche a condotte, punibili con sanzione conservativa, descritte dai contratti collettivi soltanto attraverso clausole generali: ciò si afferma perché un singolo illecito ex ante inquadrabile indifferentemente tra le condotte punibili con la sanzione conservativa o con quella espulsiva (ad esempio un’insubordinazione, punibile con il licenziamento se grave e con la sanzione conservativa se meno grave) non avrebbe carattere di tipicità.
In quest’ultima evenienza, per stabilire se l'illecito sia punibile con la sanzione conservativa o con il licenziamento, il giudice deve effettuare un giudizio di proporzionalità ex post: tuttavia esso – sempre secondo l’orientamento inaugurato da Cass. n. 12365/19 - esulerebbe dal disposto di cui al 4° comma dell'art. 18 nella parte in cui afferma che la reintegra è disposta soltanto ove il giudice escluda la giusta causa o il giustificato motivo soggettivo di licenziamento “per insussistenza del fatto contestato ovvero perché il fatto rientra tra le condotte punibili con una sanzione conservativa sulla base delle previsioni dei contratti collettivi ovvero dei codici disciplinari applicabili”.
Oltre che sul discrimine fra condotte tipizzate o meno dalla contrattazione collettiva, tale approdo giurisprudenziale fa leva anche su altri rilievi e cioè:
a) carattere residuale della reintegra nel posto di lavoro dopo la novella di cui alla legge n. 92/2012, che della tutela indennitaria avrebbe fatto la regola e di quella reintegratoria una mera eccezione nel sistema;
b) necessità di rispettare la volontà delle parti collettive, le quali, tipizzando come passibili di sanzione conservativa certe condotte e non anche altre, avrebbero avuto proprio l’intento di espungere le seconde dall’area della reintegra una volta esclusa l’esistenza di giusta causa o giustificato motivo soggettivo di licenziamento;
c) opportunità di favorire la certezza del diritto, nel senso che una rigida tipizzazione sarebbe funzionale a rendere chiaramente edotto il datore di lavoro delle conseguenze cui andrebbe incontro nel caso in cui, in sede giudiziaria, venisse negata l’esistenza della giusta causa o del giustificato motivo soggettivo posti a base dell’intimato licenziamento disciplinare;
d) destinazione della reintegra a sanzionare solo il datore di lavoro che abbia volontariamente abusato del proprio potere disciplinare.
È pur vero che tale orientamento risulta ora abbandonato dalle più recenti sentenze nn. 11665/2022 e n. 13065/2022 e 20780/2022 della S.C., le quali (sempre riguardo a contratti di lavoro anteriori al 7.3.15) hanno statuito che al fine di selezionare la tutela applicabile tra quelle previste dall'art. 18, commi 4 e 5, della legge n. 300/1970, come novellato dalla l. n. 92 del 2012, il giudice può sussumere la condotta addebitata al lavoratore - e in concreto accertata giudizialmente - nella previsione contrattuale che, anche attraverso clausola generale ed elastica, punisca l'illecito con sanzione conservativa.
Nondimeno, appare opportuno evidenziare che l’indirizzo interpretativo che era stato inaugurato dalla citata sentenza n. 12365/19 appare basato su assiomi che non reggono ad una disamina più approfondita, come si cercherà di dimostrare nei paragrafi che seguono.
3- Inesistenza di illeciti disciplinari non tipizzati
Una volta esclusa una giusta causa o un giustificato motivo soggettivo di licenziamento, il giudice deve individuare la tutela in concreto applicabile; ove un’infrazione disciplinare comunque vi sia stata e sia punibile con una sanzione conservativa, se la fattispecie risulta delineata dalla norma collettiva solo attraverso una clausola generale bisognosa di essere riempita di contenuto, il giudice dovrà, appunto, concretizzare la portata della clausola utilizzando standard conformi ai valori dell’ordinamento ed esistenti nella realtà sociale, in modo da poterne definire i contorni di maggiore o minore gravità.
Di frequente le condotte disciplinarmente rilevanti previste dai contratti collettivi non sono descritte in maniera precisa, ma hanno un carattere indefinito così come non meglio determinati sono gli obblighi contrattuali di obbedienza, diligenza e fedeltà del dipendente, alla cui violazione è connesso l’esercizio del potere disciplinare: questa è la ragione dell’utilizzo, nei contratti collettivi, di norme elastiche o di previsioni di chiusura, vista l’impossibilità pratica di tipizzare tutte le condotte di potenziale rilievo disciplinare.
Ove si ammettesse solo una precisa e rigida tipizzazione delle fattispecie a scapito dell’uso di clausole generali o norme elastiche - evidentemente nell’ipotesi in cui la disciplina collettiva si articoli attraverso una previsione generale di apertura o di chiusura, esemplificandone il contenuto in fattispecie specificatamente individuate - si finirebbe con lo smentire la stessa volontà delle parti sociali che, nell’aprire o chiudere la norma collettiva con una disposizione di contenuto generale, hanno comunque inteso demandare all’interprete la sussunzione della condotta accertata nella nozione generale indicata dalla disposizione collettiva.
D’altro canto, dalla lettera dell’art. 18, comma 4, Stat. non si evince che i fatti suscettibili di sanzioni conservative debbano essere necessariamente espressi attraverso una rigida tipizzazione.
Va poi ricordato che la Corte cost. - nel ribadire che la reintegrazione non rappresenta «l’unico possibile paradigma attuativo» dei principi costituzionali di cui agli artt. 4 e 35 Cost. e che, anzi, in un assetto integrato di tutele, ben può il legislatore, esercitando la propria discrezionalità, delimitare l’ambito applicativo della reintegrazione e prevedere un meccanismo di tutela anche solo risarcitorio-monetario , ha tuttavia precisato che "nell’apprestare le garanzie necessarie a tutelare la persona del lavoratore, il legislatore ... è vincolato al rispetto dei princìpi di eguaglianza e di ragionevolezza" ; il giudice delle leggi ha altresì sottolineato , seppur riguardo al comma 7 dell’art. 18, le "notevoli implicazioni" connesse alla "alternativa fra una più incisiva tutela reintegratoria o una meramente indennitaria" e l’irragionevolezza derivante dalla scelta di riconnettere a "fattori contingenti" impropri o privi di attinenza con il disvalore del licenziamento il discrimine tra le due forme di tutela applicabile.
Ora, sarebbe irragionevole e foriero di gravi disparità di trattamento il ricollegare il tipo di tutela al fatto meramente accidentale della maggiore o minore rigidità di tipizzazione adoperata dalle parti collettive, magari in epoche addirittura antecedenti alla novella dell’art. 18 Stat. ad opera della legge Fornero; soprattutto, non v’è alcun nesso eziologico e valoriale fra la specifica tipizzazione d’una condotta e la funzione di discrimine rimediale che le viene attribuita.
Diversamente opinando – e ciò è dirimente - verrebbe a crearsi un’ingiustificata disparità di trattamento e un’irragionevole e insanabile aporia fra il comma 4 e il comma 5 dello stesso articolo di legge, nel senso che la meno pregnante tutela di cui al comma 5 si applicherebbe a condotte di rilevanza disciplinare pressoché nulla o minima sol perché non espressamente tipizzate dalla contrattazione collettiva (e magari non lo erano state proprio per la loro sostanziale minima rilevanza), mentre sarebbe riservata la più pregnante tutela reintegratoria (quella di cui al comma 4) all’autore d’un illecito di ben maggiore gravità, ma specificamente tipizzato dal testo negoziale come passibile di sola sanzione conservativa.
In altre parole, l’orientamento inaugurato da Cass. n. 12365/19 (e seguito da altre pronunce conformi nel 2019 e nel 2020) perviene alla conclusione che si può perdere definitivamente il posto di lavoro anche per una minima infrazione non specificamente descritta dalla contrattazione collettiva, mentre lo si può conservare a fronte d’un illecito disciplinare anche nettamente più grave sol perché il CCNL lo delinea specificamente nel momento in cui lo punisce con sanzione conservativa.
Ma non è chi non veda che tale interpretazione dell’art. 18 Stat. sarebbe incostituzionale perché irragionevole, non potendosi ammettere una norma che, fra due lavoratori incolpati in sede disciplinare, attribuisca maggior tutela a chi abbia commesso il fatto magari più grave sol perché precisamente delineato nel CCNL.
Ad esempio: certi contratti collettivi sanzionano in via conservativa il lavoratore che “arrechi danno alle cose ricevute in dotazione ed uso, con dimostrata responsabilità” o, ancora, “si presenti in servizio in stato di manifesta ubriachezza”.
Se invece per mera distrazione il dipendente arreca un modestissimo danno a un bene aziendale non ricevuto in dotazione (e magari anche di scarso pregio), oppure si presenta in servizio in stato confusionale a causa dell’effetto collaterale d’un neurofarmaco la cui assunzione avrebbe dovuto prudentemente evitare prima di recarsi al lavoro (tutte ipotesi – queste ultime - non specificamente e rigidamente previste dal contratto collettivo), una volta esclusa la legittimità del licenziamento quale sarà la tutela applicabile? Se gli si riconosce solo quella indennitaria del comma 5 è palese il trattamento deteriore rispetto a chi, invece, abbia commesso i più gravi illeciti disciplinari come sopra descritti, per i quali beneficerebbe della reintegra c.d. attenuata di cui al comma 4.
Anche a prescindere dall’obiezione che precede è, ad ogni modo, da escludersi che al giorno d’oggi si possa propriamente parlare di infrazioni disciplinari (punibili con sanzioni conservative) non tipiche.
Infatti, se prima dello Statuto dei lavoratori era controversa l’ammissibilità di infrazioni disciplinari negozialmente atipiche, sicuramente essa non è più predicabile alla luce dell’art. 7 comma 1 Stat., che invece prescrive la pubblicazione delle infrazioni e delle relative sanzioni disciplinari applicabili in azienda, con l’unica eccezione – elaborata in via giurisprudenziale – di quei comportamenti che violano il c.d. minimo etico o che costituiscono fatti di rilevanza penale per i quali soccorrono le nozioni, legali, di giusta causa e di giustificato motivo soggettivo.
La tipizzazione negoziale delle infrazioni disciplinari nel lavoro privato è ancor più imprescindibile ora che anche nel pubblico impiego contrattualizzato la sua necessità è espressamente sancita dagli artt. 54 e 55 d.lgs. n. 165/2001: francamente non si avverte il bisogno di divaricare oltre misura i due ambiti.
Non solo: com’è noto, in teoria generale del diritto privato (e secondo uniforme dottrina) le sanzioni disciplinari conservative sono pur sempre pene private negoziali la cui fonte mediata risiede nell’art. 2106 c.c. e quella immediata nei contratti collettivi.
Non potrebbe essere diversamente: l’ambito tendenzialmente paritetico in cui vive il rapporto giuridico di tipo privatistico verrebbe alterato dal riconoscimento, in capo ad una sola delle parti di esso, di poteri da esercitarsi direttamente nell'altrui sfera giuridica senza che ciò sia autorizzato e delimitato dalla legge o dal contratto, il che è ancor più vero in un ordinamento che, come il nostro, protegge i diritti inviolabili dell'uomo anche nelle formazioni sociali di cui all'art. 2 Cost.
È quindi indispensabile che siano tipizzate in via negoziale (e quindi suscettibili di essere affisse in azienda in luogo accessibile a tutti) non solo le sanzioni, ma anche le infrazioni.
Queste ultime possono considerarsi tipizzate anche soltanto attraverso generico riferimento a violazioni degli obblighi di obbedienza, diligenza e fedeltà - come avviene in taluni CCNL - cioè mediante clausole generali: diversamente, tutte le sanzioni irrogate in base a tali contratti collettivi e a loro clausole disciplinari affisse in azienda dovrebbero essere invalidate per violazione dell’art. 7, comma 1, Stat.
Se ciò è vero e se la singola condotta contestata in sede disciplinare, oltre a non rientrare nella previsione legale di giusta causa o giustificato motivo soggettivo (altrimenti il problema de quo neppure si porrebbe), non è lontanamente sussumibile in nessuna delle previsioni collettive (neppure attraverso loro interpretazione ex art. 1365 c.c.), allora ciò vuol dire che il fatto contestato è irrilevante sul piano disciplinare.
E se una data condotta è giuridicamente irrilevante come illecito disciplinare, per consolidata giurisprudenza le si applica la tutela reintegratoria ai sensi dell'art. 18, comma 4, Stat., che annovera in sé anche l'ipotesi del fatto oggetto di addebito che, pur sussistente da un punto di vista materiale, tuttavia non è illecito e, quindi, non è sanzionabile in via disciplinare .
Quest’ultima giurisprudenza, nella parte in cui riconduce al comma 4 anche l’irrilevanza del fatto da un punto di vista disciplinare, è ricordata e condivisa – si noti - anche dalla citata Cass. n. 12365/19.
Né valga obiettare che rispetto all’illecito non tipizzato dalla contrattazione collettiva fra quelli passibili di sanzione conservativa e, nel contempo, neppure riconducibile al concetto di giusta causa o giustificato motivo soggettivo, il licenziamento sarebbe sproporzionato e che un licenziamento sproporzionato sarebbe regolato dal comma 5 (sebbene esso non ne contenga menzione alcuna, neppure implicita).
Invero, affermare che un dato licenziamento è illegittimo perché “sproporzionato” significa solo, a rigor di termini, che l’infrazione addebitata al lavoratore è eccessiva, ossia che non è qualificabile come inadempimento di gravità tale da ledere irrimediabilmente il rapporto fiduciario, cioè che non integra giusta causa o giustificato motivo soggettivo.
Insomma, dire che un licenziamento è sproporzionato non contribuisce in alcun modo alla soluzione del dilemma in oggetto.
Suscita ancora maggiori perplessità l’argomentazione – spesa da Cass. n. 12365/19 – secondo la quale, se un singolo illecito è inquadrabile, ex ante, indifferentemente tra le condotte punibili con sanzione espulsiva o conservativa, esso non avrebbe carattere di tipicità e che il giudizio di proporzionalità, effettuato ex post dal giudice, esulerebbe dal comma 4 dell’art. 18 .
Ora, in realtà non esistono contratti collettivi che puniscano una data condotta indifferentemente con sanzione espulsiva o conservativa: la sanzione dipende sempre dalla maggiore o minore gravità dell’illecito disciplinare, come nel classico esempio dell’insubordinazione, che può essere lieve o grave.
In tale evenienza non è che il contratto collettivo non tipizzi l’infrazione (e la relativa sanzione), anzi, ne tipizza due: l’una è l’insubordinazione grave, l’altra è l’insubordinazione lieve.
Non si vede perché mai tali due forme di insubordinazione dovrebbero essere considerate “non tipiche” sol perché il giudizio di proporzionalità viene effettuato ex post dal giudice: tale giudizio di proporzionalità risulta effettuato anche, ex ante, dalla contrattazione collettiva e ciò è assolutamente normale e proprio della consueta dialettica tra fattispecie (delineata in astratto dalla norma) e fatto (verificatosi in concreto).
Proseguendo oltre nel discorso, si tenga presente che la tipicità delle infrazioni e delle relative sanzioni opera sempre (in ambito giuslavoristico, penalistico e amministrativo) a tutela dell’incolpato, mentre a seguire l’indirizzo di Cass. n. 12365/19 e delle altre pronunce ad essa conformi avremmo una tipicità sviata ai danni dell’incolpato, con vera e propria eterogenesi dei fini.
Infatti, il sostenere che una data condotta non è tipica se la clausola contrattuale non la specifica esattamente e precisamente in tutti i suoi dettagli restringe l’ambito degli illeciti tipizzati (tali considerandosi solo quelli perfettamente sovrapponibili alla previsione negoziale) e, nel contempo, allarga le maglie del non tipico.
Ma mentre in ambito penalistico e amministrativo quanto più si riduce l’area degli illeciti tipici tanto più si ampliano i margini di libertà dell’incolpato, nella materia giuslavoristica delle sanzioni disciplinari ammettere che possano risultare rilevanti (in termini di perdita del posto di lavoro, seppur alleviata dal pagamento d’una indennità) infrazioni disciplinari non specificamente e precisamente tipizzate ridonderebbe a carico del lavoratore: egli si vedrebbe applicata una tutela meno pregnante (quella del comma 5 anziché quella del comma 4) sol perché, in ipotesi, la condotta addebitatagli non rientra perfettamente ed esattamente in una delle fattispecie precisamente descritte dalla contrattazione collettiva come passibili di (sola) sanzione conservativa.
Giova ribadire: non si tratterebbe di prendere atto d’un insindacabile scelta di merito (del legislatore o delle parti collettive), ma di attribuire all’art. 18 Stat. un significato assolutamente irragionevole e non conforme alla Costituzione.
L’orientamento di Cass. n. 12365/19 e delle altre ad essa conformi esaspera il concetto di tipicità al punto da espungere dalla fattispecie tipizzata (dalla contrattazione collettiva o dal codice disciplinare applicabile in azienda) tutto ciò che non vi rientri perfettamente e in dettaglio.
Eppure, in generale, in vari ambiti secondo la giurisprudenza di legittimità la tipicità di clausole generali non esclude che ad esse vada ricondotta in via interpretativa una vasta gamma di sfumature e di casi particolari .
Una siffatta esasperazione del concetto di tipicità sarebbe un vero e proprio unicum nella giurisprudenza della S.C. e della Corte cost.: non troverebbe riscontro neppure nei più rigorosi criteri penalistici, atteso che per costante giurisprudenza sono pur sempre tipiche (e, in quanto tali, rispettose dell’art. 25 Cost.) le numerosissime norme incriminatrici a fattispecie c.d. “aperta” o “in bianco” .
In questo senso può dirsi che l’infrazione passibile di sanzione conservativa deve sempre essere tipizzata negozialmente, fermo restando che tale tipizzazione può avvenire anche mediante fattispecie aperta o in bianco, qualificata anche soltanto dal mero rinvio alla maggiore o minore gravità della violazione degli obblighi di obbedienza, diligenza e fedeltà.
4- L’interpretazione delle clausole disciplinari nei contratti collettivi
Abbiamo sopra anticipato che non è convincente neppure l’idea che le parti collettive, tipizzando talune condotte passibili di sanzione espulsiva e non anche altre, abbiano avuto proprio l’intento di espungere le seconde dall’area della reintegra una volta che, all’esito della verifica giurisdizionale, resti esclusa l’esistenza di giusta causa o giustificato motivo soggettivo di licenziamento, di guisa che l’interpretazione restrittiva dell’art. 18 comma 4 non farebbe altro che recepire una libera e insindacabile scelta contrattuale: è agevole replicare che irragionevolezza e disparità di trattamento sopra evidenziate derivano non già da un’espressa e consapevole pattuizione collettiva in tal senso, bensì da un dato del tutto casuale, ossia dalla maggiore o minore approssimazione della tecnica espositiva d’un dato CCNL.
Non si può fondatamente sostenere che se le parti hanno superficialmente descritto gli illeciti passibili di sanzione conservativa (magari con formulazioni concepite in epoca anteriore alla novella operata dalla legge Fornero e tralaticiamente ripetute nei successivi contratti) lo abbiano fatto proprio allo scopo di differenziare la tutela applicabile al lavoratore in caso di licenziamento illegittimo.
Né si può discutere, in tema di interpretazione dei contratti, in termini di analogia o di suo divieto: a fronte di contratti parliamo sempre e soltanto di eventuale interpretazione ex art. 1365 c.c. e cioè di normale regola ermeneutica espressamente prevista dal codice e basata sul ritenuto intento contrattuale implicito, che minus dixit quam voluit.
Nemmeno si può dire che un’interpretazione di singola clausola contrattuale che ex art. 1365 c.c. porti ad arricchirne la portata si scontri con il divieto di analogia desunto dall’asserita eccezionalità della reintegra: a parte il fatto che in realtà la reintegra non è eccezionale (v. infra), detta affermazione confonde due piani, quello dell’interpretazione del contratto e quello dell’interpretazione della norma, sostanzialmente finendo con il trasferire sul primo un vincolo che tecnicamente esiste solo riguardo al secondo.
E comunque, ove pure si volesse supporre, malgrado l’assenza di qualsivoglia indizio in proposito, una comune volontà delle parti collettive volta a ridurre il campo di applicazione della reintegra c.d. attenuata, resterebbe dirimente il rilievo che l’effetto giuridico previsto dalla legge (cioè il tipo di tutela applicabile) non è nella disponibilità delle parti, essendo l’art. 18 Stat. norma inderogabile.
5- Il preteso carattere residuale della reintegra nel posto di lavoro
Non sembra rispondere al vero neppure l’affermazione che, nel sottosistema dei licenziamenti individuali disciplinati dall’art. 18 Stat. e applicato in ambito diverso da quello dei contratti a tutele crescenti, il rimedio reintegratorio sia eccezionale: è un’affermazione tralaticia che non trova riscontro nel testo della norma.
Infatti, i commi 1, 4 e 7 dell’art. 18 applicano la tutela reintegratoria (piena o attenuata) a licenziamenti disciplinari, licenziamenti verbali, licenziamenti intimati in concomitanza di matrimonio o in violazione delle tutele previste in materia di maternità e paternità, licenziamenti viziati da discriminazioni, da motivi illeciti, da violazione di norme imperative di legge, da violazione dell’art. 2110 comma 2 c.c. o degli artt. 4, comma 4, e 10, comma 3, legge n. 99/68, nonché a licenziamenti intimati per giustificato motivo oggettivo rivelatosi insussistente .
Nel pubblico impiego contrattualizzato, poi, già il rimedio della reintegra nel testo dell’art. 18 Stat. previgente rispetto alla novella apportata dalla legge n. 92/2012 era l’unico applicabile in presenza di licenziamenti illegittimi e a prescindere dal dato dimensionale dell’amministrazione di appartenenza (v. art. 51 comma 2 d.lgs. n. 165/2001), rimedio poi espressamente previsto dal vigente art. 63, comma 2, II periodo, d.lgs. n. 165/2001 come modificato dal d.lgs. n. 75/2017, secondo il quale “Il giudice, con la sentenza con la quale annulla o dichiara nullo il licenziamento, condanna l’amministrazione alla reintegrazione del lavoratore nel posto di lavoro e al pagamento di un’indennità risarcitoria commisurata all’ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del trattamento di fine rapporto corrispondente al periodo dal giorno del licenziamento fino a quello dell’effettiva reintegrazione, e comunque in misura non superiore alle ventiquattro mensilità, dedotto quanto il lavoratore abbia percepito per lo svolgimento di altre attività lavorative. Il datore di lavoro è condannato, altresì, per il medesimo periodo, al versamento dei contributi previdenziali e assistenziali.”
Dunque, il catalogo delle ipotesi di reintegra in ambito diverso da quello dei contratti a tutele crescenti è lunghissimo.
Invece, la tutela indennitaria c.d. forte del comma 5 si applicherebbe, anche a voler seguire l’indirizzo di Cass. n. 12365/19, a poche ipotesi (basta fare uno screening fra i precedenti della S.C.), così come statisticamente pochi e marginali sono i casi di tutela indennitaria c.d. debole: violazioni meramente formali dell’iter disciplinare ex art. 7 Stat., violazione dell’obbligo di motivazione del licenziamento ex art. 2 legge n. 604/66 o violazione della procedura conciliativa dell’art. 7 stessa legge n. 604/66.
E allora, se le supposte eccezioni (le ipotesi di reintegra, piena o attenuata) sono più numerose e frequenti della presunta regola (la tutela indennitaria, forte o debole), ciò vuol dire che il rapporto regola / eccezione va invertito .
Da un punto di vista letterale, l’incipit del comma 5 (<<Il giudice, nelle altre ipotesi in cui accerta che non ricorrono gli estremi ...>>) è proprio delle norme di chiusura, in quanto tale applicabile solo in via residuale: prova ne sia che anche da un punto di vista topografico tale disposizione segue quelle relative alle reintegre di cui ai commi 1 e 4.
E una norma di chiusura non può condizionare (o, peggio, ispirare) l'esegesi dell'intero impianto normativo in discorso, avendo il solo fine di prevenirne possibili lacune.
Insomma, la tutela indennitaria - in realtà - è una mera enclave all’interno d’un sottosistema (quello dei licenziamenti intimati riguardo a rapporti sorti prima del 7.3.2015) che privilegia il rimedio reintegratorio.
Farne – invece – un principio generale in modo da qualificare come eccezionale la reintegra è un ragionamento non solo affetto da petizione di principio (perché sposta in ipotesi quella che è la tesi da dimostrare), ma soprattutto smentito dalla lettura complessiva dell’art. 18 e dalla quotidiana esperienza giurisprudenziale.
6- La reintegra come sanzione del solo abuso consapevole del potere disciplinare
Ancor meno persuasivo è il sostenere che nel vigente testo dell’art. 18 Stat. la reintegra sarebbe prevista come sanzione del solo “abuso consapevole del potere disciplinare”: un’asserzione del genere non trova riscontro alcuno nel testo dell’art. 18 e trascura che il licenziamento illegittimamente intimato integra pur sempre un illecito contrattuale, che ex art. 1218 c.c. prescinde dalla dimostrazione dell’elemento soggettivo della parte inadempiente.
Né può dirsi che il vigente art. 18 Stat. contenga una deroga (esplicita o implicita) all’art. 1218 c.c.: anzi, gli è perfettamente coerente.
D’altronde, se per la reintegra si pretendesse (anche) il requisito di un consapevole abuso del potere disciplinare, non si potrebbe - ad esempio - reintegrare il lavoratore vittima di licenziamento solo oggettivamente discriminatorio, sebbene sia pacifica l’irrilevanza dell’intenzionalità o della consapevolezza della discriminazione.
Ancora: non si potrebbe reintegrare il lavoratore ogni qual volta il licenziamento sia stato intimato in base ad una situazione apparente di grave inadempimento che abbia indotto in errore un datore di lavoro in buona fede, ingannato da terzi estranei all’azienda, apparenza magari svelata solo all’esito di lunga e complessa istruttoria giudiziaria.
Neppure si potrebbe ordinare la reintegra in base ad un revirement giurisprudenziale non previsto dal datore di lavoro che abbia fatto incolpevole affidamento sul precedente e costante difforme orientamento.
7- Prevedibilità dei casi di reintegra
Né pare condivisibile giustificare l’applicazione del comma 5 dell’art. 18 Stat. con esigenze di maggiore prevedibilità: se così fosse dovremmo espungere dal novero dei criteri interpretativi l’art. 1365 c.c. oppure negare il sindacato di legittimità sull’interpretazione delle clausole generali e di tutte le norme elastiche e sul giudizio di sussunzione in esse del caso concreto, il che ovviamente non è .
Insomma, secondo costante giurisprudenza l’errore di sussunzione è configurabile anche rispetto alle norme elastiche, che per loro stessa natura hanno ampi margini di variabilità (e di conseguente imprevedibilità): si pensi, oltre che alla giusta causa, ai principi di correttezza e buona fede, ai concetti di interesse del minore, di concorrenza sleale, di stato di bisogno, di assistenza morale e materiale fra coniugi etc.
8- La portata residua del comma 5 dell’art. 18 Stat.
Neppure sembra fondata l’obiezione che il maggior ambito di applicazione del comma 4 dell’art. 18 Stat. sopra sostenuto finirebbe con l’esaurire di fatto la portata applicativa del comma 5.
Non è così.
Abbiamo sopra anticipato che l’incipit del comma 5 e la sua collocazione topografica militano nel senso d’una mera norma di chiusura.
E le norme di chiusura, proprio in quanto tali, vengono formulate dal legislatore in via prudenziale affinché non residuino impreviste lacune di disciplina: pertanto, non vi sarebbe scandalo in una norma di chiusura che, poi, non trovasse pratica applicazione.
Ma in realtà non è neppure vero che il comma 5 non troverebbe pratica applicazione.
Esso potrebbe applicarsi - quanto meno – al licenziamento intimato per giusta causa extralavorativa, cioè per comportamenti non qualificabili come illeciti disciplinari: v., ad esempio, il licenziamento nelle imprese di tendenza motivato da libere condotte o manifestazioni del pensiero, da parte del lavoratore, poste in essere al di fuori dello svolgimento delle mansioni lavorative, ma incompatibili con la tendenza espressa dall’impresa.
Ancora: il comma 5 è applicabile al licenziamento disciplinare intimato per un’infrazione disciplinare tipizzata dalla contrattazione collettiva come passibile di sanzione espulsiva che, sebbene provata, tuttavia risulti eccessiva viste le concrete connotazioni oggettive e soggettive dell’illecito contestato .
Si noti che anche nel pubblico impiego contrattualizzato il licenziamento non costituisce mai un effetto automatico della conformità dell'illecito all’astratta previsione legislativa, ma è applicabile sempre a condizione che, valutate tutte le circostanze oggettive e soggettive del caso concreto, la misura risulti proporzionata rispetto alla gravità del comportamento contestato .
9- Il giudizio di proporzionalità del licenziamento disciplinare nei rapporti di lavoro a tutele crescenti
Recita l’art. 3 co. 2° d.lgs. n. 23/2015: "Esclusivamente nelle ipotesi di licenziamento per giustificato motivo soggettivo o per giusta causa in cui sia direttamente dimostrata in giudizio l'insussistenza del fatto materiale contestato al lavoratore, rispetto alla quale resta estranea ogni valutazione circa la sproporzione del licenziamento, il giudice annulla il licenziamento e condanna il datore di lavoro alla reintegrazione del lavoratore nel posto di lavoro e al pagamento di un'indennità risarcitoria commisurata all'ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del trattamento di fine rapporto, corrispondente al periodo dal giorno del licenziamento fino a quello dell'effettiva reintegrazione, dedotto quanto il lavoratore abbia percepito per lo svolgimento di altre attività lavorative, nonché quanto avrebbe potuto percepire accettando una congrua offerta di lavoro ai sensi dell'articolo 4, comma 1, lettera c), del decreto legislativo 21 aprile 2000, n. 181, e successive modificazioni. In ogni caso la misura dell'indennità risarcitoria relativa al periodo antecedente alla pronuncia di reintegrazione non può essere superiore a dodici mensilità dell'ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del trattamento di fine rapporto. Il datore di lavoro è condannato, altresì, al versamento dei contributi previdenziali e assistenziali dal giorno del licenziamento fino a quello dell'effettiva reintegrazione, senza applicazione di sanzioni per omissione contributiva. Al lavoratore è attribuita la facoltà di cui all'articolo 2, comma 3.".
Da un punto di vista letterale la norma condiziona la reintegra nel posto di lavoro, in caso di licenziamento disciplinare risultato privo di giusta causa o giustificato motivo soggettivo, alla diretta dimostrazione in giudizio dell'insussistenza del fatto materiale contestato al lavoratore ed esclude che a tal fine il giudice possa effettuare il giudizio di proporzionalità tra fatto e sanzione espulsiva.
Nei paragrafi che seguono si cercherà di evidenziare quali siano criticità e aporie di tale testo normativo.
10- La nota querelle tra fatto giuridico e fatto materiale
La questione si era posta già all’indomani della novella apportata dalla legge n. 92/2012, con riferimento alla “insussistenza del fatto contestato” che si legge nel comma 4 del nuovo testo dell'art. 18 Stat., essendosi la dottrina domandata se tale locuzione dovesse intendersi come inesistenza (anche solo giuridica) del fatto o come necessaria inesistenza del fatto materiale (o mero fatto) .
Evidentemente consapevole di tali problemi interpretativi, il legislatore del Jobs Act ha specificato che tale insussistenza deve essere riferita al fatto materiale e che essa deve essere “direttamente dimostrata” in giudizio.
Secondo qualche primo commento, l'inciso "l'insussistenza del fatto materiale contestato al lavoratore, rispetto alla quale resta estranea ogni valutazione circa la sproporzione del licenziamento", da un punto di vista strettamente letterale condurrebbe a valutare soltanto il fatto "nudo e crudo" .
Ma valgano in contrario le osservazioni che si erano già svolte all’indomani della legge Fornero, che aveva fatto subito registrare due diverse opzioni ermeneutiche.
Secondo la prima, la reintegra (sia pure nella sua forma c.d. attenuata di cui al comma 4 del cit. art. 18) sarebbe spettata sia quando il fatto materiale si fosse rivelato insussistente sia quando, pur esistente, tuttavia non avesse presentato profili di illiceità disciplinare .
In altre parole, l'insussistenza del fatto contestato, di cui all'art. 18 legge n. 300 del 1970, come modificato dall'art. 1, comma 42, legge n. 92 del 2012, comprendeva anche quella del fatto materialmente sussistente, ma non illecito, non essendo plausibile che il legislatore, parlando di "insussistenza del fatto contestato", avesse voluto negarla nel caso di fatto materialmente sussistente, ma privo del carattere di illiceità, ossia non suscettibile di alcuna sanzione.
La seconda opzione riservava, invece, la tutela reintegratoria (sempre attenuata) alla sola evenienza dell'insussistenza materiale del fatto, di guisa che, ove esso in rerum natura fosse esistito (pur non integrando gli estremi della giusta causa o del giustificato motivo soggettivo), ai sensi del comma 5 sarebbe stata dovuta la mera tutela indennitaria (ancorché c.d. forte) .
La prima opzione è quella ormai accolta da consolidata giurisprudenza di legittimità .
Militano a suo favore validi argomenti affinché nella locuzione "insussistenza del fatto contestato" il fatto vada inteso in senso giuridico e non meramente materiale.
E ciò sotto plurime angolazioni.
Sotto una prima, di teoria generale del diritto, va tenuto presente che il mero fatto non ha mai un proprio autonomo rilievo nel mondo giuridico al di fuori della qualificazione che - espressamente od implicitamente - ne fornisca una data norma.
Il mero fatto "non è giuridicamente apprezzabile se non attraverso la sua valutazione alla luce di parametri normativi ... Altrimenti il fatto (la sua esistenza) è per definizione irrilevante per il diritto, e non può assurgere a criterio di selezione dell'effetto." .
Lo stesso punto d'arrivo è suggerito in un'ottica sostanzialistica e di coerenza interna del vigente art. 18 Stat., nonché di compatibilità costituzionale.
L'unica interpretazione del vigente testo dell'art. 18 cit. idonea ad assicurargli coerenza interna e compatibilità costituzionale è quella secondo cui la tutela reintegratoria attenuata si applica non solo quando il fatto contestato materialmente non sia mai avvenuto, ma anche quando manchi qualcuno degli elementi oggettivi o soggettivi della fattispecie di giusta causa o giustificato motivo soggettivo.
Inoltre, se per insussistenza del fatto contestato si intendesse quella a livello meramente materiale od oggettivo, si otterrebbe l’illogico effetto di riconoscere maggior tutela (quella reintegratoria c.d. attenuata di cui all'art. 18, comma 4) a chi abbia comunque commesso un illecito disciplinare (seppur suscettibile di mera sanzione conservativa alla stregua dei contratti collettivi o dei codici disciplinari applicabili) rispetto a chi, invece, non ne abbia commesso alcuno, avendo tenuto una condotta sotto ogni profilo lecita (e magari integrante esercizio di diritto costituzionalmente sancito) oppure avendo commesso un fatto disciplinarmente rilevante solo nei suoi elementi materiali, ma sfornito del necessario coefficiente soggettivo in termini di colpa o dolo: in quest'ultimo caso il lavoratore godrebbe della mera tutela indennitaria di cui al comma 5 dello stesso articolo.
L'esito sarebbe quello d'una irragionevole disparità di trattamento, in violazione dell'art. 3 Cost., oltre che d'una intrinseca e inspiegabile aporia all'interno della medesima disposizione di legge.
Ad analogo risultato conduce l'approccio sotto una visuale processualistica, ineludibile perché l'art. 18 Stat. è pur sempre norma di applicazione esclusivamente giudiziaria e, quindi, attuata mediante processo.
Invero, per consolidata giurisprudenza , giusta causa o giustificato motivo di licenziamento sono fatti impeditivi o estintivi del diritto del dipendente di proseguire nel rapporto di lavoro, vale a dire eccezioni (non a caso, ex art. 5 legge n. 604/66 la giusta causa o il giustificato motivo di licenziamento devono essere provati dal datore di lavoro).
E tutte le eccezioni, proprio perché tali, sono necessariamente composte – a differenza dalle mere difese - da un fatto (inteso in senso storico-fenomenico) e dalla sua significatività giuridica (in termini di impedimento, estinzione o modificazione della pretesa azionata dall'attore), tale da ampliare il thema probandum.
In altre parole, per sua stessa natura l'eccezione non ha mai ad oggetto un mero fatto, ma sempre un fatto giuridico.
Anche sotto una visuale di tecnica legislativa, parlare di <<insussistenza del fatto contestato>> già di per sé evoca un concetto giuridico nell'ambito del procedimento disciplinare, che notoriamente mima (in sedicesimo) scansioni e forme del processo penale e, con la suddetta locuzione, anche una delle possibili formule terminative.
Ad esempio, per insussistenza del fatto in ambito penale si intende insussistenza del fatto-reato, cioè d'un fatto giuridico, non certo d'un mero fatto materiale (non a caso la formula viene impiegata non solo in ipotesi di inesistenza dell'elemento oggettivo del reato, ma anche in quella di non sussumibilità del fatto nella norma incriminatrice).
Dunque, ai fini della reintegra deve guardarsi al fatto giuridico, vale a dire a un illecito disciplinare propriamente detto, in quanto tale composto da tutti i suoi elementi non solo oggettivi, ma anche soggettivi, atteso che, per costante interpretazione giurisprudenziale e conformi previsioni dei contratti collettivi, non si danno ipotesi di responsabilità disciplinare che prescindano da dolo o colpa del lavoratore.
Insomma, il fatto contestato può dirsi insussistente sia quando ne manchi addirittura l'elemento materiale sia quando ne difetti quello psicologico (dolo o colpa) o ne manchino entrambi, sia - infine - quando ne manchi la giuridica riconducibilità alla nozione legale di giusta causa o giustificato motivo soggettivo.
In breve, tanto per parafrasare il lessico dei penalisti, il fatto disciplinare non sussiste quando non risultino integrati i principi di materialità, colpevolezza e offensività.
Ciò spiega perché, anche rispetto all’art. 3, comma 2, d.lgs. n. 23/2015, la S.C., con sentenza n. 12174/2019, abbia sancito che l'insussistenza del fatto materiale contestato al lavoratore, ai fini della pronuncia reintegratoria, comprende non soltanto i casi in cui il fatto non si sia verificato nella sua materialità, ma anche tutte le ipotesi in cui il fatto, pur materialmente accaduto, non abbia rilievo disciplinare.
D’altronde, tanto l’art. 3 co. 2° d.lgs. n. 23/15 quanto l’art. 18 co. 4° Stat. parlano di “fatto contestato”: e ovviamente la contestazione ex art. 7 Stat. non ha mai ad oggetto, puramente e semplicemente, un fatto materiale a prescindere dalla sua rilevanza disciplinare .
Deve quindi concordarsi con chi, in dottrina, ha ritenuto che il riferimento al fatto “materiale” sia stato impiegato in senso atecnico e con chi ha affermato che <<l’interprete del sistema non può rinunziare a ricostruire fattispecie ragionevoli e non può acquietarsi di fronte ad un’espressione che par voler consentire soluzioni del tipo “ti licenzio perché piove”>> .
In breve, sarebbe del tutto irrazionale interpretare il fatto contestato quale mero accadimento materiale svincolato da ogni inadempimento del lavoratore nello svolgimento della propria prestazione .
11- Insussistenza del fatto materiale “direttamente dimostrata in giudizio”
Quanto alla necessità che l’insussistenza del fatto materiale debba essere direttamente dimostrata in giudizio affinché nel contratto a tutele crescenti il lavoratore possa godere del rimedio reintegratorio, si tratta di affermazione che sostanzialmente altera - malgrado il permanente art. 5 legge n. 604/66 - l'onere della prova sia pure ai soli fini del tipo di tutela, giacché l'unico interessato a fornire la prova (per di più diretta) dell'insussistenza del fatto materiale è il lavoratore.
Questi, per poter godere della tutela reintegratoria attenuata, sarebbe onerato della prova d'un fatto negativo (l'insussistenza del fatto materiale contestatogli).
Né si dica che la prova d'un fatto negativo può fornirsi mediante la dimostrazione di fatti positivi con esso incompatibili, poiché gli unici fatti positivi incompatibili con il fatto materiale addebitato sono o un alibi, inteso in senso processualpenalistico, oppure l'individuazione d'un diverso autore dell'illecito disciplinare contestato: a parte il contrasto – giova rimarcare - con l’art. 5 legge n. 604/66, non sarebbe né logico né costituzionalmente legittimo gravare il lavoratore della prova positiva di un alibi e dell’individuazione del vero autore dell’illecito.
Appare, poi, frutto d’una inquietante approssimazione tecnica l’uso dell’avverbio “direttamente", davvero inspiegabile se con esso il legislatore ha inteso richiedere una prova diretta, con esclusione, quindi, di prove meramente presuntive, a meno di supporre che si sia voluto introdurre un regime di prova legale in materia consentendo la sola prova diretta, prova diretta che può darsi soltanto in via testimoniale o documentale (sia pure intendendo per documento anche quello filmato od informatico).
Ma ciò violerebbe il diritto alla prova (v. art. 111 Cost.) con ogni mezzo consentito dall'ordinamento e, per l’effetto, il diritto di difesa (art. 24 Cost.).
Dunque, stante l’obbligo d’una interpretazione costituzionalmente conforme, l’avverbio “direttamente” non può essere inteso come escludente le prove indirette, ossia quelle presuntive.
12- La valutazione da parte del giudice della sproporzione del licenziamento disciplinare intimato in ambito di contratti a tutele crescenti.
"Estranea ogni valutazione circa la sproporzione del licenziamento": così recita il cit. art. 3 comma 2 del d.lgs. n. 23/2015.
Dunque, secondo il tenore letterale della norma un licenziamento potrebbe risultare anche manifestamente sproporzionato, magari intimato per un'infrazione di infimo rilievo (ad esempio, un minuto o pochi secondi di ritardo al lavoro e per una sola volta) e, nondimeno, essere idoneo ad estinguere il rapporto (vista, appunto, l’applicazione della tutela meramente indennitaria).
Ciò non si concilia con l'art. 2106 c.c. (in virtù del quale le sanzioni disciplinari possono essere applicate "secondo la gravità dell'infrazione") e con costante giurisprudenza secondo cui l'illecito disciplinare presuppone pur sempre colpa o dolo.
Alla luce della norma in commento, invece, sembra che poco importi la maggiore o minore gravità dell'infrazione o l'esistenza o meno di dolo o colpa: purché il fatto materiale esista, per ciò solo il datore di lavoro potrà ottenere l'effetto risolutivo del rapporto (nella peggiore delle ipotesi pagando solo uno scotto indennitario).
Ma – verrebbe da obiettare - non solo i fatti, anche i principi di diritto hanno la testa dura.
La norma in commento presenta evidenti profili di illegittimità costituzionale per ingiustificate disparità di trattamento, per violazioni del diritto di difesa d'una sola categoria di cittadini (i lavoratori dipendenti) e per mancata tutela del valore fondante della Costituzione (il lavoro), ma soprattutto per intrinseca irragionevolezza (e, quindi, per violazione dell'art. 3 Cost.).
Ma, a parte i profili di illegittimità costituzionale , la norma presenta altre criticità che potrebbero addirittura finire con il provocare, in pratica, un'estensione di quella tutela reintegratoria (piena, questa volta) che il legislatore del Jobs Act avrebbe voluto ridimensionare.
Infatti, come sostenuto dalla più autorevole dottrina, gli atti unilaterali sono tipici .
E il licenziamento disciplinare è un atto (di natura negoziale) unilaterale tipico.
In quanto atto tipico deve necessariamente essere munito di una causa rinvenibile nella legge, che si identifica nella funzione di risolvere il rapporto di lavoro per reazione all'altrui notevole inadempimento.
Ora, nell'ottica dell'art. 3 comma 2 del cit. d.lgs. n. 23/2015, un licenziamento disciplinare potrebbe risultare intimato anche per infrazioni disciplinari non tali da integrare notevole inadempimento o, addirittura, senza che vi sia inadempimento alcuno, vale a dire in totale assenza di giusta causa o giustificato motivo soggettivo, con conseguente difetto di causa.
Infatti, negare al giudice la possibilità di valutare la sproporzione del licenziamento vuol dire negargli la possibilità di accertare se inadempimento – e in quale misura – vi sia stato, il che nel contempo impedisce l’accertamento che il negozio (licenziamento) sia effettivamente funzionale alla causa che gli è propria.
Ma non si può ammettere che l’incerta esistenza della causa lasci comunque in vita il negozio, atteso che il difetto di causa comporta nullità ai sensi del combinato disposto degli artt. 1418 comma 2, 1325 e 1324 c.c.
E la nullità del licenziamento nei casi previsti dalla legge implica la tutela reintegratoria piena ai sensi del comma 1 dell'art. 2, d.lgs. n. 23/2015, non già una tutela meramente indennitaria.
Si potrebbe obiettare che il fenomeno non è nuovo, nel senso che già oggi, al di fuori del requisito dimensionale di cui all'art. 18 Stat., si applica la mera tutela indennitaria (alternativa alla mancata riassunzione entro tre giorni) prevista dall’art. 8 legge n. 604/66 malgrado l’invalidità del licenziamento perché del tutto privo di giusta causa e giustificato motivo e magari intimato in totale assenza di qualsivoglia (anche minimo) inadempimento e, quindi, in assenza di causa.
Ma la differenza, non di poco conto, è che lì v'è una norma che tratta alla stessa maniera ogni insussistenza di giusta causa o giustificato motivo in ambito occupazionale inferiore a quello di cui all'art. 18 Stat. (o nell’area di non applicazione di cui all’art. 4 legge n. 108/90), mentre nell'area dimensionale di quest'ultimo il Jobs Act ha la singolare pretesa di trattare in modo deteriore licenziamenti intimati per fatti pur esistenti, ma non integranti inadempimento alcuno.
Né, infine, può tacersi della assai probabile nullità per illiceità del motivo determinante (ai sensi del combinato disposto degli artt. 2, comma 1, d.lgs. n. 23/2015 e 1345 c.c.) d'un licenziamento intimato in assenza di qualsivoglia inadempimento: infatti, sarebbe difficile negare, quanto meno in via di prova presuntiva, l'intento in realtà ritorsivo o discriminatorio d'un licenziamento intimato per un inadempimento non già di minima entità, ma addirittura totalmente inesistente già a livello di mera formulazione dell’addebito.
Dunque, anche riguardo all’art. 3 comma 2 d.lgs. n. 23/2015 sui contratti a tutele crescenti il dovere d’una interpretazione costituzionalmente conforme conduce ad esiti non dissimili da quelli già sperimentati nei contratti di lavoro sorti in epoca anteriore al 7.3.2015.