TESTO INTEGRALE CON NOTE E BIBLIOGRAFIA

1. Introduzione

È indubitabile come, grazie soprattutto alle forti sollecitazioni provenienti dalla Corte costituzionale , la giurisprudenza, sia di merito che di legittimità, abbia compiuto più di recente uno sforzo considerevole nel tentativo quantomeno di temperare o attenuare l’incidenza pratica di talune delle tante distonie che caratterizzano la disciplina dei licenziamenti, attraverso un’accorta opera di razionalizzazione per via ermeneutica delle previsioni normative oggetto di maggiori dissensi interpretativi. Ciò è particolarmente visibile con riguardo all’area del licenziamento disciplinare e alla assai dibattuta questione di quale debba essere il rilievo del sindacato di proporzionalità del giudice ai fini della individuazione del rimedio somministrabile in caso di accertamento della illegittimità del recesso datoriale nella alternativa – dischiusa dal combinato disposto dei commi 4 e 5 dell’art. 18 dello Statuto – tra la reintegrazione in forma attenuata e la tutela indennitaria forte, compresa tra le 12 e le 24 mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto del lavoratore.
Quelle disposizioni avevano come noto subito suscitato, anche in dottrina, un intenso dibattito, il quale si era peraltro inizialmente concentrato soprattutto sulla previsione apparentemente più innovativa contenuta nel quarto comma dell’art. 18, costituita dall’inedito sintagma “insussistenza del fatto contestato”, sul quale non a caso il legislatore del Jobs Act, sia pure nel diverso contesto della disciplina del contratto di lavoro a tutele crescenti, era voluto tornare a tre anni di distanza dalla legge Fornero, con la più articolata formula utilizzata dal secondo comma dell’art. 3 del d.lgs. n. 23/2015 , con l’intendimento, o almeno la speranza, nemmeno troppo celata, di fornire indirettamente indicazioni utili anche per l’interpretazione della previsione statutaria .
Sennonché, come è pure noto, la speranza di accreditare con l’indiretto avallo legislativo la tesi, per quanto avulsa rispetto a tutte le coordinate logiche del sistema, del nudo “fatto materiale”, pur affacciata dalla stessa Suprema Corte in un celebre obiter della sentenza n. 23669/2014 , è presto rimasta frustrata dalla affermazione dell’orientamento interpretativo opposto – poi esteso, nonostante la diversa formulazione letterale, allo stesso art. 3, comma 2, del d.lgs. n. 23/2015 –, che ha fatto senz’altro propria la teoria del “fatto giuridico”, secondo la quale il fatto contestato deve reputarsi insussistente, non solo quando non si sia verificato come accadimento fenomenico riconducibile alla condotta del lavoratore e al medesimo imputabile, ma anche quando, seppure accaduto, sia privo di un pur minimo carattere di illiceità, poiché la sua irrilevanza disciplinare non può non tradursi, per l’ordinamento, in una valutazione di insussistenza .
Del resto, una rigorosa concettualizzazione in chiave normativa del “fatto” posto a base del licenziamento impronta anche la giurisprudenza costituzionale. Ed invero, come è stato ben rilevato, “alla luce della logica argomentativa seguita dalla Corte, il fatto materiale risulta inteso non nel senso della sua pregnanza ontologica-materialistica, bensì in un senso, di sapore eminentemente normativo, ricavato dal piano astratto della logica legislativa” . Questa logica ricostruttiva traspare in particolare dalla sostanziale assimilazione tra il “fatto” contestato in sede disciplinare e quello posto a base del licenziamento per giustificato motivo oggettivo che impronta la motivazione delle sentenze n. 59/2021 e n. 125/2022 della Corte costituzionale, che muovono dal corretto assunto secondo il quale la struttura normativa della fattispecie giustificativa, tanto soggettiva quanto oggettiva, è la stessa anzitutto nell’impianto dell’art. 3 della legge n. 604/1966, prima ancora che in quello del vigente art. 18 , onde l’insussistenza degli elementi costitutivi dell’una o dell’altra, quando sia individuata dallo stesso legislatore come ipotesi di contrasto più stridente con il principio fondamentale della necessaria giustificazione del recesso datoriale, non può non condurre alle medesime conseguenze sul piano delle tutele somministrate dal giudice.
Ben più controverso è invece rimasto – tanto in dottrina quanto in giurisprudenza – l’esatto significato da assegnare all’altra ipotesi nella quale il quarto comma dell’art. 18 dello Statuto prevede la somministrazione della tutela reintegratoria nei confronti del licenziamento privo di giusta causa o di giustificato motivo soggettivo, stabilendo che essa debba essere applicata (diversamente da quanto previsto nell’art. 3, comma 2, del d.lgs. n. 23/2015, che non contempla tale possibilità) anche allorché il fatto illegittimamente sanzionato con il recesso “rientra tra le condotte punibili con una sanzione conservativa sulla base delle previsioni dei contratti collettivi ovvero dei codici disciplinari applicabili”.
Questa ipotesi – la più rilevante, in concreto, al fine di tracciare la linea di confine con l’applicazione della tutela indennitario-risarcitoria del quinto comma dell’art. 18 – ha infatti posto il problema di verificare se e in quale misura le risalenti acquisizioni giurisprudenziali in tema di proporzionalità o adeguatezza della sanzione irrogata rispetto alla gravità del fatto addebitato al lavoratore (art. 2106 c.c.) dovessero trovare spazio, ai fini in parola, nella interpretazione della nuova previsione statutaria.

2. L’orientamento favorevole alla tipizzazione in senso forte

È opportuno rammentare come, alla stregua di una consolidata giurisprudenza, la giusta causa o il giustificato motivo soggettivo possano essere accertati dal giudice a prescindere dalle previsioni del contratto collettivo di riferimento, posto che egli può ritenere sussistente la giustificazione del recesso datoriale in virtù di qualsiasi grave inadempimento o grave comportamento anche extra-lavorativo del lavoratore contrario alle norme della comune etica o del consueto vivere civile, che sia idoneo a far venire meno il rapporto fiduciario tra datore e lavoratore. La scala valoriale espressa dalle disposizioni disciplinari della contrattazione collettiva viene così a costituire solo uno dei parametri per mezzo dei quali riempire di contenuto la clausola generale dell’art. 2119 c.c., fermo restando che la relativa tipizzazione non è vincolante, come confermato anche dalla previsione dell’art. 30 della legge n. 183/2010, rientrando il giudizio di gravità e proporzionalità della condotta nell’attività sussuntiva e valutativa del giudice, avuto riguardo agli elementi concreti, di natura oggettiva e soggettiva, della fattispecie dedotta in giudizio .
Peraltro, sempre secondo la consolidata giurisprudenza, qualora un determinato comportamento del lavoratore, invocato da parte del datore di lavoro come giusta causa di licenziamento, sia contemplato dal contratto collettivo applicabile come integrante una infrazione disciplinare alla quale corrisponda una sanzione conservativa, esso non può formare oggetto di una autonoma e più grave valutazione da parte del giudice. Si tratta di una interpretazione che appare conforme a quel principio di favor che è in materia espressamente posto dall’art. 12 della legge n. 604/1966 e dall’art. 40 dello Statuto dei lavoratori, norme che ribadiscono la derogabilità in melius della disciplina di fonte legale e che impediscono l’estinzione del rapporto per condotte pur potenzialmente sussumibili nell’alveo della giusta causa o del giustificato motivo soggettivo, se per esse l’autonomia collettiva abbia previsto solo sanzioni meramente conservative. A questo orientamento ha dato ad esempio continuità una recente pronuncia, che ha ribadito il carattere meramente esemplificativo della elencazione delle condotte disciplinarmente rilevanti contenuta nel contratto collettivo, ma solo per le ipotesi sanzionate con il licenziamento per giusta causa, al contrario della tipizzazione delle sanzioni disciplinari con effetto conservativo .
Se dunque è opinione pacifica che la contrattazione collettiva costituisca lo strumento privilegiato attraverso il quale, tramite la previsione delle condotte suscettibili di essere sanzionate, possa essere qualificato l’esatto adempimento della prestazione lavorativa, assai più problematico è apparso il margine di autonomia interpretativa attribuita al giudice nel verificare la congruità delle clausole collettive rispetto ai canoni legali che presiedono al licenziamento per motivi disciplinari. E queste difficoltà sono state certamente acuite, nel contesto del décalage delle tutele contemplate dal testo novellato dell’art. 18, laddove esso prevede, al quarto co., l’annullamento del licenziamento e la reintegrazione del lavoratore, pur attenuata negli effetti risarcitori dal tetto delle 12 mensilità, nel caso in cui il licenziamento sia stato irrogato per fatti rientranti tra le condotte punibili con una sanzione conservativa sulla base delle previsioni dei contratti collettivi ovvero dei codici disciplinari applicabili.
Si è infatti posta la questione – cruciale, appunto, ai fini dell’applicazione della tutela reintegratoria attenuata, piuttosto che di quella indennitaria forte prevista dal successivo quinto co. – se, per l’accesso alla tutela reale, occorra una esatta corrispondenza tra il fatto contestato e quello tipizzato dalla clausola collettiva quale condotta punita con sanzione conservativa, ovvero se il giudice possa applicare il quarto co. dell’art. 18 anche nei casi in cui ritenga che la condotta addebitata al lavoratore, ed accertata giudizialmente, rientri nella previsione di una clausola contrattuale generale formulata in maniera elastica ovvero mediante formule di chiusura che – come avviene di sovente – utilizzino espressioni generiche (quali, ad esempio, “negligente” o “casi di maggiore gravità”).
Come noto, un primo orientamento giurisprudenziale, prevalente sino a tempi recenti, che aveva trovato la propria compiuta enunciazione nella sentenza n. 12365/2019 della Sezione Lavoro della Corte di cassazione , ha ritenuto che, dopo la riforma del 2012, la tutela reale sia da considerarsi una stretta eccezione rispetto alla regola della tutela indennitaria e che, pertanto, la prima vada applicata soltanto nelle ipotesi disciplinari esattamente tipizzate dalla contrattazione collettiva. Per questo orientamento, infatti, la ratio dell’art. 18, comma 4, consiste nel sanzionare in modo più severo soltanto gli atti di recesso del datore di lavoro evidentemente ingiustificati, perché in aperto e certo contrasto con la disciplina contrattuale collettiva, posto che il datore di lavoro deve essere in grado di verificare chiaramente – prima facie – che l’infrazione contestata sia meritevole di essere colpita con una sanzione non espulsiva.
In sostanza, alla stregua di tale indirizzo, il giudice può pienamente utilizzare la graduazione delle infrazioni disciplinari articolate dalle parti sociali come parametro integrativo delle clausole generali di fonte legale, ai sensi dell’art. 30, comma 3, della legge n. 183/2010, al solo fine di dichiarare – nell’ambito del primo momento logico di quel giudizio bifasico oggi richiestogli dall’art. 18 – la illegittimità del recesso per mancanza di giustificato motivo soggettivo o giusta causa di recesso. Nella seconda fase di tale giudizio, in sede cioè di individuazione della tutela applicabile, gli è invece precluso somministrare la tutela reintegratoria se l’ipotesi non è esattamente e propriamente tipizzata dalla contrattazione collettiva, giacché, nel regime introdotto dalla legge n. 92/2012, tale tutela costituisce per l’appunto l’eccezione alla regola rappresentata dalla tutela indennitaria, presupponendo l’art. 18, comma 4, l’abuso consapevole del potere di recesso: il che implica una conoscenza preventiva, da parte del datore di lavoro, della illegittimità del provvedimento espulsivo, derivante dalla chiara riconducibilità della condotta tra le fattispecie ritenute dalle parti sociali inidonee a giustificare l’espulsione del lavoratore .
Questo orientamento, sul piano del sindacato giudiziale di proporzionalità, assume che l’accesso alla tutela reale presupponga una valutazione di adeguatezza della sanzione conservativa rispetto al fatto disciplinarmente rilevante solo ove questa sia già puntualmente tipizzata dalla clausola collettiva. Quando invece il contratto collettivo si esprime in termini generici, come assai di frequente e invero per lo più avviene, poiché la valutazione del rapporto di proporzionalità è rimessa ex post al giudice in relazione alle circostanze concrete del caso specifico, in sostanza alla stregua del canone legale di cui all’art. 2106 c.c., al lavoratore ingiustamente licenziato potrà spettare soltanto la tutela indennitaria “forte”, rientrandosi negli “altri casi” previsti dal quinto comma dell’art. 18 .

3. La critica della tesi della necessità di una tipizzazione in senso forte

Allorché detto orientamento interpretativo si andava consolidando – con esiti evidentemente assai restrittivi in ordine all’effettivo accesso alla tutela reale attenuata del quarto co. dell’art. 18, in presenza di una contrattazione collettiva in netta prevalenza priva di previsioni disciplinari integranti il livello di tipizzazione in tal modo richiesto –, la ex Sezione “filtro” della Corte di cassazione ha però riaperto la discussione – meritoriamente, a mio avviso – con la nota ordinanza “interlocutoria” n. 14777/2021, la quale ha ridato vigore ad un diverso indirizzo esegetico, molto più attento del primo alle esigenze di una adeguata valorizzazione, in sede propriamente interpretativa (artt. 1362 e ss. c.c.), dei termini nei quali tradizionalmente i contratti collettivi regolamentano la materia delle infrazioni e delle sanzioni proprio attraverso la tecnica delle clausole generali ed elastiche a debole valenza tipizzante.
L’ordinanza della VI Sezione Civile prendeva le mosse da una puntuale ricognizione critica della allora prevalente giurisprudenza di legittimità per sollecitarne il necessario ripensamento. La critica mossa dall’ordinanza a quell’indirizzo veniva articolata a partire dagli stessi principi classicamente elaborati dalla Corte nomofilattica, alla cui stregua è indubitabile “che la sussunzione dei fatti contestati al dipendente nell’una o nell’altra fattispecie contemplata dalla disciplina collettiva attenga alla interpretazione ed applicazione delle norme contrattuali, ed implichi un giudizio di diritto che compete al giudice di merito e, in modo diretto, a seguito della modifica dell’art. 360, co. 1, n. 3, c.p.c. ad opera del D.Lgs. n. 40 del 2006, anche al giudice di legittimità” . Onde “l’attività di sussunzione della condotta contestata al lavoratore nella previsione contrattuale espressa attraverso clausole generali non trasmoda nel giudizio di proporzionalità della sanzione rispetto al fatto contestato, ma si arresta alla interpretazione ed applicazione della norma contrattuale, rimanendo nei limiti di attuazione del principio di proporzionalità come già eseguito dalle parti sociali attraverso il contratto collettivo” .
Si sottolineava, peraltro, come l’indirizzo elaborato sulla scorta della sentenza n. 12365/2019 risultasse comunque afflitto da insuperabili “profili di irragionevolezza” , anzitutto in termini di distorsione funzionale delle previsioni disciplinari della contrattazione collettiva , laddove finiva per ignorare che, storicamente, “le fattispecie punitive contemplate dai contratti collettivi non sono definite secondo una rigorosa applicazione del principio di tassatività, ma hanno in prevalenza carattere indeterminato, in relazione alla indeterminatezza degli obblighi contrattuali di diligenza e fedeltà del dipendente, alla cui violazione è connesso l’esercizio del potere disciplinare” . L’indirizzo criticato, quindi, non solo svalutava la funzione di garanzia assolta dal codice disciplinare contrattuale, proprio attraverso l’uso di previsioni a contenuto aperto, ma finiva per convertirla paradossalmente nel suo esatto contrario. Laddove, per contro, secondo l’ordinanza interlocutoria, “la circostanza che alcune condotte non risultino tipizzate dai contratti collettivi come suscettibili di sanzioni conservative, specie in presenza di formule generali o aperte oppure di norme di chiusura, non può costituire un indice significativo e plausibile della volontà delle parti sociali di escludere tali condotte dal novero di quelle meritevoli delle sanzioni disciplinari più blande, cioè conservative” .
Di talché quell’orientamento – basato in definitiva su un neo-formalismo di stampo al contempo veteropositivistico – conduceva ad esiti irragionevoli e in definitiva incompatibili con il principio di uguaglianza, «sotto il profilo dell’ingiustificato trattamento differente di situazioni omologhe, laddove preclude l’accesso alla tutela reintegratoria per le fattispecie di pari o minore gravità rispetto a quelle tipizzate dai contratti collettivi” .

4. L’orientamento favorevole alla valorizzazione delle clausole generali

Come negli auspici della ordinanza interlocutoria n. 14777/2021, l’orientamento dalla stessa sottoposto a critica è stato finalmente corretto e in buona sostanza superato a partire dalla importante sentenza 11 aprile 2022, n. 11665 , nella quale la Sezione Lavoro della Corte di cassazione ha affermato il principio di diritto per cui, in casi di licenziamento disciplinare illegittimo, il giudice, in sede di scelta tra tutela reale e obbligatoria ai sensi del quarto e del quinto co. dell’art. 18, è tenuto a verificare la sussumibilità della condotta contestata al dipendente nella previsione contrattuale che contempli una sanzione conservativa, anche quando essa sia formulata mediante clausola generale o elastica o con previsione di “chiusura” . Pertanto, laddove la fattispecie punita con una sanzione conservativa sia delineata dalla norma collettiva attraverso una clausola generale (graduando la condotta con riguardo ad una sua particolare gravità ed utilizzando, nella descrizione della fattispecie, espressioni che necessitano di essere concretamente integrate), rientra nel compito del giudice riempire di contenuto detta clausola utilizzando standard conformi ai valori dell’ordinamento ed esistenti nella realtà sociale, in modo tale da poterne definire i contorni di maggiore o minore gravità.
In sostanza, al giudice è demandato il compito di interpretare la fonte negoziale e di verificare la sussumibilità del fatto contestato nella previsione collettiva anche attraverso una valutazione di maggiore o minore gravità della condotta, allorquando questa valutazione di proporzionalità sia richiesta dal contratto collettivo applicabile . Solo in presenza di ipotesi tipizzate in modo puntuale (come avviene ad esempio per le previsioni collettive relative alle assenze ingiustificate del lavoratore che si protraggano oltre un certo numero di giorni) il procedimento sussuntivo non richiede al giudice alcuna valutazione di proporzionalità. Ma al di fuori di tali ipotesi, è proprio la formulazione elastica o aperta della clausola del contratto collettivo a richiedere al giudice un tale apprezzamento.
È bene evidenziare come la sentenza n. 11665/2022 – per rimanere coerentemente nel solco di quella valorizzazione del ruolo della autonomia collettiva che era stata viceversa di fatto ridimensionata dall’orientamento giurisprudenziale difforme – abbia cura di precisare, riprendendo sul punto quanto già osservato nella richiamata ordinanza interlocutoria, che l’attività di sussunzione della condotta contestata al lavoratore nella previsione contrattuale espressa attraverso clausole generali o elastiche in realtà non trasmoda nel giudizio di proporzionalità della sanzione rispetto al fatto contestato, ma si arresta alla interpretazione ed applicazione della norma contrattuale, rimanendo nei limiti della attuazione del principio di proporzionalità come già eseguito dalle parti sociali attraverso la previsione del contratto collettivo. In buona sostanza, il giudice non compirebbe un’autonoma valutazione di proporzionalità della sanzione rispetto al fatto, ma una mera operazione di interpretazione del contratto collettivo e di applicazione della relativa clausola alla fattispecie concreta, sicché rimarrebbe comunque nell’ambito di quella che è stata perspicuamente definita la “proporzionalità sociale” , valutabile ex ante alla stregua delle previsioni del contratto collettivo applicabile (seppure espresse nella forma della clausola generale ed elastica), e non della “proporzionalità legale”, riempibile di contenuto solo ex post in applicazione del canone espresso dall’art. 2106 c.c. In altri termini, “non vi sarebbe autonoma valutazione del giudice, ma solo interpretazione di un giudizio riferibile alle parti collettive” .
Non si può nondimeno negare che al giudice è in tal modo demandato il compito di interpretare la norma collettiva non solo per stabilire se si possa ritenere sussistente o meno una giusta causa o un giustificato motivo soggettivo di recesso (e quindi per accertare la legittimità o meno del licenziamento), ma anche per individuare la tutela in concreto applicabile; ciò che finisce per sovrapporre – di fatto – i due momenti, per quanto ancora logicamente differenziabili, che caratterizzano la struttura bifasica del giudizio richiesto dall’art. 18 dello Statuto. In altri termini, ancorché sul piano logico sia ancora possibile operare questa scomposizione del giudizio, “sembra aver esaurito una pratica utilità la ricostruzione del compito del giudice come una valutazione bifasica articolata in due accertamenti successivi: il primo diretto a verificare la sussistenza della giusta causa o del giustificato motivo, il secondo – cui si dovrebbe procedere nel caso in cui il primo abbia dato esito negativo – avente ad oggetto l’individuazione del tipo di tutela da applicare” .
Il nuovo orientamento della Suprema Corte, specie se considerato unitamente agli interventi manipolativi compiuti dal giudice delle leggi sul versante del giustificato motivo oggettivo, rende altresì obsoleta l’affermazione, anch’essa divenuta quasi tralatizia nella giurisprudenza sull’art. 18 e che in effetti fondava il diverso indirizzo ormai superato, secondo cui la tutela reale prevista dal quarto co. dovrebbe considerarsi una eccezione rispetto a quella obbligatoria contemplata nel quinto. Tale è infatti la dilatazione dei confini delle fattispecie nelle quali deve trovare ormai applicazione la tutela reintegratoria attenuata per ingiustificatezza “aggravata” o “qualificata” del licenziamento , che appare piuttosto evidente come il rapporto tra regola ed eccezione si sia sostanzialmente invertito, risultando ormai residuali e circoscritte, anche nell’area del recesso per motivi disciplinari , stanti gli assetti regolativi consolidati della contrattazione collettiva, le ipotesi in cui il giudice potrà somministrare la tutela indennitaria di cui al quinto co. dell’art. 18 .
Le ipotesi in è cui è immaginabile la somministrazione di detta tutela appaiono ormai piuttosto recessive , considerato l’utilizzo largamente dominante della tecnica delle clausole generali o elastiche (o delle previsioni di chiusura), da parte dei contratti collettivi . In dottrina si è sostenuto che un residuo spazio applicativo del quinto co. dell’art. 18 andrebbe rintracciato nelle ipotesi in cui il contratto collettivo – come avviene nel settore del credito – si limiti ad elencare le sanzioni disciplinari (anche conservative) applicabili semplicemente in relazione alla gravità (o al carattere recidivo) della mancanza . Per questi stessi casi si è analogamente sostenuto che, visto che il contratto collettivo “non esprime veri e propri codici disciplinari”, il datore di lavoro “potrà liberamente adottare il suo codice aziendale senza alcun vincolo di conformazione” .
Si deve tuttavia obiettare che anche in questi casi il contratto collettivo – proprio nel fare riferimento alla gravità della mancanza – abbia voluto vincolare il datore al rispetto di un canone di proporzionalità sociale, attinto dalla comune coscienza collettiva in coerenza con i valori espressi dall’ordinamento, il cui controllo è necessariamente rimesso al giudice in sede di valutazione della legittimità del licenziamento, rientrando anche questa ipotesi, quindi, nel novero di quelle in cui dovrà applicarsi il co. 4 dell’art. 18 ove si accerti in concreto una sproporzione della sanzione espulsiva a fronte di una condotta non gravemente lesiva degli interessi datoriali. È stata di questo avviso la recente pronuncia della Suprema Corte , che, proprio in un caso di mera elencazione delle sanzioni disciplinari da parte del contratto collettivo , senza alcuna previa individuazione delle condotte salvo solo il generico rinvio ai concetti aperti e indeterminati di gravità o grado della colpa, ha dato continuità all’indirizzo affermato dalle sentenze nn. 11665 e 13065 del 2022, applicando la tutela reale del quarto co. dell’art. 18 a fronte di una condotta che, non integrando la gravità richiesta per il licenziamento, avrebbe dovuto essere punita – alla stregua della “meccanica” contrattuale – con sanzione conservativa.
La Corte di cassazione ha ribadito che, anche in una simile evenienza, non si tratta di una autonoma valutazione della proporzionalità della sanzione rispetto al fatto (alla stregua del canone legale), ma di una interpretazione del contratto collettivo e della sua applicazione alla fattispecie concreta. Ed infatti, “ciò che si deve accertare è se una determinata condotta sia o meno riconducibile alla nozione di negligenza lieve indicata nella norma collettiva come sanzionabile con una misura conservativa, e non decidere se per una condotta di negligenza lieve sia proporzionata la sanzione conservativa o quella espulsiva” .
E la tutela reintegratoria attenuata dovrà essere applicata anche nella ipotesi, in qualche modo speculare a quella appena considerata, “di un comportamento del lavoratore non previsto dall’autonomia collettiva né in base ad una esemplificazione specifica, né riconducibile a una clausola generale o elastica nelle varie formulazioni già analizzate, che sia tuttavia di una gravità pari o inferiore a quelli diversi contemplati dal ccnl” . In tali casi, destinati peraltro a verificarsi piuttosto di rado vista la predominante tecnica redazionale delle previsioni contrattuali, sono i fondamentali principi di ragionevolezza ed effettività – i veri cardini anche assiologici di tutta la recente giurisprudenza costituzionale sul licenziamento – a imporre la riconduzione al quarto co. dell’art. 18, giacché “non è possibile ritenere che un fatto non previsto dal contratto collettivo ma di valore analogo rispetto ad altri comportamenti per i quali sono stabilite sanzioni conservative possa essere considerato come tale da giustificare il licenziamento” (e, aggiungiamo, possa per ciò stesso ricevere una tutela diversa da quella spettante per le ipotesi connotate da analogo rilievo sostanziale nella “scala” disciplinare). Ma si tratta, a ben vedere, di una conclusione che, forse prima ancora di essere imposta dai richiamati principi costituzionali, appare coerente con le ordinarie operazioni di controllo degli atti di autonomia privata, e in particolare dell’esercizio di poteri privati, che il giudice comune sempre compie già solo alla stregua delle clausole generali di correttezza e buona fede, a loro volta innervate dal principio costituzionale di solidarietà .

5. Le questioni aperte

Se, dove è ancora applicabile l’art. 18, la tutela reintegratoria attenuata torna ad essere la regola, risospingendo ad ipotesi piuttosto eccezionali i casi nei quali deve essere concesso il solo indennizzo di cui al quinto co., del tutto diverso – e al contempo assai più problematico sul piano della coerenza con quegli stessi principi costituzionali appena evocati – è il discorso che deve farsi con riguardo alla disciplina “a regime” contenuta nel d.lgs. n. 23/2015 per i contratti a tempo indeterminato stipulati da datori di lavoro privati a far data dal 7 marzo 2015. Qui, infatti, il legislatore delegato ha effettuato come ben noto una scelta assai più netta, in quanto radicalmente impregnata di quella “logica squisitamente aziendalistica” , a cui sono in definitiva riconducibili le elaborazioni dottrinali alla base del Jobs Act.
Come è stato osservato, se “dopo l’affermarsi dell’interpretazione giudiziale secondo cui anche il fatto materiale deve avere una minima rilevanza giuridica deducibile dai codici disciplinari”, potendo così riconoscersi almeno sotto questo profilo una identità di ratio e struttura tra il quarto co. dell’art. 18 e l’art. 3, comma 2, del d.lgs. n. 23/2015, la irragionevole distonia tra le due previsioni riemerge laddove esse – “all’identico fine di delineare i presupposti minimali per dar vita ad un atto di licenziamento giuridicamente rilevante e, in assenza di quei presupposti, consentire o no la reintegrazione, da un lato riconoscono un ruolo alla proporzionalità tra infrazione e sanzione (art. 18) e dall’altro lo negano (art. 3, co. 2, d.lgs. n. 23/15)” . Con il che “viene indubbiamente danneggiata la razionalità del sistema con possibili riflessi sulla sua conformità al principio di eguaglianza” .
Il d.lgs. n. 23/2015 espelle infatti il rilievo della proporzionalità “sociale”, ricavabile dalle previsioni disciplinari dei contratti collettivi, dal secondo e decisivo momento del procedimento bifasico nel quale – secondo la corrente giurisprudenza – si scompone logicamente il procedimento logico sussuntivo e applicativo svolto dal giudice. Se in fase di valutazione della legittimità del licenziamento ai sensi degli artt. 2119 c.c. e 3 della legge n. 604/1966 la proporzionalità rileva sia nella sua astratta dimensione legale (art. 2106 c.c.) che in quella concretizzata dalla contrattazione collettiva (anche attraverso l’impiego di clausole generali o elastiche), nella successiva fase di selezione della sanzione della reintegrazione nel posto di lavoro la proporzionalità sociale, così intensamente e coerentemente valorizzata dal quarto co. dell’art. 18, scompare dall’orizzonte ermeneutico e assiologico consentito al giudice dal secondo co. dell’art. 3 del D.Lgs. n. 23/2015.
Ma questo, ad avviso anche di chi scrive , determina sia una inaccettabile disparità di trattamento tra lavoratori per la sola data di stipulazione del contratto (nonostante la stessa Corte costituzionale abbia come noto espresso un diverso orientamento sul punto nella prima delle sue pronunce in materia, n. 194/2018), sia una irragionevole distonia interna all’impianto della stessa previsione legislativa, laddove la esclusione di qualunque rilievo della proporzionalità sociale ai fini dell’accesso alla tutela reintegratoria svilisce il ruolo della contrattazione collettiva compromettendo il principio di effettività del rimedio, che esige invece che di fronte ai casi più gravi di abuso del potere di recesso datoriale si accompagni la sanzione maggiormente adeguata a garantire – attraverso la (in realtà soltanto parziale) restitutio in integrum – l’interesse costituzionalmente protetto alla conservazione del rapporto di lavoro (artt. 4 e 35 Cost.).
Dobbiamo infatti considerare che nel rigoroso e innovativo impianto argomentativo della recente giurisprudenza costituzionale – quale emerge soprattutto dalle più volte citate sentenze nn. 59/2021 e 125/2022 – l’operare congiunto del principio lavorista con quelli trasversali di ragionevolezza e di effettività della tutela esige sempre che sia assicurata la necessaria adeguatezza dei rimedi, nel contesto di un equilibrato componimento degli interessi in rilievo, nel quale la posizione del lavoratore torna peraltro a rivestire una collocazione baricentrica , in una vicenda così “traumatica” come quella del licenziamento. Alla luce di tali principi, si può così affermare che – quantomeno per i vizi di maggiore gravità del licenziamento, ovvero per i casi in cui l’esercizio arbitrario del potere datoriale si allontani più vistosamente dal principio della necessaria giustificazione del recesso, quale è certamente il caso della violazione del canone della proporzionalità espressa dal contratto collettivo – “la tutela reale entri nell’ordinamento come una necessità costituzionale, sia pur modulabile” .
La previsione di cui all’art. 3, comma 2, del d.lgs. n. 23/2015, stante il suo netto tenore testuale, non è però suscettibile di essere ricondotta a recta ratio per via di interpretazione anche costituzionalmente orientata. È pertanto auspicabile che essa venga sottoposta in via incidentale al vaglio di legittimità costituzionale, per contrasto con gli artt. 3, 4 e 35 Cost. E lo stesso deve auspicabilmente verificarsi, per ragioni simili, anche per l’altra evidente disarmonia interna all’irrazionale sistema di tutele prefigurato dall’art. 3, comma 2, del d.lgs. n. 23/2015, laddove concede il rimedio reintegratorio soltanto in caso di insussistenza del fatto contestato in sede disciplinare, negandolo invece nei casi in cui a rivelarsi insussistente sia quello posto a base del licenziamento per giustificato motivo oggettivo.

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