TESTO INTEGRALE CON NOTE E BIBLIOGRAFIA
1. Una necessaria premessa
La legge n. 92/2012 rivoluziona il sistema delle sanzioni per violazione dell’art. 18 della l. 300/1970. In luogo della garanzia universale della tutela integrale, reintegra e completo ristoro economico, frammenta il sistema delle sanzioni in un caleidoscopio non sempre, anzi molto spesso, dotato di armonia e di razionalità. Il decreto legislativo n. 23/2015 non inverte la rotta, anzi riproduce lo schema.
Il quadro d’insieme che ne deriva presenta tuttora (nonostante i diversi interventi della Corte costituzionale volti ad eliminare le punte di maggiore irrazionalità e di più stridente violazione dei principi costituzionali sul diritto al lavoro) “un livello di complessità sistemica ai limiti della (in)governabilità, probabilmente senza pari sul piano comparato, con buona pace dei propositi di semplificazione dei nostri riformatori” (S.Giubboni, Anni difficili, 2020, p. XV). La stessa Corte costituzionale in uno dei suoi più rilevanti arresti, di cui si tratterà qui estesamente (sent. n.150/2020) ha invitato il Legislatore a rimettere mano alla materia in una chiave più intrinsecamente razionale e maggiormente rispettosa della dignità del lavoro come configurata dalla Carta.
I (tanti) dubbi interpretativi che ancora residuano devono però essere sempre risolti avendo presente quello che è il principio guida seguito dalla Corte costituzionale nei suoi frequenti interventi nel modificare la normativa, in quanto anticostituzionale: “il diritto del lavoratore di non essere ingiustamente licenziato si fonda sui principi enunciati dagli artt. 4 e 35 Cost. e sulla speciale tutela riconosciuta al lavoro in tutte le sue forme e applicazioni, in quanto fondamento dell’ordinamento repubblicano (art. 1 Cost.)”.
E’ vero che l’attuazione di tali principi è demandata alle valutazioni discrezionali del legislatore: ma tanto non basta ad esonerarlo dal rispetto dei principi di eguaglianza e di ragionevolezza (sent. n. 59/2021, e poi n.125/2022). La diversità dei rimedi, se dunque in tal senso si è orientata la scelta legislativa, deve essere comunque sempre sorretta da una giustificazione plausibile e deve assicurare l’adeguatezza delle tutele riservate al lavoratore illegittimamente espulso, che pure non si realizza esclusivamente con la reintegrazione che non costituisce “l’unico possibile paradigma attuativo del principi costituzionali”.
Nell’attuazione dei principi sanciti dagli artt. 4 e 35 Cost, dice la Corte, essenziale è il compito del giudice, chiamato a ponderare la particolarità di ogni vicenda e a individuare di volta in volta la tutela più efficace, sulla base delle indispensabili indicazioni fornite dalla legge.
2. I licenziamenti per vizi di forma e di disciplina: le previsioni legislative
Venendo al tema dei licenziamenti per vizi di forma e di procedura, la relativa disciplina a seguito della riforma operata con la l. n. 92/2012, è situata al co. 6 del novellato art. 18 l. n.300/1970:
Nell'ipotesi in cui il licenziamento sia dichiarato inefficace per violazione del requisito di motivazione di cui all'articolo 2, comma 2, della legge 15 luglio 1966, n. 604, e successive modificazioni, della procedura di cui all'articolo 7 della presente legge, o della procedura di cui all'articolo 7 della legge 15 luglio 1966, n. 604, e successive modificazioni, si applica il regime di cui al quinto comma, ma con attribuzione al lavoratore di un'indennità risarcitoria onnicomprensiva determinata, in relazione alla gravità della violazione formale o procedurale commessa dal datore di lavoro, tra un minimo di sei e un massimo di dodici mensilità dell'ultima retribuzione globale di fatto, con onere di specifica motivazione a tale riguardo, a meno che il giudice, sulla base della domanda del lavoratore, accerti che vi è anche un difetto di giustificazione del licenziamento, nel qual caso applica, in luogo di quelle previste dal presente comma, le tutele di cui ai commi quarto, quinto o settimo.
Sulla stessa direttrice si colloca la corrispondente previsione di cui all’art. 4 del d.lgs. n. 23/2015 (cd. “Jobs act”), la cui rubrica è intitolata “Vizi formali e procedurali”
Nell'ipotesi in cui il licenziamento sia intimato con violazione del requisito di motivazione di cui all'articolo 2, comma 2, della legge n. 604 del 1966 o della procedura di cui all'articolo 7 della legge n. 300 del 1970, il giudice dichiara estinto il rapporto di lavoro alla data del licenziamento e condanna il datore di lavoro al pagamento di un'indennità non assoggettata a contribuzione previdenziale di importo pari a una mensilità dell'ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del trattamento di fine rapporto per ogni anno di servizio, in misura comunque non inferiore a due e non superiore a dodici mensilità, a meno che il giudice, sulla base della domanda del lavoratore, accerti la sussistenza dei presupposti per l'applicazione delle tutele di cui agli articoli 2 e 3 del presente decreto.
Come noto, l’art.1 co.37 della l. n. 92/2012 ha modificato il co.2 dell’art. 2 della l. n.604/1966, (che attribuiva al prestatore di lavoro la facoltà di chiedere, entro otto giorni dalla comunicazione, i motivi su cui si fondava il recesso: a tale richiesta il datore di lavoro era tenuto a rispondere entro cinque giorni), così introducendo l’obbligo datoriale di contestuale comunicazione dei motivi del licenziamento.
Secondo il tenore letterale della norma (ma si approfondirà più avanti il tema, prospettandone i risvolti più problematici), la violazione dello specifico obbligo viene sanzionata secondo il trattamento riservato ai vizi formali e procedurali, che nella specie vengono individuati nelle prescrizioni dell’art. 7 dello Statuto, per quel che riguarda l’ipotesi di licenziamento disciplinare, e (per la l. n. 92/2012, non per il Jobs act) in quelle dell’art. 7 della l. n. 604/1966, in tema di licenziamento per giustificato motivo oggettivo.
Un’altra annotazione sulla portata delle norme: entrambe sanzionano con indennità la violazione degli obblighi di forma, onnicomprensivamente intesi, a meno che, (co. 6 art. 18 L. 300, introdotto da l. n. 92/2012), “il giudice, sulla base della domanda del lavoratore, accerti che vi è anche un difetto di giustificazione del licenziamento, nel qual caso applica, in luogo di quelle previste dal presente comma, le tutele di cui ai commi quarto, quinto o settimo”; ovvero, (art. 4 d.lgs. 23/2015) “il giudice, sulla base della domanda del lavoratore, accerti la sussistenza dei presupposti per l'applicazione delle tutele di cui agli articoli 2 e 3 del presente decreto”.
Accertamento del difetto di giustificazione equivale ad accertamento della sussistenza dei presupposti per l’applicazione delle tutele maggiori, rispettivamente il difetto di giusta causa o quello di giustificato motivo: ciò comporta per il Giudice, in caso di (normale nella pratica) contestazione del recesso sia per vizi di forma sia per insussistenza delle ragioni giustificatrici, che, anche in caso di evidenza della violazione delle regole procedurali ovvero degli obblighi di motivazione, dovranno essere esplorate le prospettazioni concernenti il profilo di illegittimità sostanziale del recesso. Data la gradazione che caratterizza il catalogo delle sanzioni ideato dal legislatore che ha riformato l’art. 18 della l. n.300, non è indifferente per il lavoratore vedersi accolto l’uno o l’altro dei profili di doglianza. Ed è dunque per questo che non potrà trovare applicazione la regola di decisione che viene normalmente applicata dandosi la precedenza alla cd. “ragione più liquida”, perché questa può comportare conseguenze meno favorevoli di quelle che avrebbe potuto riportare il lavoratore licenziato illegittimamente.
3. Le indicazioni della Corte costituzionale sui licenziamenti illegittimi per violazione di regole formali e dell’obbligo di motivazione
Sui licenziamenti illegittimi per ragioni di forma dice molto la Corte costituzionale nella sentenza 150 del 16 luglio 2020.
A partire dalla l. n. 92/2012, si è visto, il Legislatore opta per una sanzione decisamente più alleggerita in caso di riscontrato vizio di procedura o di violazione dell’obbligo di motivazione: un’indennità tra sei e dodici mensilità secondo la legge Fornero, per il Jobs act originariamente un mese di retribuzione per anno di anzianità. La Corte costituzionale, dopo il suo intervento del 2018 con la sentenza 194 che elimina l’automatismo relativo al mero parametro dell’anzianità di servizio per il calcolo dell’indennizzo in caso di licenziamento illegittimo, e che dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 3, comma 1, del decreto legislativo 4 marzo 2015, n. 23, torna ad esprimersi per ciò che concerne l’illegittimità costituzionale dell’analogo meccanismo (ad importo ridotto) in caso di licenziamento illegittimo per vizio di procedura o per violazione dell’obbligo di motivazione.
Nell’occasione, il Giudice delle leggi si sarebbe potuto limitare ripetere le considerazioni già svolte nel 2018: ma non si lascia sfuggire l’occasione per un ragionamento più complessivo, in grado di fornire importanti indicazioni ermeneutiche, fondate sulla considerazione dei valori sottesi alle garanzie accordate al lavoratore in tema di obblighi formali in capo al datore di lavoro che recede dal rapporto.
E’ interessante notare che preliminarmente, la Corte dichiara inammissibili i profili di incostituzionalità prospettati dalla parte privata ma non esplicitati dall’ordinanza di rimessione, concernenti la disparità di trattamento che la legge riserva alle diverse ipotesi di vizi formali e vizi sostanziali del licenziamento. Poi invero, nel corso della motivazione, se pure ha delimitato il suo intervento al tema delle modalità di determinazione dell’indennità, che per evidente parallelismo non può non soccombere al suo vaglio secondo quanto già statuito con la sentenza n. 194, la Corte non perde l’occasione per sottolineare il significato e il valore delle prescrizioni formali e procedurali che regolano il potere di recesso del datore di lavoro, posto che esse rivestono una essenziale funzione di garanzia, ispirata a valori di civiltà giuridica.
L’obbligo di motivazione, che ha il suo corollario nella immutabilità delle ragioni del licenziamento, è il tratto qualificante di una disciplina che è volta a delimitare il potere unilaterale del datore di lavoro al fine di comprimere ogni manifestazione arbitraria dello stesso.
Le previsioni dell’art. 7 dello Statuto, per loro parte, assegnano un ruolo centrale al ruolo del contraddittorio, più che mai cruciale nell’esercizio di un potere privato che si spinge fino a irrogare la sanzione espulsiva. “La conoscibilità delle norme disciplinari, la preventiva contestazione dell’addebito, il diritto del lavoratore di essere sentito, non sono vuote prescrizioni formali, ma concorrono a tutelare la dignità del lavoratore”.
Le regole formali e procedurali imposte dalla legge all’esercizio datoriale del potere di recesso stanno a presidio dell’effettivo diritto di difesa del lavoratore, che si sostanzia nella sollecitudine del contraddittorio volto ad evitare la dispersione degli elementi di prova. Obbligo di motivazione e rispetto del contraddittorio sono riconducibili al principio di tutela del lavoro, enunciato dagli articoli 4 e 35 Cost., che impone al legislatore di circondare di “doverose garanzie” e di opportuni temperamenti” il recesso del datore di lavoro, come ribadito anche dalla sent. n. 194/2018.
I vincoli di forma e di procedura nel loro complesso rispondono all’identica funzione di tutela della persona del lavoratore contro quella che può sostanziarsi in una offesa alla sua dignità. Dunque, a fronte della violazione delle regole poste a presidio del rispetto dello stesso diritto a non essere licenziati arbitrariamente, è contrario a ragionevolezza ed al principio di eguaglianza il criterio che vada calcolato l’indennizzo in base alla sola anzianità di lavoro: la sanzione va infatti modulata anche in base ad altri criteri, fra cui non può essere trascurato quello della gravità della violazione ascrivibile al datore di lavoro.
“Sul versante dei licenziamenti viziati dal punto di vista formale, all’arretrare della tutela riferita alla reintegrazione del lavoratore licenziato corrisponde un progressivo affievolirsi della tutela indennitaria, che non è sufficiente ad attuare un equilibrato contemperamento degli interessi in conflitto. Nel disegno complessivo prospettato dal legislatore un criterio ancorato in via esclusiva all’anzianità di servizio non fa che accentuare la marginalità dei vizi formali e procedurali e ne svaluta ancor più la funzione di garanzia di fondamentali valori di civiltà giuridica, orientati alla tutela della dignità della persona del lavoratore”
La sentenza si chiude con la sollecitazione al legislatore, nel rispetto delle enunciazioni di principio in più occasioni ribadite dalla Corte, a provvedere ad una ricomposizione “secondo linee coerenti” della complessiva normativa sui licenziamenti, “che vede concorrere discipline eterogenee, frutto dell’avvicendarsi di interventi frammentari”.
4. La violazione degli obblighi di contestazione dell’addebito e di motivazione del recesso
Anche in relazione a quanto sopra detto, va ancora sottolineato che, di fronte alla diversa gravità delle conseguenze tra le diverse ipotesi di illegittimità del recesso, diventa fondamentale tracciare un serio e riconoscibile discrimine tra violazione formale e insussistenza dei presupposti per l’applicazione delle tutele maggiori: discrimine che in primis deve individuarsi nella gravità della omissione compiuta dal datore di lavoro rispetto all’obbligo di fondare il recesso sulla base di fatti materiali precisi e oggetto di previa contestazione al lavoratore, poi coerentemente posti a motivazione del recesso intimato.
Il quadro è compiutamente e condivisibilmente ricostruito dalla più recente Cass., n. 4879/2020, che ribadisce la necessità di una contestazione dell'addebito disciplinare che delinei i contorni del "fatto contestato": il “radicale difetto di contestazione dell’infrazione”, determina invece (come affermato in modo chiaro da Cass. 14.2.2016 n. 25745) l'inesistenza dell'intero procedimento, e non solo l'inosservanza delle norme che lo disciplinano, per il caso di difetto assoluto di giustificazione del provvedimento espulsivo, con conseguente applicazione della tutela reintegratoria secondo quanto stabilito dallo stesso art. 18 co. 6” (si tratta di ipotesi regolate dalla l. n. 92/2012, ma i Giudici della S.C. concordano sulla validità degli stessi principi anche relativamente ad ipotesi rientranti nell’ambito di applicabilità della riforma del 2015).
La Corte anche in quest’occasione si rifà al costante orientamento che da sempre riconduce conseguenze radicali al difetto di contestazione dell'infrazione, che è elemento essenziale di garanzia del procedimento disciplinare (vds. anche Cass. n. 1026/15, Cass. n. 2851/06), nonché espressione di un inderogabile principio di civiltà giuridica (C. Cost. n.204/1982, ma anche n. 150/2020): d’altronde, è la stessa previsione del comma 6 che prevede la tutela di cui al co. 4 dell’art. 18 in caso di difetto assoluto di giustificazione del licenziamento, norma che sanziona con la reintegra il licenziamento ontologicamente disciplinare ove sia accertata l'insussistenza del fatto contestato (e non semplicemente addebitato) (v. Cass., n. 25745/2016 cit.).
La citata pronuncia del 2020 rammenta altresì quel coerente corollario secondo cui in caso di parziale genericità della contestazione dell’addebito “è corretto l'operato del giudice di merito che abbia valutato, ai fini della verifica circa la legittimità, o meno, della sanzione, solo i fatti specificamente contestati, senza tener conto dei fatti genericamente indicati” (cfr., tra le altre, Cass. 19632/2018). Nello stesso solco si pongono Cass. n. 19653/2018, n. 21265/2018 e n. 8293/2019, che, a sua volta, richiama Cass. 19632/2018 cit., sempre in tema di mancanza di coincidenza del fatto oggetto del licenziamento con quello originariamente contestato e di conseguente tutela reintegratoria, con tutela indennitaria debole, per il vizio in questione.
Alla Corte di cassazione non sfugge la stretta contiguità tra vizio di forma e ingiustificatezza sostanziale del licenziamento: e si assume la responsabilità di tracciare una linea di demarcazione che possa servire a decidere quale regime sanzionatorio applicare, consapevole del diverso peso delle conseguenze che comporterà la scelta. Intanto, esclude che in base ad un'interpretazione meramente letterale della legge, possa ritenersi applicabile la sanzione ridotta anche in relazione ai casi in cui il licenziamento per motivi soggettivi non sia preceduto da una contestazione disciplinare dei fatti ai sensi dell'art. 7 della legge n. 300 del 1970. Tale conclusione renderebbe incoerente il funzionamento del meccanismo sanzionatorio dell'art. 18 che “distribuisce reintegrazione e tutela economica sostituiva del posto di lavoro facendo perno sulla valutazione dei fatti posti alla base del licenziamento: precisamente, sulla valutazione "del fatto contestato" (art. 18, comma 4)”.
Prevale invece la diversa interpretazione secondo la quale, ove il licenziamento venga intimato senza contestazione disciplinare, lo stesso continua, come in passato, ad essere considerato ingiustificato e dunque è sanzionato con la reintegrazione ad effetti risarcitori limitati: la tutela reintegratoria è prevista in caso di "insussistenza del fatto contestato", che implicitamente non può che ricomprendere anche l'ipotesi di inesistenza della contestazione.
Quando, allora, sarà applicabile la tutela indennitaria del co. 6 dell’art. 18 e dell’art. 4 del d.lgs. 23/2015?
La risposta viene da Cass., n. 16896/2016: quando “la contestazione disciplinare, finalizzata al licenziamento, non contenga una sufficiente e specifica descrizione della condotta tenuta dal lavoratore”. Nel caso di specie, peraltro, i Giudici di merito avevano positivamente apprezzato la sussistenza dei presupposti, soggettivi ed oggettivi, per l'integrazione del licenziamento per giustificato motivo soggettivo: il difetto della contestazione non si era tradotto in una mancata individuazione dei fatti ascritti al lavoratore, e non aveva impedito l’accertamento della sussistenza della giusta causa.
Si tratta, con ogni evidenza, di una linea di demarcazione non di così netta evidenza e di immediata identificazione: perché v’è da chiedersi come il Giudice abbia potuto, nonostante le carenti indicazioni della contestazione, individuare ugualmente (evidentemente, aliunde) il nucleo dei comportamenti oggetto di addebito, e procedere alla verifica della loro sussistenza e della loro portata disciplinare, ma per altro verso sancire la illegittimità del licenziamento per le carenze della contestazione.
Il punto di approdo più razionale sta nell’affermazione che non ogni carenza, ogni difetto di specificità, della contestazione può comportare l’applicazione della sanzione più grave: questa è giustificata solo in caso di “radicale difetto di contestazione”, di mancanza assoluta degli elementi identificativi delle condotte e comunque delle ragioni del recesso. Non la semplice genericità nella descrizione degli addebiti, ovvero la mancanza di precisazione (per esempio) dei riferimenti di spazio e di tempo delle condotte, possono sorreggere un giudizio di mancanza totale ed insanabile della contestazione.
Ancora una precisazione che riguarda il regime di tutela obbligatoria: in caso di licenziamento inefficace per violazione del requisito di motivazione ex art. 2, comma 2, della legge n. 604 del 1966, come modificato dall'art. 1, comma 37, della legge n. 92 del 2012, trova applicazione l'art. 8 della medesima legge in virtù di una interpretazione sistematica e costituzionalmente orientata della novella del 2012 che ha modificato anche l'art. 18 della legge n. 300 del 1970, prevedendo, nella medesima ipotesi di omessa motivazione del licenziamento, una tutela esclusivamente risarcitoria (Cass. 17589/2016; Cass. 30668/2019; n. 19323/2922): l'argomento di interpretazione sistematica di corretta contestualizzazione della norma da interpretare, all'interno della stessa legge 92/2012, con sua collocazione coerente (e quindi priva di antinomie) e congruente, per assenza di disarmonie assiologiche, suggerisce il ricorso, una volta operato (in una prima fase necessaria di qualificazione della fattispecie) l'accertamento di illegittimità del licenziamento nella categoria dell'inefficacia per difetto di specifica motivazione contestuale alla sua comunicazione (art. 2, secondo comma I. 604/1966), all'art. 8 (e non già all'art. 2, terzo comma) della stessa legge, per la disciplina (in una seconda fase decisoria eventuale) delle conseguenze sanzionatorie, sul piano degli effetti.
5. Violazioni dell’art. 7 della l. n. 300/1970
Con la sentenza n. 7392/20220 (conf. a Cass., n. 25189/2016), la Corte precisa che la violazione dell'obbligo del datore di lavoro di sentire preventivamente il lavoratore a discolpa, quale presupposto dell'eventuale provvedimento di recesso, integra una violazione della procedura di cui all'art. 7 st. lav. e rende operativa la tutela prevista dal successivo art. 18, comma 6, quale modificato dalla l. n. 92 del 2012.
Stesse conseguenze sono riconducibili alla violazione del termine a difesa di cinque giorni tra la contestazione dell'addebito e la sanzione, non sussistendo alcuna lesione delle esigenze difensive del lavoratore in vista del processo (così Cass., n. 18136/2020).
Le Sezioni unite nel 2017 (sent. n.30985) affermano che ove la legge o le norme di contratto collettivo prevedano dei termini per la contestazione dell'addebito posto a base del provvedimento di recesso, ricadente "ratione temporis" nella disciplina dell'art. 18 st.lav., così come modificato dal comma 42 dell'art. 1 della l. n. 92 del 2012, il mancato rispetto dei detti termini integra violazione di natura procedimentale e comporta l'applicazione della sanzione indennitaria di cui al comma 6 dello stesso art. 18 st.lav.
Un caso specifico: il regime delle nullità per i licenziamenti degli autoferrotranvieri.
Di recente, la Corte è tornata ad affrontare il tema delle conseguenze della mancata osservanza della procedura prevista dal r.d. n. 148 del 1931 in particolare per quel che riguarda l’istituzione e l’attribuzione di competenza in generale sulle sanzioni disciplinari ai consigli di disciplina. In questo ambito, la Corte in più occasioni in precedenza si è attenuta al principio per cui la nullità di una sanzione disciplinare per violazione del procedimento finalizzato alla sua irrogazione – sia quello generale di cui all'art. 7 St. lav., sia quello specifico previsto per gli autoferrotranvieri dall'art. 53 del r.d. n. 148 del 1931, all. A (p.es. per omessa pronuncia da parte del Consiglio di disciplina) – rientra tra quelle c.d. di protezione, poiché ha natura inderogabile ed è posta a tutela del contraente più debole del rapporto, vale a dire il lavoratore (Cass., n. 12770/2019; n. 17286/2015). In senso analogo v. anche Cass. lav. n. 13804/2017, secondo cui in materia di procedimento disciplinare a carico degli autoferrotranvieri, l'art. 53 dell'allegato A al r.d. n. 148 del 1931 prevede una procedura articolata in più fasi, inderogabile e volta alla tutela del lavoratore dipendente, quale contraente debole; l'omissione di una delle suddette fasi determina la nullità della sanzione disciplinare che, in relazione al tipo di violazione, rientra nella categoria delle nullità di protezione; ciò comporta conseguenze sul licenziamento irrogato di ben maggiore portata di quelle derivanti dalla violazione procedurale tout court.
6. La mancanza di tempestività della contestazione
Nel corpo della stessa sentenza n. 30985/2017, le Sezioni Unite hanno modo però di affermare un diverso principio, relativo alle conseguenze sanzionatorie per il licenziamento irrogato a seguito di contestazione tardiva. In questo caso, la dichiarazione giudiziale di risoluzione del licenziamento disciplinare, conseguente all'accertamento di un ritardo notevole e non giustificato della contestazione dell'addebito posto a base del provvedimento di recesso, ricadente "ratione temporis" nella disciplina dell'art. 18 st.lav., così come modificato dal comma 42 dell'art. 1 della l.n. 92 del 2012, comporta l'applicazione della sanzione dell'indennità prevista dal comma 5 dello stesso art. 18 stat. lav. (tutela indennitaria “forte”).
Le SS.UU. escludono che il grave ed immotivato ritardo datoriale nella contestazione dell’addebito giustificativo del licenziamento possa essere fatto rientrare nell’alveo della disciplina di cui al 6° comma dell’art. 18, dal momento che il principio della tempestività della contestazione può risiedere anche in esigenze più importanti del semplice rispetto delle regole, pur esse essenziali, di natura procedimentale, vale a dire nella necessità di garantire al lavoratore una difesa effettiva e di sottrarlo al rischio di un arbitrario differimento dell'inizio del procedimento disciplinare. Viene così riconosciuto che il fondamento logico-giuridico della regola generale della tempestività della contestazione disciplinare non soddisfa solo l'esigenza di assicurare al lavoratore incolpato l'agevole esercizio del diritto di difesa, ma appaga anche l'esigenza di impedire che l'indugio del datore di lavoro possa avere effetti intimidatori, nonché quella di tutelare l'affidamento che il dipendente deve poter fare sulla rinuncia dello stesso datore di lavoro a sanzionare una mancanza disciplinare allorquando questi manifesti, attraverso la propria inerzia protratta nel tempo, un comportamento in tal senso concludente.
Le Sezioni Unite escludono per altro verso che tale violazione possa essere fatta coincidere con la mancanza degli estremi del giustificato motivo soggettivo o della giusta causa, per insussistenza del fatto contestato: nella fattispecie in esame il fatto posto a base dell'addebito era stato accertato prima che lo stesso venisse contestato, seppur con notevole ritardo, al lavoratore.
Dunque, non potendosi nemmeno ravvisare l’ipotesi di nullità del recesso perché il vizio allo stesso riconducibile non è di tipo genetico, ma funzionale, le Sezioni Unite concludono per l’ipotesi del quinto comma dell’art. 18, da ritenersi espressione della volontà del legislatore di attribuire alla c.d. tutela indennitaria forte una valenza di carattere generale.
In sintesi, così venendo a chiudere il ragionamento: ciò che rileva, è che la mancanza disciplinare c’è stata e ad essa deve essere riconosciuto il corrispondente e doveroso rilievo. Di certo, non può essere circoscritto nel limitato recinto della violazione degli obblighi di forma il ritardo datoriale nella contestazione, che non solo viola il diritto di difesa del lavoratore ma lo sottomette ad una indeterminata condizione di assoggettamento alla reazione disciplinare del datore di lavoro. L'inerzia del datore di lavoro di fronte alla condotta astrattamente inadempiente del lavoratore può essere considerata quale dichiarazione implicita, per facta concludentia, dell'insussistenza in concreto di alcuna lesione del suo interesse. Valutata come determinante la intervenuta violazione degli obblighi di correttezza e buona fede da parte del datore di lavoro, pur a fronte dell'inadempimento del lavoratore posto a base del licenziamento, la conclusione non può essere che l'applicazione del quinto comma dell'art. 18 dello Statuto dei lavoratori.
L’indicazione delle Sezioni Unite è stata seguita dalla successiva giurisprudenza di legittimità, che non ha mai ritenuto di dover approfondire l’effettiva portata della decisione e soprattutto la sua evidenza contrarietà ai precedenti orientamenti in tema,
Soprattutto non ha mai mostrato di volersi misurare con un altro caposaldo della costruzione giurisprudenziale della complessa architettura della nuova disciplina dei licenziamenti dopo le riforme del 2012 e del 2015: quello per cui la verifica della sussistenza del fatto non può limitarsi al profilo meramente oggettivo ma deve esplorare anche l’antigiuridicità del comportamento, la sua rilevanza sul piano disciplinare.
È ormai dal 2015 che in una serie coerente di arresti, la Corte ha avuto modo di ribadire che “L'"insussistenza del fatto contestato", di cui all’art. 18, comma 4, st.lav., come modificato dall’art. 1, comma 42, lett. b), della l. n. 92 del 2012, fattispecie cui si applica la tutela reintegratoria cd. attenuata, comprende sia l’ipotesi del fatto materiale che si riveli insussistente, sia quella del fatto che, pur esistente, non presenti profili di illiceità” (Cass., n. 20540/2015; n. 18418/2016; n. 13178/2017; n. 16590/2018; n. 3655/2019): ed il principio riveste una tale pregnanza da essere ormai ritenuto applicabile anche in relazione alla previsione dell’art. 3 2° co. del d.lgs. n. 23/2015, dove pure il Legislatore ha ritenuto di dover inserire l’attributo “materiale” riferito al fatto la cui dimostrata insussistenza porta al riconoscimento della tutela reintegratoria.
Ciò tra l’altro risulta in stretta connessione con quella giurisprudenza, formatasi relativamente alle fattispecie precedenti alla riforma Fornero, che ha sempre coerentemente ritenuto che l'immediatezza della contestazione è da ritenersi elemento costitutivo del diritto di recesso del datore di lavoro, in quanto la non immediatezza della contestazione o del provvedimento espulsivo induce ragionevolmente a ritenere che il datore di lavoro abbia soprasseduto al licenziamento ritenendo non grave o comunque non meritevole della massima sanzione la colpa del lavoratore: sicché, ove la contestazione sia tardiva, resta precluso l'esercizio del potere e la sanzione irrogata è invalida (Cass., n. 2902/2015; n. 19115/2013). Vale la pena rimarcare che le Sezioni Unite non diano nemmeno conto del precedente, unanime orientamento, e che dunque non spieghino i motivi della diversa lettura: posto che, come è innegabile, la riforma del 2012, così come quella del 2015, hanno ritenuto di intervenire solo sul sistema sanzionatorio, e mai sulla definizione delle cause di illegittimità del recesso.
Tirando le fila:
se le stesse Sezioni Unite del 2017 riconoscono che il lungo tempo trascorso tra il fatto e la sua contestazione al lavoratore come addebito disciplinare non riguarda solo un profilo di forma, ma attinge al nucleo più propriamente di valore del significato del procedimento disciplinare, in quanto da un lato può compromettere l’effettivo esercizio del diritto di difesa, dall’altro assoggetta il lavoratore ad un perenne potere espulsivo da parte del lavoratore;
se tutta la giurisprudenza anteriore alla riforma del 2012 coerentemente riteneva che l'immediatezza della contestazione è da ritenersi elemento costitutivo del diritto di recesso del datore di lavoro;
se le stesse Sezioni Unite convengono sul punto che “l'inerzia del datore di lavoro di fronte alla condotta astrattamente inadempiente del lavoratore può essere considerata quale dichiarazione implicita, per facta concludentia, dell'insussistenza in concreto di alcuna lesione del suo interesse”;
allora, in definitiva, occorre rivalutare l’affermazione ritenuta decisiva al fine del riconoscimento dell’applicabilità del 5° comma dell’art. 18, ossia quella concernente alla sussistenza del fatto giustificativo del licenziamento.
Nel caso della tardiva contestazione dell’addebito è lo stesso datore di lavoro che riconosce, nei fatti, con la sua protratta inerzia, la mancanza di ogni valenza di antigiuridicità rispetto al comportamento del lavoratore: né può essergli consentito che, dopo il trascorrere di un lasso di tempo significativo in tal senso, possa ritornare sulle sue valutazioni. Soprattutto non può essere consentito all’interprete (nemmeno le Sezioni Unite lo fanno) di ignorare la valenza dimostrativa dello stesso comportamento datoriale, e la sua significatività ai fini del giudizio di irrilevanza disciplinare del comportamento oggetto di tardiva contestazione.
Per questo che coglie nel segno, a mio avviso, il Tribunale di Ravenna, con l’Ordinanza 12 gennaio 2022, che in consapevole e dichiarato contrasto con le Sezioni Unite, alla tardiva contestazione disciplinare riconnette all’illegittimità del licenziamento per tardività della contestazione non all’ipotesi sanzionatoria del comma 5 dell’art. 18 della l. n.300, ma bensì a quella del comma 4.
Vi è dunque ampia materia perché le Sezioni Unite rivisitino il loro orientamento e pongano rimedio a quelle che nel titolo della relazione vengono chiamati “disarmonie”: disarmonie rispetto agli orientamenti antecedenti alla riforma del 2012 (che, va ribadito, non è intervenuta sul piano delle cause giustificatrici del recesso ma solo su quello delle sanzioni) che avevano sempre qualificato la tardività nella contestazione come elemento costitutivo della fattispecie e non come vizio della procedura, né come elemento esterno sopravvenuto in grado di riqualificare la antigiuridicità della condotta; ma disarmonie anche con quello che è il diritto vivente che dalla giurisprudenza di legittimità deriva e in forza della quale il fatto che legittima il licenziamento non sussiste se non è connotato di rilevanza disciplinare: rilevanza che certo non può riconoscersi laddove è lo stesso datore di lavoro a negarla, nei fatti, omettendo ogni reazione per un tempo univocamente significativo circa l’assenza di un suo reale interesse.
Vi sono, soprattutto, i principi che la Corte costituzionale ha affermato in più occasioni, e ribadito specificamente nell’occasione della sentenza n. 150 del 2020, alla stregua dei quali va riaffermato il tratto qualificante ed unificante della disciplina volta a delimitare il potere unilaterale del datore di lavoro, al fine di comprimere ogni manifestazione arbitraria dello stesso: arbitrarietà che pare pienamente integrata proprio dalla tardività della contestazione, che raggiunge il lavoratore dopo un’ingiustificata inerzia del datore di lavoro.