TESTO INTEGRALE CON NOTE E BIBLIOGRAFIA

1.- I fondamenti della tutela lavoristica nel trasferimento di azienda. Crisi di impresa e linee evolutive.

Il tema dei nessi tra trasferimento di azienda e licenziamenti assume connotazioni sue proprie nel contesto della disciplina della crisi di impresa.
Anche perché, in assenza di una situazione di crisi, il principio desumibile dall’art. 2112, co. 4, c.c. esclude anche solo la possibilità di impostare una qualche connessione diretta tra trasferimento di azienda e licenziamenti del personale del cedente.
Connessione che invece si rende possibile o comunque strettamente consequenziale ad operazioni di trasferimento che, in certe condizioni di cui si dirà, si realizzino nell’ambito di una crisi di impresa.
Il fondamento della disciplina di cui all’art. 2112, co. 4, c.c. e più a monte della corrispondente previsione di cui all’art. 4 par. 1 della Direttiva 2001/23/CE può ricevere varie spiegazioni, in gran parte tra loro suscettibili di coesistere.
Vista in una logica prettamente civilistica , la continuità dei rapporti di lavoro esprime il fatto che il trasferimento di titolarità dell’azienda, intesa come entità munita di una propria connotazione ed autonomia, deve trasmettersi dal cedente al cessionario nelle condizioni in cui il compendio trasferito si trova e quindi con la dotazione di personale sua propria, da cui è fino a quel momento dipeso il going concern, ovverosia l’utile funzionamento dell’attività.
Ma non è evidentemente questo – o almeno non è solo questo - il profilo che viene in evidenza quale fondamento del sistema normativo.
Dal lato della tutela dei lavoratori, la continuità esprime la evidente necessità che nel momento in cui si fa mercato dell’azienda, perché di ciò consiste il trasferimento di essa ad un diverso titolare , non è possibile che l’operazione economica possa svolgersi comportando la cessazione dei rapporti di lavoro, nella loro interezza, che fino a quel momento hanno costituito la caratterizzante componente personale dell’attività economica organizzata.
Ancor più in generale, al di là del profitto di mercato, poiché l’operazione traslativa risponde inevitabilmente ad un interesse di chi cede, sia pure anche solo latamente economico (ad es. fusioni), di ordine organizzativo e quant’altro (si pensi ai trasferimenti da P.A. ad aziende da esse create e viceversa, di cui all’art. 31 d. lgs. 165/2001 ) non è pensabile che ciò vada a discapito di chi quell’azienda l’ha fino a quel momento composta e per di più sotto il profilo dell’apporto personale, sia pure mediato da un contratto di lavoro che, afferendo anch’esso a valori personali, deve poter restare neutro rispetto agli interessi di chi muove la transazione.
Lapidaria, sul punto, una delle prime pronunce della Corte di Giustizia sulla Direttiva 77/187/CEE, di prima generazione, ove si legge che l’ordinamento europeo mira ad “impedire che la ristrutturazione nell'ambito del mercato comune si effettui a danno dei lavoratori delle imprese coinvolte” .
Di fronte all’azienda di un’impresa in crisi, le logiche di cui sopra tendono invece ad incrinarsi.
Basti pensare che. non trasferire può significare l’implosione e la disgregazione stessa dell’azienda, per l’insostenibilità della gestione e basti pensare che, in parte anche in ragione di ciò, la cessione in una situazione di crisi è soggetta a forti condizionamenti, quanto a tempi, modi e conseguentemente valori ritraibili dalla transazione.
Cioè, la tutela indiscriminata della continuità dei rapporti di lavoro potrebbe addirittura essere ragione di azzeramento, per effetto della disgregazione aziendale, di quello stesso interesse dei dipendenti che si intenderebbe tutelare.
Al contempo, l’orizzonte della crisi vede sorgere un interesse dei creditori, che non è solo egoistica realizzazione del proprio diritto, ma è per definizione interesse diffuso, comune, del “concorso”, per dirla in gergo, di più di un singolo soggetto, con quanto di interessi conseguenti (ad es. i lavoratori dipendenti del creditore-fornitore etc.): come è stato ben evidenziato, la crisi di impresa è crisi del comparto di interessi che rispetto all’impresa ed alla sua azienda sono avvinti .
Fino poi, secondo le direttrici evolutive dell’ordinamento concorsuale, al sorgere nell’ordinamento di un interesse comune alla regolazione della crisi, con i propri effetti di salvaguardia dell’azienda, ove quest’ultima non è più intesa come patrimonio individuale, ma quale fenomeno di rilievo sociale, che fa emergere interessi fondamentali, riconducibili all’art. 2 Cost. e dunque non meno potenti, a quel punto, delle situazioni di garanzia del singolo lavoratore e comunque tali da imporre adeguati e non aprioristici coordinamenti delle tutele.
Non è fuori di luogo, in tale prospettiva, il richiamo al nuovo comma 2 dell’art. 2086 c.c. introdotto dal Codice della Crisi, dove le stesse scelte organizzative dell’imprenditore sono piegate, nella loro libertà, all’esigenza di munire le società commerciali di un assetto organizzativo “adeguato” anche al fine di prevenire, rilevandola tempestivamente, non soltanto la crisi, ma la stessa perdita di continuità aziendale, valore evidentemente posto dall’ordinamento in posizione assai elevata, proprio per le ragioni cui si è fatto appena cenno .

2.- Il piano delle fonti multilivello, l’evolversi della giurisprudenza e lo stallo del Codice della Crisi.

Come è noto, il diritto interno relativo al trasferimento di azienda si è evoluto sulla spinta del diritto europeo e, quindi, è alle fonti comunitarie ed eurounitarie che deve farsi primariamente riferimento.
In proposito, la Direttiva 2001/23/CE permette, con l’art. 5, par. 1, di derogare a tutte le tutele sancite nel diritto interno attraverso l’art. 2112 c.c. e dunque alla continuità dei rapporti di lavoro, purché ricorrano le tre condizioni dell’esistenza di una situazione di insolvenza, del fine di liquidare i beni del cedente e del controllo della procedura da parte di un‘autorità pubblica.
L’art. 5 par. 2 consente invece deroghe più limitate, con riferimento al regime della solidarietà (lett. a) e, previo accordo sindacale, alle condizioni di lavoro (lett. b).
Singolare e di pessima formulazione, in tutte le versioni linguistiche, è l’inciso del predetto paragrafo 2 secondo cui quelle deroghe minori potrebbero aversi “indipendentemente dal fatto che la procedura sia stata aperta in vista della liquidazione dei beni del cedente”.
Attribuire a tale inciso il significato per cui quelle deroghe parziali sarebbe ammesse anche nelle procedure liquidatorie è un non senso, in quanto il predetto paragrafo reitera le altre condizioni di cui al comma 1 (procedura di insolvenza, controllo pubblico), sicché, se in presenza di procedure liquidatorie vi può essere deroga totale, non avrebbe alcun senso disporre modalità e limiti di una deroga parziale.
Il senso di quell’inciso è dunque altro ed è quello per cui pur in assenza di finalità liquidatorie, le procedure di insolvenza sotto controllo di un’autorità pubblica possono consentire quelle minori deroghe .
Ciò posto, può osservarsi che l’applicazione della Direttiva si è snodata, a partire dagli anni ottanta dello scorso secolo ed ancora nel regime della Direttiva di vecchia generazione, lungo una serie di pronunce con le quali si è sostanzialmente ritenuto che la disapplicazione integrale delle tutele inerenti la continuità del lavoro non potesse aversi se non in presenza di procedure liquidatorie, tali non essendo tuttavia quelle caratterizzate dal trasferimento in frangenti di persistente continuazione dell’attività aziendale.
Tale orientamento si è protratto fino a pronunce più recenti, in cui si è ulteriormente affermata la distinzione tra procedure finalizzate alla prosecuzione dell’attività di impresa (in cui sarebbero ammesse sole le deroghe minori di cui al citato art. 5, par. 2) e procedure liquidatorie, le sole al cui ricorrere, in presenza di insolvenza e di controllo da parte di un’autorità pubblica, si potrebbe avere deroga totale alla continuità dei rapporti e quindi anche un trasferimento non integrale dei lavoratori, prodromico al licenziamento degli eccedentari.
Tale orientamento è insoddisfacente nella sua stessa costruzione.
Non convince, come alcuni avvertiti commentatori rilevarono fin da subito , l’alternatività posta tra continuità e liquidazione, perché si tratta in realtà di parametri eterogenei e non incompatibili.
Basti pensare al caso del trasferimento di azienda nella liquidazione giudiziale in cui vi sia esercizio di impresa.
Sicuramente si tratta di trasferimento in continuità, ma altrettanto sicuramente si tratta di trasferimento liquidatorio, tale essendo per struttura la procedura concorsuale massima.
Correttamente la Corte di Cassazione, con due recenti pronunce e, quasi contestualmente, la Corte di Giustizia, in un più recente approdo, hanno iniziato a prendere le distanze da quel pregresso assetto interpretativo.
Un primo arresto ha infatti ritenuto, sul presupposto di fatto che l’impresa in concordato, appena rientrata da un affitto a terzi e dunque in teoria ancora attiva, non potesse proseguire l’attività propria, ha ritenuto che avesse conseguentemente carattere liquidatorio il trasferimento immediatamente attuato e che quindi trovasse applicazione il disposto dell’art. 47, co. 5, L. 428/1990, di cui si dirà, con possibilità di transito soltanto parziale dei dipendenti in ragione dell’intervenire di accordo sindacale in tal senso.
Sulla stessa linea, altra successiva sentenza ha riportato all’ipotesi di cui alla medesima disposizione, con effetti analoghi, il caso del trasferimento di azienda gestita in regime di esercizio provvisorio fallimentare.
Sul piano eurounitario, la Corte di Giustizia 28 aprile 2022, Federatie Nederlandse, si è occupata di un caso olandese in cui un accordo di pre-pack, ovverosia un piano di cessione di azienda, predisposto prima dell’apertura del fallimento, per quanto poi attuato dopo, prevedeva il trasferimento soltanto parziale dei lavoratori al cessionario ed ha significativamente ritenuto, rimeditando un proprio precedente riguardante la medesima disciplina nazionale , che la cessione del going concern, cioè di un’azienda in esercizio, non facesse venire meno, in quanto finalizzata al migliore realizzo per i creditori, la natura liquidatoria della procedura e quindi vi fosse la possibilità di una deroga al transito dell’intera forza lavoro presso il cessionario, restando al di fuori di un trasferimento puramente riorganizzativo e come tale soggetto alla disciplina di vincolo pieno della Direttiva.
La linea ricostruttiva è chiara e va sviluppata muovendo dal fatto che la cessione “liquidatoria” si associa, nell’art. 5, par. 1, Dir. 2001/23/CE, ad uno stato di insolvenza ed all’esistenza di una procedura a tal fine aperta sotto controllo pubblico.
Ciò sta a significare che il trasferimento è vincolato, nei tempi e nei modi, da regole procedurali inevitabilmente tali da alterare il fenomeno rispetto a quello di una vendita soggetta alle sole regole del mercato.
È nota l’esistenza, nell’ambito della determinazione tecnica dei prezzi, di valori di “liquidazione” dell’azienda, che si hanno quando l’attività non possa esser proseguita e si debba dare corso ad una cessione dei singoli beni che la compongono, seppure senza vincoli di tempo , fino a valori di “vendita forzata”, necessariamente riduttivi o incerti rispetto ai valori di mercato, in quanto è evidente, oltre alla mancanza di un mercato delle imprese in crisi , l’incidenza sul prezzo delle regole vincolate di cessione che naturalmente comportano una deviazione dalla possibilità di massimizzare il ricavato per il cedente .
Detto altrimenti, quando all’insolvenza ad alla conduzione della procedura sotto il controllo pubblico si associa una “liquidazione”, intesa come vendita soggetta a regole vincolanti quanto all’an della cessione e quanto al quomodo (tempi e/o modi) e quindi ad una vendita da intendersi, sostanzialmente, come “forzata”, è l’incidenza sul valore e la costrizione che ne deriva a giustificare la derogabilità dei diritti dei lavoratori e ciò nell’interesse composito dell’occupazione nel suo complesso (in quanto la perdita di una possibilità di cessione potrebbe far perdere ogni possibilità anche al numero di dipendenti che il cessionario si manifesti disponibile ad acquisire) e della massa dei creditori , interesse, anche quest’ultimo, che vedere nella sua sola componente speculativa o di profitto è, dato l’originarsi della “liquidazione” nella crisi, quanto meno miope, anche per quanto si è già detto in precedenza sul punto.
Sennonché, il Codice della Crisi, la cui versione in parte qua risale al 2019, risulta palesemente ancorato al pregresso orientamento della Corte di Giustizia e, novellando, con il proprio art. 368, l’art. 47 L. 428/1990, suddivide le procedure tra quelle in continuità di esercizio aziendale, per le quali il co. 4-bis consente soltanto la modifica alla condizioni di lavoro in presenza di accordo sindacale di salvaguardia (nel futuro) dell’occupazione e quelle (co. 5) in cui la cessione riguarda un’azienda inattiva, in cui l’accordo sindacale può anche prevedere il trasferimento solo parziale dei dipendenti, fungendo da premessa per il licenziamento degli eccedentari.
Al punto che, pur non essendo espressamente regolata l’ipotesi del trasferimento di azienda in liquidazione giudiziale, ma gestita interinalmente dal curatore e quindi attiva, risulta impossibile riportare la stessa all’ipotesi del co. 5, in quanto quest’ultimo riguarda esplicitamente i soli casi “in cui la continuazione dell’attività non sia stata disposta o sia cessata”, sicché l’ipotesi non potrà che consentire le minori deroghe di cui all’art. 4-bis, salvo restando però che, trattandosi pur sempre di procedura liquidatoria, resta applicabile l’esclusione, salvo patto contrario, della responsabilità dell’acquirente per i debiti relativi alle azienda cedute e dunque anche per i debiti di lavoro, come è pienamente legittimo che sia, sotto il profilo eurounitario, stante il disposto dell’art. 5, par. 1 della Direttiva.
Questo è il diritto vigente, in sé legittimo dal punto di vista eurounitario, in quanto la Direttiva certamente non osta ad una disciplina interna più favorevole ai lavoratori, ma la sensazione è che, trascurando quanto accaduto, sotto il profilo dell’evoluzione della giurisprudenza interna ed eurounitaria, nel non breve periodo intercorso tra la prima pubblicazione di Gazzetta Ufficiale e l’entrata in vigore appieno del Codice, sia stata almeno per ora perduta l’occasione di una più ampia riflessione.
Infatti, a fronte di variegate forme liquidatorie (gara formale; gara sulla base di offerta preconfezionata nel concordato; assenza di vincoli competitivi negli accordi di ristrutturazione con cessioni di azienda; forme competitive a valutazione di “assenza di soluzioni migliori sul mercato nel concordato semplificato) ora regolate dal Codice, la disciplina di cui all’art. 47 co. 4-bis e ss. meriterebbe di essere almeno pensata in ragione del diverso grado di alterazione dei meccanismi di mercato che attraverso esse si realizza, per regolarne le deroghe all’art. 2112 c.c. in consapevole conseguenza.
E’ infatti certo che il lasciare la cessione di azienda in liquidazione giudiziale fuori dal regime massimo di deroghe sia scelta oltremodo discutibile, costituendo dato di esperienza del tutto lampante quello per cui il curatore, chiamato a condurre l’impresa in atto non sia in grado, non essendo egli investitore ma solo gestore, di garantirne la prosecuzione sine die ed essendo anzi egli spinto, dai rischi inevitabilmente propri dell’esercizio commerciale, a ricercare con celerità, ad evidente discapito dell’esito migliore di mercato, una collocazione presso terzi del compendio.
Ma forse qualche riflessione, anche alla luce della giurisprudenza della S.C., dovrebbe essere fatta rispetto all’esistenza di obblighi di gara anche in conseguenza di offerte concordatarie da parte di soggetto già individuato dall’imprenditore proponente, essendo evidente che una disarticolazione formale della fase di vendita, con associazione all’offerta raccolta dal proponente di una fase successiva di gara competitiva (art. 91 del Codice della Crisi), se talora può portare a miglioramenti del ricavato, potrebbe in altri casi determinare invece contrazioni nelle offerte originarie, in ipotesi da contrastare con minori margini di vincolo, a garanzia dell’appetibilità dell’azienda in sede di gara, sul transito integrale del personale. Non per dire che necessariamente tale ipotesi vada inclusa nella disciplina del comma 5 dell’art. 47, ma per dire che una valutazione in proposito andrebbe fatta e non pare ad oggi esservi consapevolmente stata.

3.- Parziale dismissione del personale. Il piano applicativo: profili generali.

Passando ai profili applicativi, due sono i dati di fondo da segnalare.
Intanto la struttura della fattispecie.
Il trasferimento di azienda non accompagnato dal transito integrale del personale non implica, secondo la sola struttura logica della fattispecie, il licenziamento degli eccedentari.
Anzi, se i trasferimenti avvenissero per ramo di azienda, sarebbe fisiologico che, chi non sia trasferito con un ramo, lo sia con altro ramo.
Ma non è questa la regola, perché, proprio per il trattarsi di situazione di crisi destinata ad essere superata con il trasferimento, in genere chi non transita sul cessionario non potrà che essere avviato a licenziamento.
Da ciò la conseguenza che l’azione congiunta con cui si impugni il licenziamento posto in essere dal cedente e si contesti l’esclusione dagli effetti del trasferimento finisce per coinvolgere in toto l’operazione regolativa della crisi.
L’altro profilo da evidenziare è che l’intero sistema non esclude che il cedente, prima di affrontare il trasferimento di azienda in sede di regolazione della crisi, si avvalga delle sue facoltà di ristrutturazione dell’azienda in modo da renderla più efficiente ed appetibile sul mercato.
Possibilità che, almeno in teoria, persiste anche nella fase di gestione in capo al curatore nella liquidazione giudiziale e che non viene di fatto mai utilizzata, per le responsabilità che comporta e per la necessità spesso di fare in fretta, che indirizza piuttosto l’assunzione di ogni decisione alla fase di trasferimento dell’azienda.
Ma quella possibilità esiste ed ovviamente consente i licenziamenti - individuali plurimi o collettivi - secondo le regole ordinarie di giustificazione di essi e con accesso del lavoratore alle conseguenti impugnative.

4.- (segue): licenziamenti di personale nei casi soggetti alla disciplina dell’art. 189, commi 3 e 4, del Codice della Crisi. Criticità della norma.

L’art. 47 L. 428/1990 si riferisce ai trasferimenti di aziende “in cui sono complessivamente occupati più di quindici lavoratori”.
Tuttavia, l’art. 191 del Codice della Crisi afferma, senza limitazioni con riguardo al numero dei dipendenti, che il trasferimento di azienda nell’ambito delle procedure di liquidazione è soggetto alla disciplina dell’art. 47 cit., con previsione che sarebbe inutile, se non per la determinazione dell’effetto estensivo predetto .
Al di là di ciò, come noto, il Codice della Crisi (art. 189) regolamenta in via autonoma, a differenza di quanto era in passato, la disciplina cui sono soggetti i rapporti di lavoro pendenti al momento dell’apertura della liquidazione giudiziale e, con ciò, il regime dei recessi o licenziamenti ad opera del curatore.
La norma, a questo proposito, contiene una bipartizione, in quanto essa regola sia il campo destinato ai licenziamenti collettivi, con una procedura autonomamente disciplinata e semplificata rispetto a quella della L. 223/1991, sia il campo dei recessi o licenziamenti individuali, eventualmente plurimi.
L’autonomia della procedura collettiva rispetto a quella individuale, anche eventualmente plurima, la si coglie dalla salvezza della disciplina del comma 6 (riguardante i licenziamenti collettivi) operata dal comma 3, che dunque esclude l’applicazione ai primi dell’estinzione di diritto, di cui si dirà subito di seguito.
La norma prevede che il rapporto di lavoro - a parte il caso dell’esercizio di impresa, che ora non interessa - resti sospeso in attesa delle decisioni del curatore.
Il curatore può quindi subentrare nei rapporti o recedere da essi, dovendo, nel ricorrere dell’impossibilità di continuare l’azienda o in presenza di manifeste ragioni economiche inerenti l’assetto dell’organizzazione del lavoro, procedere “senza indugio” al recesso da essi.
Tuttavia, nell’ambito proprio dei licenziamenti individuali, anche plurimi, in mancanza di una decisione del curatore nel termine di quattro mesi dall’apertura della liquidazione giudiziale, prorogabile fino a dodici mesi in presenza di istanza anche di singoli lavoratori ed in presenza di possibilità di ripresa o trasferimento a terzi dell’azienda, i rapporti di lavoro si estinguono di diritto, con previsione, qualora ciò accada allo spirare del termine in ipotesi prorogato, di una indennità prededucibile a favore del lavoratore, in misura di due mensilità per ogni anno di servizio, nel limite minimo di due e massimo di otto mensilità .
La strutturazione della norma potrebbe far pensare che il curatore sia legittimato ad operare una cernita dei rapporti di lavoro, anche in vista in un più appetibile trasferimento di azienda, fruendo a tale fine dell’inerzia e della conseguente estinzione di diritto.
Si tratta di ipotesi possibile, ma non legittima.
La norma va intanto inserita nel contesto di un pluridecennale orientamento della S.C. in ordine al fatto che il recesso del curatore, già riportabile all’ipotesi generale di cui all’art. 72 l. fall., ha natura di licenziamento per giustificato motivo obiettivo, non essendovi ragione che il Codice della Crisi, abbia inteso trasformare il recesso del curatore in una forma ad nutum, anche perché la legge delega stabiliva (art. 7, co. 7, L. 155/2017) che “la disciplina degli effetti della procedura sui rapporti di lavoro subordinato è coordinata con la legislazione vigente in materia di diritto del lavoro” e dunque non giustificava di certo un’evoluzione in netto contrasto con l’assetto giurisprudenziale di legittimità del tutto consolidato.
Senza contare lo stridente contrasto con la Carta Sociale Europea i cui principi non solo sono stati espressamente richiamati dalla legge delega (art. 2 lett. p L. 155/2017), ma sono potenzialmente destinati a funzionare come norma interposta per i fini di cui all’art. 117, co. 2, Cost., come già ritenuto ad altri fini dalla Corte Costituzionale ed ove si tenga conto che la predetta Carta, all’art. 24, prevede che “per assicurare l’effettivo esercizio del diritto ad una tutela in caso di licenziamento, le parti - ovverosia gli Stati contraenti, n.d.r. – s’impegnano a riconoscere: a) il diritto dei lavoratori di non essere licenziati senza un valido motivo legato alle loro attitudini o alla loro condotta o basato sulla necessità di funzionamento dell’impresa, dello stabilimento o del servizio; b) il diritto dei lavoratori licenziati senza un valido motivo ad un congruo indennizzo o altra adeguata riparazione”.
Non si può poi trascurare il fatto che l’art. 189 prevede un obbligo del curatore a procedere “senza indugio” agli eventuali recessi e che l’inerzia, qualora protrattasi fino al dodicesimo mese, è sanzionata con la menzionata indennità.
Ne deriva che l’inerzia del curatore rispetto a tale suo obbligo è inadempimento e che il lavoratore che, in ipotesi, si ritenga leso nel suo diritto a proseguire nel rapporto di lavoro, possa agire per il risarcimento del danno, tra l’altro risultando onerato di allegare, secondo i noti principi giurisprudenziali, soltanto tale inadempimento e gravando sul curatore l’onere di dimostrare il verificarsi di una causa non imputabile e quindi l’impossibilità di proseguire nell’esercizio aziendale o eventuali – ed evidentemente specifiche – ragioni che giustificassero il recesso proprio da quel rapporto .
Prova che finirebbe per risultare proibitiva, con pesantissima responsabilità risarcitoria, quando l’azienda fosse poi stata trasferita a terzi dal curatore stesso, pretermettendo proprio tali lavoratori.
L’assetto della norma non consente di ragionare in termini di reintegrazione del lavoratore nel posto di lavoro, perché l’effetto di diritto è regolato come tale, con funzione acceleratoria e definitoria rispetto ai casi in cui davvero nulla vi sia da proseguire; ipotesi, quest’ultima, rispetto alla quale si può ritenere che il curatore ben difficilmente non riuscirà in ipotesi a provare l’impossibilità di prosecuzione del rapporto, tenuto conto delle probabili risultanze degli atti della procedura, verosimilmente condivisi con il giudice delegato.
Tuttavia, l’assetto della responsabilità civilistica, in una con la possibilità per i lavoratori, in presenza di margini di ripresa dell’attività o di trasferimento a terzi, di prorogare fino a dodici mesi il termine estintivo, ma a quel punto con ulteriore sanzione indennitaria, definisca un quadro talmente dissuasivo, tenuto conto del trattarsi di rapporto con una controparte che è anche pubblico ufficiale e quindi tenuto all’osservanza dei propri obblighi, da non consentire di ragionare né in termini di illegittimità eurounitaria , né, parrebbe, di legittimità costituzionale, non apparendo la reintegrazione, specie in un’ipotesi così particolare, evenienza ineludibile per la norma di legge.

5.- (segue): trasferimento di azienda e licenziamenti.

Il punto centrale è comunque quello in ordine alla disciplina dei casi in cui l’ordinamento ammette che il trasferimento dell’azienda non comporti il passaggio totale del personale presso il cessionario, al momento, come si è detto, limitato dal Codice della Crisi, in restrizione dell’assetto del diritto esistente in vigenza della legge fallimentare, ai casi di trasferimento di azienda inattiva, quale che sia la procedura regolativa della crisi (liquidazione giudiziale; concordato preventivo) interessata.
La struttura giuridica della fattispecie, già sopra ricordata, è tale per cui in presenza di un accordo sindacale, di natura c.d. gestionale, è possibile derogare in toto alla disciplina dell’art. 2112 c.c. e quindi prevedere il transito solo parziale dei lavoratori presso il cessionario, il che risulta in sostanza prodromico ai conseguenti licenziamenti degli eccedentari.
La struttura giuridica della fattispecie denota le evidenti criticità.
Intanto è chiaro che, se esiste un soggetto esterno – quale è il sindacato - che può condizionare il regime lavoristico dei trasferimenti di personale, si determina un’incompatibilità netta con le regole competitive finalizzate alla scelta del cessionario.
Il Codice della Crisi ha tentato di introdurre una misura utile a migliorare la competizione, inserendo il comma 1-bis all’art. 47 L. 428/1990, con cui si prevede che, nel caso di competizione per l’acquisto dell’azienda nelle procedure concorsuali, la consultazione sindacale in vista del trasferimento può essere avviata anche da chi intende proporre un’offerta e che sia possibile subordinare l’efficacia degli eventuali accordi ivi raggiunti alla successiva attribuzione dell’azienda ai medesimi proponenti così formalmente addentratisi nelle trattative.
Forse sono altresì praticabili buone prassi, che al contrario mirino a centralizzare le trattative sindacali, magari con il contributo del curatore o del commissario giudiziale, ma non è detto che ciò possa esser sempre assicurato.
Il paradosso è poi che il sindacato, pur giunto ad un accordo, non necessariamente è in grado di garantire al cessionario la sicurezza giuridica dell’operazione.
Fino a prima del Codice della Crisi quale fosse l’accordo sindacale, con quale rappresentatività, con quanti sindacati etc., non era neppure regolato e se è vero che la giurisprudenza, nei pochi casi definiti in sede di legittimità, ha avuto sempre un atteggiamento bonario ed ha teso a non approfondire il tema salvaguardando le decisioni assunte sulla base dele intese sindacali quali raggiunte nelle singole vicende di specie , è evidente che da qui a dire che per il cessionario la disciplina normativa sia tranquillizzante, ce ne passa, e molto; ed è evidente che un’operazione liquidatoria in sede di crisi ha bisogno di evitare in chi acquisita il timore di andare incontro a rischi eccessivi, perché sennò è forte la tentazione, per chi sia pur interessato, di far “saltare il banco”, non consentendo alle procedura di raggiungere una definizione ed attendendo di recuperare gli assets di interesse come beni singoli, nel momento in cui si fosse costretti a cedere i cespiti come tali e non più come azienda.
Di qui l’esigenza di un accordo che, alla fine, coinvolga tutti e si traduca in transazione con ogni singolo lavoratore in sede protetta, ai sensi dell’art. 2113 c.c., che è quanto avviene nella prassi.
Tale dinamica finisce per rendere a questo punto sfumata, se non per una possibile incidenza sulla forza negoziale delle parti contrapposte del dialogo sindacale, anche la distinzione tra le ipotesi di cui all’art. 47, co. 4-bis (in cui sono possibili solo modifiche alle condizioni di lavoro) e quelle di cui al comma 5 (in cui si ammette la dismissione parziale dei rapporti), perché, se tutto ha da risolversi sul piano individuale, con la sola mediazione sindacale, anche nel caso di cessioni potenzialmente inidonee a consentire il trapasso solo parziale del personale potrà comunque perseguirsi tale effetto, sulla base appunto di negoziato con coloro di cui si prospetta l’esodo.
Il che è quanto avviene nella realtà dei fatti.
Ora, il Codice della Crisi ha introdotto una disciplina dell’accordo sindacale, di cui si dirà e che probabilmente permette di impostare un ragionamento giuridico che potrebbe anche alla fine risultare idoneo a ridurre i rischi di tenuta dell’accordo di trasferimento parziale, ma anche qui fino a dire, in oggi, che le operazioni che si dovessero svolgere in tal senso siano prive di rischi, lo si ripete ancora, ce ne passa.
A voler disegnare un quadro di sintesi – e fermo l’auspicio su una maturazione più ampia rispetto alla tenuta giuridica degli accordi sindacali nei termini di cui all’art. 47, co. 4-bis e 5, L. 428/1990, esso è tale per cui la tutela lavoristica finisce per operare non tanto sul piano della rigorosa certezza giuridica di quanto è permesso o vietato di perseguire sulla base degli accordi sindacali regolati dalle norme appena citate, quanto sul piano dissuasivo – per non dire di minaccia – che il rischio di azioni giudiziali di singoli comporta proprio a fronte di una normativa ancora incerta nell’assicurare la fermezza necessaria di quegli accordi; con le inevitabili asimmetrie dei casi concreti che da ciò inevitabilmente consegue.

6.- La realtà e le norme. Verso logiche e percorsi più profondi.

Se la realtà è dunque quella descritta, il sistema nel suo complesso si manifesta evidentemente come assai immaturo, ispirato ad una logica del contingente e di variabili incontrollate, alla fine destinato a non sfuggire a dinamiche di conflitto e di definizione degli assetti finali sulla base di prove di forza dell’una o dell’altra parte, se non talora di singoli.
Il salto di qualità deve allora muovere lungo linee diverse, che devono poter contare su un sindacato assai consapevole ed inserito nella vita aziendale, coinvolto ab origine nella crisi e nelle possibili soluzioni e capace di governare, nei limiti del possibile, al contempo le fughe in avanti di singoli e il rischio di trattamenti inaccettabili per chi di più subisca dallo scenario del trasferimento parziale della manodopera.
È del resto in questa prospettiva dialogica che la Direttiva Insolvency ha indirizzato l’ordinamento interno e che è in parte stata recepita dal d.l. 118/2021, nella disciplina inerente la composizione negoziata e poi dal Codice della Crisi.
Sono state previste infatti consultazioni sindacali non solo quando vengano poste in essere operazioni che già le prevedano a prescindere dalla situazione di crisi, ma anche allorquando un datore di lavoro che occupi più di quindici dipendenti assuma “rilevanti determinazioni … che incidano sui rapporti di lavoro di una pluralità di lavoratori, anche solo per quanto riguarda l’organizzazione del lavoro o le modalità di svolgimento delle prestazioni” (art. 4, co. 3, del Codice della Crisi).
In breve, anche rispetto all’esercizio di un potere datoriale che di norma non prevederebbe oneri procedurali o di consultazione sindacale (ad es, l’esercizio dello ius variandi in tema di mansioni, gli interventi sulla dislocazione dell’orario etc.), la norma impone l’informativa e l’eventuale esame congiunto, condizionando al loro previo svolgimento – ma non al loro esito, sia chiaro - l’efficacia delle decisioni assunte.
Si tratta di previsione che, oltre ad esprimere una originale forma di ricezione di indicazioni della Direttiva c.d. Insolvency , declina correttamente la necessità di coinvolgere i rappresentanti dei lavoratori nelle questioni aziendali e della crisi, almeno nella misura in cui esse abbiano un effetto su una pluralità di interessati .
Non a caso, la procedura di consultazione sindacale sopra descritta, nata all’interno della composizione negoziata quale regolata originariamente dal d.l. 118/2021, conv. con mod. in L. 147/2021, nel trasmigrare all’interno del Codice della Crisi è stata declinata come uno dei doveri delle parti anche in sede di predisposizione del piano nell’ambito di uno strumento di regolazione della crisi e dell’insolvenza e, quindi, in sede di accordi di ristrutturazione, concordato preventivo o piano omologato.
In tale prospettiva di fondo, può essere allora che anche i criteri di individuazione del sindacato legittimato agli accordi collettivi gestionali, introdotto dal Codice della Crisi con riferimento all’art. 51 d. lgs. 81/2015 e quindi alle organizzazioni sindacali comparativamente rappresentative sul piano nazionale, alle loro rappresentanze aziendali o alle rappresentanze sindacali unitarie, costituisca un ambito di migliore definizione, utile ad avviare verso la certezza nell’evoluzione di tale procedura a contributo collettivo gestionale. Acuti spunti in tal senso sono stati già sviluppati in dottrina, attraverso la connessione della norma con il T.U. in materia di rappresentanza sindacale del 2014, che non si può in questa sede, destinata più ad una rassegna sullo “stato dell’arte”, approfondire .
Come analoga portata, rispetto alle modifiche alle condizioni di lavoro di cui al comma 4-bis, potrebbe avere il ricorso alle c.d. intese di prossimità, di cui all’art. 8 della L. 148/2011.
Ma il determinarsi di reali effetti di stabilizzazione, specie sul piano dei trasferimenti con dismissione di personale, potrà dirlo solo il tempo, che farà capire se realmente le norme abbiano la capacità di creare un’ampia certezza, tale da rendere sufficientemente affidabili gli assetti lavoristici per i cessionari.
Le nuove norme cui si è fatto appena cenno sono solo l’inizio di un percorso, che appare ineludibile, ma che ha bisogno di radicarsi attraverso la creazione di una reale cultura di partecipazione dei lavoratori e dei loro rappresentanti nella trattazione almeno della fase in cui l’azienda è coinvolta dalla crisi.
I mutamenti legislativi, a tal fine, non bastano, occorrendo una maturazione sociale e diffusa, sul lato sindacale come su quello della confidenza dell’imprenditore con le organizzazioni dei lavoratori, ma si può pensare che quelle norme, specie se lette nella linea dialogica sensibilmente sostenuta dalla Direttiva Insolvency, possano almeno segnare un inizio in tal senso.
In altre parole, quegli equilibri che, come si è cercato di dimostrare, sono la sostanza, sotto il profilo del personale, delle vicende riguardanti il trasferimento dell’azienda in crisi e che vengono affrontate ora tendenzialmente in limine, in condizioni talora drammatiche ed in cui è la conflittualità a raccogliere i frutti migliori (o peggiori), vanno gestite tempestivamente, sulla base di una consolidata e curata consuetudine alla partecipazione sindacale.
Altrimenti, per appoggiarsi a citazioni suggestive, ma quando mai adatte, è homo homini lupus e si cponsoldia alla fine una dinamica che, almeno dal punto di vista di chi scrive, è esattamente ciò che non siamo, ciò che non vogliamo.

7.- Altre situazioni: l’affitto di azienda nella liquidazione giudiziale.

Qualche considerazione a sé va destinata, a completamento del quadro, all’ipotesi dell’affitto di azienda posto in essere dal curatore in pendenza della liquidazione giudiziale, come previsto dall’art. 212 del Codice della Crisi.
L’evenienza, vista in senso “progressivo”, ovverosia per gli affitti conclusi appunto dal curatore, costituisce pacificamente trasferimento di azienda, in quanto è tale l’affitto tra soggetti in bonis e non vi è ragione perché muti alcunché se a concederlo sia il curatore.
Ne derivano gli effetti propri dell’art. 2112 c.c., ovverosia il trasferimento dei lavoratori in forza, salvo dismissioni dei rapporti che fossero poste in essere dal curatore, secondo le regole proprie di cui all’art. 189 del Codice e che riducano la compagine già prima del realizzarsi dell’affitto.
Per quanto si tratti di trasferimento interno ad una procedura liquidatoria, se l’azienda fosse inattiva, si potrebbe discutere se trovi applicazione l’art. 47, co. 5, L. 428/1990, con le regole sull’accordo sindacale parzialmente dismissivo del personale. Probabilmente la soluzione dovrebbe essere positiva, ma l’ipotesi è sostanzialmente di scuola.
Sul piano debitorio l’art. 212 del Codice della Crisi nulla afferma di esplicito, ma è evidente l’impossibilità, pena la sterilizzazione stessa dell’istituto, che l’affittuario si faccia carico dei debiti già facenti capo alla procedura, foss’anche solo quelli di lavoro, per effetto dell’art. 2112, co. 2, c.c. e dunque si deve ritenere applicabile per analogia legis il disposto dell’art. 214, co. 4 del Codice della Crisi, con esclusione quindi di una tale solidarietà.
Attuato l’affitto, vi può poi essere il trasferimento “regressivo” dell’azienda al termine del rapporto e quindi dall’affittuario alla curatela.
L’art. 212, u.c., del Codice della Crisi prevede che in tal caso la procedura non sia responsabile dei debiti maturati nel periodo della gestione da parte dell’affittuario, in deroga all’art. 2112, co. 2, c.c. (applicabile pacificamente anche alla fase di retrocessione ) e prevede altresì che al rientro dell’azienda si applichino le stesse norme che regolano gli effetti sui rapporti pendenti della liquidazione giudiziale, al momento in cui quest’ultima viene aperta.
Ciò comporta evidentemente anche l’applicazione dell’art. 189 e consente al curatore di proseguire o dismettere i rapporti secondo le regole ivi dettate.
Si tratta di una complessiva disciplina di deroga all’art. 2112 c.c, da ritenere pienamente legittima sotto il profilo eurounitario, in quanto è evidente che la fase dell’affitto, nella sua evenienza “regressiva” costituisce momento del procedimento di liquidazione giudiziale, già fallimento, indubbiamente e per definizione nel suo complesso di natura liquidatoria e con integrazione appieno della fattispecie di cui all’art. 5, co. 1, della Direttiva 2001/23/CE.
Il tutto, peraltro, con le criticità comuni conseguenti all’applicazione dell’art. 189 ndel Codice e di cui si è detto al paragrafo 4.

8.- Amministrazione straordinaria, trasferimento di azienda e disciplina del personale: cenni e criticità.

Ultimando il ragionamento con riferimento all’amministrazione straordinaria, vengono in evidenza norme plurime, ovverosia l’art. 47, co. 4-bis lett. c) e co. 5-ter, nel testo quale introdotto dal Codice della Crisi, l’art. 56, co.3-bis, d.lgs. 270/1999, in ragione delle diverse forme di procedura e cessione regolate da quest’ultimo corpo normativo e l’art. 63, co. 4, d. lgs. 270/1999.
In sintesi, si hanno:
a) cessioni conseguenti a programmi di prosecuzione e ristrutturazione (art. 27, lett. b, d. lgs. 270/1999), riguardanti essenzialmente rami in esercizio, ma da dismettere, rispetto ad aziende nel resto proseguite a fini di risanamento ed in questo caso le uniche deroghe sono quelle più limitate ammesse ai sensi dell’art. 47, comma 4-bis, lett. c), anche per rinvio dell’art. 63, co. 4, d. lgs. 270/1999 ;
b) cessioni conseguenti a piani realizzati “in vista della liquidazione” (art. 27, comma 2, lett. a e b-bis), per le quali, l’art. 56, co. 3-bis d. lgs. 270/1999 stabilisce che l’art. 2112 c.c. non si applica, pur se attraverso una improvvida formulazione secondo cui addirittura l’operazione non costituirebbe trasferimento d’azienda, il che palesemente non può essere ;
c) cessioni di aziende inattive, per le quali l’art. 47, comma 5-ter, L. n. 428/1990, prevede, nel testo ripreso dal Codice della Crisi, nella sostanza che l’art. 2112 c.c. possa essere derogato, anche per quanto attiene alla prosecuzione dei rapporti di lavoro, con eventuale dismissione quindi di taluni di essi, in presenza di accordo sindacale.
Le relazioni tra le diverse norme hanno già dato adito a dubbi interpretativi.
Da taluno si è infatti sostenuto che l’ipotesi sub b) sarebbe da ritenere implicitamente abrogata per l’assenza di reali finalità liquidatorie, stante lo scopo di garantire la prosecuzione dell’attività di impresa, quale testimoniato dal rinvio all’art. 27 ed alla destinazione al recupero dell’equilibrio economico ivi richiamata.
Tuttavia, pur non potendosi ritenere decisivo il richiamo del co 3-bis al trattarsi di cessioni operate “in vista della liquidazione”, la ricorrenza di un orizzonte temporale limitato per l’esercizio dell’impresa (un anno) sconta le costrizioni sull’an e sul quomodo rispetto ad una vendita giuridicamente libera da vincoli e di libero mercato e fa quindi propendere per il ricorrere effettivamente di un’ipotesi liquidatoria (nei termini che si è sopra cercato di ricostruire al paragrafo 2) per la autonomia quindi, oltre che per la legittimità eurounitaria, della previsione, coperta dall’art. 5, par. 1, della Direttiva di riferimento .
Qualche dubbio può altresì essere posto dall’assetto regolamentativo delle ipotesi di cui alle lettere b) e c), se lette in parallelo tra loro.
Non può infatti non osservarsi come l’ipotesi dell’azienda inattiva, che potrebbe necessitare di minori vincoli, dato il più profondo livello di difficoltà espresso da tale dato, è destinataria di una disciplina più rigorosa, stante la necessità di accordo sindacale, rispetto al caso di aziende in esercizio rientranti nei piani realizzati “in vista della liquidazione”, rispetto alle quali la deroga all’art. 2112 c.c. è, come si è visto, totale. Si tratta di asimmetria che non intercetta tuttavia, parrebbe, un difetto di ragionevolezza, ben potendosi valorizzare l’intento del legislatore di assicurare maggiore certezza di continuità ad aziende che, con la loro persistente attività e recepimento nei piani, manifestano una più significativo grado di recupero della produzione all’utilità economica collettiva.
Dubbi sono posti infine dall’ultimo comma dell’art. 63 del d. lgs. 270/1999, riportabile alla casistica di cui alla lettera a) che precede e secondo cui l’acquirente di azienda in tali ipotesi non sarebbe responsabile in solido dei debiti maturati presso il cedente.
Parlandosi qui di aziende in esercizio e di procedure non liquidatorie, la Direttiva consentirebbe la deroga, se il sistema interno consentisse di assicurare una protezione almeno equivalente a quella prevista dalla Direttiva 80/987/CEE concernente il ravvicinamento delle legislazioni degli Stati membri relative alla tutela dei lavoratori subordinati in caso di insolvenza del datore di lavoro, attuate nell’ordinamento interno in via previdenziale ed attraverso il c.d. Fondo di Garanzia.
Tuttavia, poiché i rapporti di lavoro continuano, non vi è tutela rispetto alle ultime tre mensilità maturate presso il cedente ed inoltre, poiché la responsabilità del cessionario rispetto alla quota del t.f.r. maturata presso il cedente è meramente solidale, rispetto a quest’ultima porzione di credito retributivo, una volta esclusa la solidarietà, non vi sarebbe appunto copertura. Il che avvalora il rischio di incompatibilità eurounitaria della previsione .

Questo sito utilizza cookie necessari al funzionamento e per migliorarne la fruizione.
Proseguendo nella navigazione acconsenti all’uso dei cookie.