testo integrale con note e bibliografia

Premessa
La disciplina del contratto a tutele crescenti, introdotta con Decreto Legislativo 4 marzo 2015, n. 23, è stata oggetto di un ampio scrutinio della Corte costituzionale per quanto attiene alle norme sul licenziamento illegittimo.
Pur confermando la compatibilità con la Costituzione di un sistema incentrato sulla tutela dai licenziamenti illegittimi di natura obbligatoria, anziché reale, la Consulta ha dichiarato incostituzionali le disposizioni che prevedevano l'aritmetica determinazione delle indennità sulla base dell'anzianità di servizio (sentenze n. 194/2018 e 150/2020). Nel 2022, è stata poi emessa una sentenza monito in relazione alla diversa e più tenue tutela prevista per i lavoratori alle dipendenze di datori con meno di sedici dipendenti (sentenza n. 183/2022): tale differenziazione è ritenuta non giustificata dal mero criterio numerico; al tempo stesso, la corte ha lamentato l'esiguo margine di discrezionalità in capo al giudice, riservandosi - in assenza di un intervento correttivo del legislatore - di incidere sulla lettera delle disposizioni in materia ove nuovamente investita.
Il legislatore è, quindi, chiamato a fornire una risposta al monito rivolto dal giudice delle leggi nel 2022 ed a valutare l'opportunità di un intervento più organico per correggere la disciplina risultante dalle decisioni assunte nel 2018 e nel 2020. Il testo della norma non indica più i criteri per la liquidazione delle indennità; per quanto il giudice del lavoro possa avvalersi delle indicazioni della Corte costituzionale e degli orientamenti della Cassazione, rintracciando nell'ordinamento i principi e criteri a cui attenersi, spetta al decisore politico la valutazione ultima sui parametri che devono guidare la decisione del giudice del lavoro e sui margini entro cui può esercitare la propria discrezionalità.
In queste pagine, dopo aver succintamente ripercorso la disciplina del contratto a tutele crescenti contenuta nel Decreto legislativo 4 marzo 2015, n. 23, saranno approfonditi gli argomenti impiegati dalla giurisprudenza costituzionale più recente per delineare il quadro entro cui il legislatore potrà esercitare la propria discrezionalità politica. Raccogliendo gli spunti offerti in dottrina e alcuni elementi comparatistici, queste pagine intendono, infine, offrire alcuni spunti di riflessione in vista di un possibile intervento del legislatore.

Il quadro normativo e l'intervento della Corte Costituzionale
Il Decreto Legislativo 4 marzo 2015, n. 23, recante disposizioni in materia di contratto di lavoro a tempo indeterminato a tutele crescenti, in attuazione della delega contenuta nella legge 10 dicembre 2014 n. 183, ha previsto un nuovo regime di tutela in caso di licenziamento illegittimo per i lavoratori che rivestono la qualifica di operai, impiegati o quadri, assunti con contratto di lavoro subordinato a tempo indeterminato a decorrere dal 7 marzo 2015.
La principale novità introdotta riguarda la natura prevalentemente obbligatoria e monetaria, anziché reale e reintegratoria, della tutela riservata al lavoratore in caso di licenziamento illegittimo. Si prevede, infatti, che il giudice dichiari la nullità del licenziamento e ordini la reintegrazione del lavoratore nel posto di lavoro in un novero circoscritto di ipotesi, quali il licenziamento discriminatorio o l’insussistenza del fatto materiale contestato al lavoratore . Nella restante generalità dei casi, invece, in cui non risulti accertato il ricorrere degli estremi del licenziamento per giustificato motivo oggettivo o per giustificato motivo soggettivo o giusta causa (art. 3), così come nel caso di licenziamento intimato in violazione del requisito di motivazione o della procedura di conciliazione prevista all’articolo 7 della legge 20 maggio 1970, n. 300 (art. 4), si prevede che il giudice dichiari comunque estinto il rapporto di lavoro e condanni il datore di lavoro al pagamento di un’indennità.
Per prevenire un’eventuale controversia con il lavoratore, l’articolo 6 prevede che il datore possa offrire a questi, entro i termini di impugnazione stragiudiziale del licenziamento, un importo commisurato all’anzianità di servizio; l’accettazione dell’offerta di conciliazione comporta l’estinzione del rapporto alla data del licenziamento e la rinuncia alla sua impugnazione.
Nel testo originario del decreto legislativo n. 23/2015, sia l’indennità che il datore è tenuto a versare in caso di licenziamento illegittimo, sia l’importo che può offrire al lavoratore per evitare un’eventuale controversia giudiziaria, erano commisurati all’anzianità di servizio, nel rispetto di un minimo e di un massimo di mensilità da ultimo modificato con D.L. n. 87/2018. In particolare:
- in caso di mancanza degli estremi del licenziamento per giustificato motivo oggettivo o soggettivo o giusta causa, era prevista un’indennità pari a due mensilità per anno di anzianità, in misura comunque non inferiore a sei e non superiore a trentasei mensilità (art. 3, comma 1);
- in caso di licenziamento intimato in violazione dell’obbligo di motivazione o della procedura di conciliazione di cui all’articolo 7 della legge n. 300/1970, era prevista un’indennità pari a una mensilità per anno di anzianità, in misura comunque non inferiore a due e non superiore a dodici mensilità (art. 4, comma 1);
- ai fini della formulazione dell’offerta di conciliazione, è tuttora previsto un importo pari a una mensilità per anno di servizio, in misura comunque non inferiore a tre e non superiore a ventisette mensilità (art. 6, comma 1);
- per i datori di lavoro con un numero di dipendenti fino a quindici (cinque in caso di imprenditori agricoli), si applica la riduzione della metà degli importi, delle soglie e dei valori di cui ai punti precedenti (art. 9, comma 1).
Il giudice delle leggi ha riconosciuto, in via generale, la conformità alla Costituzione di un sistema di tutele fondato principalmente sull’indennità economica anziché sulla reintegrazione del lavoratore licenziato illegittimamente . Né la Corte dubita della legittimità costituzionale di un sistema di tutele differenziato per quanti siano stati assunti prima del 7 marzo 2015 (a cui si applica l’articolo 18 della legge n. 300/1970) o in data successiva (ai quali si applica la disciplina contenuta dal D.Lgs. n. 23/2015) . Tuttavia, la Consulta ha pronunciato due sentenze di illegittimità costituzionale e una sentenza cd “monito”, che hanno come effetto quello di incidere significativamente sulla cornice normativa tracciata dal legislatore nel 2015 e sollecitare il legislatore a intervenire nuovamente a correzione del sistema di tutele offerto ai lavoratori dalle disposizioni in tema di contratto a tutele crescenti.
In particolare, le sentenze n. 194/2018 e 150/2020 hanno dichiarato l’illegittimità, rispettivamente, dell’articolo 3, comma 1 e dell’articolo 4 del D.Lgs. n. 23/2015, nella misura in cui vincolano il giudice a determinare solo in base all’anzianità del lavoratore l’indennità a carico del datore di lavoro.
Successivamente, la sentenza n. 183/2022, nel dichiarare inammissibile le questioni di legittimità costituzionale dell’articolo 9, comma 1 del medesimo decreto, ha evidenziato tuttavia come lo scarto tra il limite minimo e il limite massimo dell’indennità determinabile dal giudice nel caso di datore di lavoro con meno di sedici dipendenti (da tre a sei mensilità) da un lato sia troppo esiguo per adeguare l’importo alla specificità di ogni singola vicenda, dall’altro dia luogo ad una disomogeneità rispetto alla disciplina generale che non può essere giustificata dal solo dato numerico dei dipendenti.
Nel caso delle sentenze n. 194/2018 e 150/2020, il giudice delle leggi ha ritenuto che una dichiarazione di illegittimità incostituzionale parziale potesse consentire efficacemente il superamento dei vizi delle disposizioni esaminate; nel caso della sentenza n. 183/2022, ha ritenuto non percorribile un’analoga soluzione, rimettendo al legislatore l’esercizio della discrezionalità che gli è propria per individuare un rimedio consono. Tuttavia, la Corte avverte che “un ulteriore protrarsi dell’inerzia legislativa non sarebbe tollerabile e la indurrebbe, ove nuovamente investita, a provvedere direttamente, nonostante le difficoltà” .
Per quanto teoricamente solo l’articolo 9 sia oggetto di una sentenza monito e necessiti di un intervento del legislatore, è evidente come le questioni esaminate e le pronunce della Corte siano tra loro strettamente connesse e potrebbero indurre il legislatore a un intervento più organico di modifica delle disposizioni che prevedono la tutela di tipo indennitaria e obbligatoria in caso di licenziamento illegittimo.
Tanto più se si considera che la sentenza n. 194/2018 e, pur in misura minore, la sentenza n. 150/2020 hanno avuto come effetto anche quello di vanificare in larga misura il tentativo di rendere predeterminabile la sanzione in cui il datore può incorrere nel caso si rilevi l’assenza degli estremi di un licenziamento per giustificato motivo o giusta causa. A ciò si aggiunga che una non omogenea applicazione della disposizione risultante dalla pronuncia della Consulta potrebbe dar luogo a trattamenti significativamente differenziati pur per vicende analoghe, a detrimento della certezza del diritto e del medesimo principio di uguaglianza di cui all’articolo 3 della Costituzione richiamato dalle medesime sentenze quale norma costituzionale violata dal testo del D.Lgs. n. 23/2015.
In dottrina si è evidenziato come già con le sentenze n. 194/2018 e 150/2020 la corte costituzionale abbia individuato con una nettezza che non ha precedenti vincoli alla discrezionalità del legislatore in materia di tutela del lavoratore illegittimamente licenziato. Con la sentenza n. 183/2022, poi, è stata posta in discussione la validità di un criterio, il numero dei lavoratori alle dipendenze del datore di lavoro, su cui si è fondato per lungo tempo un regime differenziato di tutela del lavoratore nelle realtà più piccole.
In questa sede non si intende approfondire le criticità o gli eventuali segni di discontinuità rilevabili nella recente giurisprudenza costituzionale su cui si è già espressa autorevole dottrina. Piuttosto, anche sulla scorta dei contributi da questa forniti, si propone una disamina degli argomenti addotti dalla Consulta con l’auspicio che ciò risulti utile a ricostruire il quadro entro il quale il legislatore può rinvenire le risposte più idonee al monito rivoltogli e prevenire nuovi interventi demolitori.

I criteri rilevanti ai fini della determinazione dell’indennità
• La contestazione del criterio dell’anzianità come unico considerabile
La Corte non contesta, come anzidetto, un impianto basato sulla tutela obbligatoria , anziché reale, del lavoratore licenziato senza giusta causa o giustificato motivo , né - di per sé - si oppone all’apposizione di un limite minimo e di un limite massimo all’indennità riconoscibile al lavoratore illegittimamente licenziato; anzi, la Corte ha avuto modo di definire adeguato il limite di ventiquattro o trentasei mensilità fissato dall’articolo 3 del D.Lgs. n. 23/2015 quale soglia massima dell’indennità .
Piuttosto, l’obiettivo del giusto contemperamento degli interessi in gioco, secondo la Corte, non può essere conseguito commisurando aritmeticamente l’indennità agli anni prestati dal lavoratore presso il medesimo datore di lavoro. Ciò vale sia nel caso di licenziamento illegittimo da un punto di vista sostanziale, per l’assenza degli estremi del licenziamento per giustificato motivo, quanto nel caso del licenziamento intimato in violazione delle norme procedurali.
Ad essere violati, in tal caso, sono l’articolo 3 della Costituzione, in relazione sia al principio di eguaglianza, sotto il profilo dell’ingiustificata omologazione di situazione diverse, sia al principio di ragionevolezza, nonché gli articoli 4 primo comma , 35, primo comma , 76 e 117, primo comma (questi ultimi due articoli, citati solo dalla sentenza n. 194/2018, in relazione all’articolo 24 della Carta Sociale Europea ).
Per quanto sia ammissibile la sua forfettizzazione entro un importo minimo e massimo fissato per legge, precisa quindi la Corte, l’indennità da riconoscere deve comunque realizzare un giusto contemperamento degli interessi in conflitto e garantire un adeguato ristoro . Il D.Lgs. n. 23/2015, invero, non configura l’indennità in termini risarcitori e, tuttavia, la sua funzione compensativa sembra costituire ora un assioma su cui si fondano le recenti decisioni della Consulta.
Questa equiparazione all'indennità risarcitoria secondo autorevole dottrina , “richiederebbe quantomeno un’argomentazione a supporto sul piano sistematico”. Una risposta, per quanto possa esser considerata non del tutto esauriente da parte della dottrina, può essere già individuata proprio nel riferimento che leggiamo già nella sentenza n. 194/2018 all’articolo 24 della Carta Sociale Europea e in particolare al primo comma, lettera b) che impone il riconoscimento di un congruo indennizzo o un’altra adeguata riparazione. La Corte cita, a tal proposito, la decisione resa dal Comitato europeo dei diritti sociali (Ceds) a seguito del reclamo collettivo n. 106/2014, laddove precisa che l’indennizzo è congruo se è tale da assicurare un adeguato ristoro per il concreto pregiudizio subito dal lavoratore licenziato senza un valido motivo e da dissuadere il datore di lavoro dal licenziare ingiustificatamente.
Con la sentenza n. 194/2018 e la precedente n. 120/2018, dalla prima richiamata, la Corte costituzionale ha chiarito che le norme contenute nella Carta sociale europea possono considerarsi, quanto meno se recano un contenuto puntuale, parametri interposti di legittimità costituzionale della legge, mediante l’articolo 117, comma 1 della Costituzione . Ha anche riconosciuto l’autorevolezza delle decisioni del Comitato europeo dei diritti sociali, precisando, tuttavia, che le sue decisioni non sono vincolanti per i giudici nazionali . Quest’ultima specificazione spiega anche perché, nella successiva sentenza n. 183/2022, ha ritenuto non si potesse invocare, ai fini della dichiarazione di illegittimità costituzionale dell’articolo 9 del D.Lgs. n. 23/2015, la decisione del Comitato europeo dei diritti sociali dell’11 febbraio 2020.
Con detta decisione, il Comitato europeo dei diritti sociali ha concluso che il sistema risarcitorio previsto agli articoli 3, 4, 9 e 10 del D.Lgs. n. 23/2015 viola l’articolo 24 della Carta Sociale Europea. Ciò nel presupposto che i lavoratori licenziati senza un valido motivo debbano ottenere un indennizzo o un altro risarcimento adeguato; i meccanismi indennitari – secondo il Comitato - sono conformi alla Carta quando prevedono:
- il rimborso delle perdite finanziarie subite tra la data del licenziamento e la decisione dell’organo del ricorso,
- la possibilità di reintegro del lavoratore e/o
- un’indennità di un importo sufficientemente elevato da dissuadere il datore di lavoro e compensare il danno subito.
Le disposizioni contestate, secondo il Comitato, prevedono un indennizzo che non copre le perdite finanziarie effettivamente subite, perché l’importo è limitato, a seconda dei casi, dal plafond di 6, 12 o 36 mensilità di riferimento. Secondo il Comitato, qualsiasi tetto massimo che svincoli le indennità scelte dal danno subito e non presentino un carattere sufficientemente dissuasivo è contrario alla Carta. Nel caso in specie, né i sistemi di tutela alternativi offrono al lavoratore vittima del licenziamento illegittimo una possibilità di risarcimento oltre il tetto massimo del plafond previsto, né il meccanismo di conciliazione consente in tutti i tipi di licenziamento senza motivo valido di ottenere un risarcimento adeguato, proporzionato al danno subito, e tale da dissuadere l’uso dei licenziamenti illegittimi .
Come giustamente osservato in dottrina , vi è dunque di fondo una chiara divergenza tra l’orientamento consolidato del Ceds e quello della Corte costituzionale circa il modo di intendere il requisito di adeguatezza dell’indennizzo risarcitorio: per il Comitato europeo dei diritti sociali, qualsiasi tetto di legge che impedisca al giudice di quantificare l’indennizzo in modo da realizzare pienamente la sua duplice funzione satisfattiva e dissuasiva appare incompatibile con l’articolo 24 della Carta Sociale Europea, mentre la Corte costituzionale non ritiene in sé incostituzionale, nonostante l’opinione testé riportata del Ceds, la previsione di un plafond di legge all’importo dell’indennizzo.
Piuttosto, ai fini della determinazione dell’indennità da riconoscere al lavoratore illegittimamente licenziato, secondo la Consulta, è necessario garantire la congruità dell’indennità e la sua determinabilità sulla base di una pluralità di criteri utili alla personalizzazione del danno e a garantirne il carattere dissuasivo nel caso concreto.
In questo quadro, secondo la Corte costituzionale, l’anzianità di servizio è un criterio rilevante, ma non può essere l’unico considerabile, in quanto imporrebbe un’ingiustificata omologazione di situazioni diverse, in contrasto con il principio di uguaglianza di cui all’articolo 3 della Costituzione.
La Consulta ritiene pertanto che, entro i confini tracciati dal legislatore, anche altri criteri debbano essere offerti alla prudente discrezionalità del giudice, per garantire una calibrata modulazione del risarcimento dovuto, in ossequio del principio di personalizzazione del danno.
Altrimenti, più che certa, la misura dell’indennità sarebbe connotata da una rigidità incompatibile con la necessità di garantire l’adeguatezza della stessa rispetto alla sua asserita funzione riparatorio-compensativa e alla sua funzione dissuasiva (di qui il contrasto con il principio di ragionevolezza , nonché con gli articoli 4 e 35 della Costituzione ). In particolare, “la rigida dipendenza dell’aumento dell’indennità dalla sola crescita dell’anzianità di servizio mostra la sua incongruenza soprattutto nei casi di anzianità di servizio non elevata” (sentenza n. 194/2018 ).
Invero, l’esistenza di una discrezionalità del giudice costituzionalmente obbligata che può desumersi dalla lettura della sentenza ha destato ulteriori perplessità in quanti, per contro, osservano come per 42 anni “nessuno ha sollevata mai una siffatta censura di incostituzionalità a fronte dell’automatismo sanzionatorio dell’art. 18 Stat. Lav., versione originaria, che non lasciava al giudice alcuna discrezionalità in ordine appunto alla sanzione, trovando sempre applicazione quella massima, con il risarcimento pari a tutte le retribuzioni perse dal licenziamento alla reintegrazione, oltre alla reintegrazione stessa nel posto di lavoro” . Tuttavia, vi è chi, commentando le pronunce della Corte costituzionale sulle indennità riconosciute ai sensi del D.Lgs. n. 23/2015, ritiene la posizione espressa coerente con un filone giurisprudenziale che, più in generale, mostra avversione verso misure legislativamente predeterminate e considera le previsioni rigide poco in armonia con il volto costituzionale del sistema .
Ad ogni modo, secondo l’orientamento della Corte, l’anzianità di servizio è un criterio utile ma non sufficiente alla quantificazione di un’indennità congrua rispetto al pregiudizio subito dal lavoratore e idonea a svolgere la propria funzione dissuasiva.
La Corte stessa, nella sentenza n. 194/2018, ai fini di una ricognizione degli altri criteri meritevoli di essere considerati, rinvia all’articolo 8 della legge n. 604/1966. Tale disposizione fa riferimento, oltre che all’anzianità di servizio, anche al numero dei dipendenti occupati, alle dimensioni dell’impresa, al comportamento e alle condizioni delle parti. Ricorda, poi, come l’articolo 18, quinto comma, della legge 20 maggio 1970, n. 300 preveda che l’indennità risarcitoria sia determinata seguendo criteri in larga parte analoghi a quelli suindicati, nonché avendo riguardo alle dimensioni dell’attività economica .
Alcuni commenti alla sentenza hanno sottolineato come in realtà nessuno dei succitati criteri, o al limite il solo riferimento alle condizioni del lavoratore, influisce effettivamente sull’entità del danno patito , quanto, piuttosto sull’efficacia dissuasiva della sanzione. Più prudentemente, nella successiva sentenza n. 150/2020 si fa riferimento, anziché alla personalizzazione del danno, alla necessità di un “apprezzamento delle particolarità del caso concreto” .
Ad ogni modo, anche in quest'ultima sentenza si afferma come siano significativi al pari dell’anzianità di servizio fattori già presi in considerazione dal legislatore, come la diversa gravità delle violazioni ascrivibili al datore di lavoro, valorizzata dalla legislazione del 2012 nell’area della tutela reale, o i più flessibili criteri del numero degli occupati, delle dimensioni dell’impresa, del comportamento e delle condizioni delle parti .
In entrambi le sentenze, la Corte invita dunque i giudici, nel dare applicazione alla normativa di risulta, per quantificare l’indennità spettante al lavoratore, a tener conto, nel rispetto dei limiti, minimo e massimo, dell’intervallo definito dal legislatore, innanzi tutto al criterio dell’anzianità di servizio (base di partenza della valutazione); quindi, il giudice, “in chiave correttiva, con apprezzamento congruamente motivato” - come precisa la sentenza n. 150/2020 – potrà ponderare anche gli altri criteri già richiamati nelle sentenze e desumibili in chiave sistematica dalla evoluzione della disciplina limitativa dei licenziamenti. Secondo autorevole dottrina, le precisazioni contenute nella sentenza n. 150/2020 recepiscono le letture che avevano provato ad “ammorbidire” l’impatto della sentenza n. 194/2018, ricavandone uno schema di liquidazione dell’indennizzo articolato in due fasi: una prima, necessaria, parametrata alla anzianità di servizio; la seconda, eventuale e in funzione correttiva, che considera anche gli altri criteri .
Tra questi, può trovare rilievo, seppur non enunciato espressamente dalla Consulta ma desumibile dall’ordinamento, anche quello previsto specificatamente per il giustificato motivo oggettivo dal comma 7 dell’articolo 18 della legge n. 300/1970, che fa riferimento alle iniziative assunte dal lavoratore per la ricerca di una nuova occupazione. O, ancora, i criteri indicati all’articolo 30 della legge n. 183/2010 per la definizione delle conseguenze da riconnettere al licenziamento ai sensi dell’articolo 8 della legge n. 604/1966; questi comprendono, oltre alle dimensioni dell’attività, al comportamento delle parti, all’anzianità e alle condizioni del lavoratore, anche gli elementi e i parametri fissati dai contratti di lavoro, le condizioni dell'attività esercitata dal datore di lavoro e la situazione del mercato del lavoro locale.

• La contestazione del parametro del numero dei dipendenti come unico criterio per una differenziazione del regime di tutele
Il criterio relativo al numero degli occupati, pur richiamato dalle sentenze nn. 194/2018 e 150/2020 tra i parametri di cui tener conto ai fini della liquidazione dell’indennità, è contestato dalla sentenza n. 183/2022 nella misura in cui segna un solco profondo tra la tutela riconosciuta ai dipendenti delle imprese con un numero di dipendenti fino a 15 o superiore.
Secondo la Corte, “in un sistema imperniato sulla portata tendenzialmente generale della tutela monetaria, la specificità delle piccole realtà organizzative, che pure permane nell’attuale sistema economico, non può giustificare un sacrificio sproporzionato del diritto del lavoratore di conseguire un congruo ristoro del pregiudizio sofferto”.
Si tratta, per la Corte, di un revirement di grande momento. A lungo, il criterio numerico è stato giudicato adeguato a differenziare le tutele dei lavoratori in caso di licenziamento illegittimo. Le ragioni attenevano non solo all’esigenza di non gravare di costi eccessivi le imprese minori, ma – come espressamente enunciato nella sentenza n. 2/1986, richiamata dalla sentenza n. 183/2022 – anche all’ “elemento fiduciario che permea il rapporto datore di lavoro – lavoratore” e alla “necessità di ovviare tensioni nella fabbrica” .
D’altro canto, già nella sentenza n. 81/1969, la Consulta aveva sottolineato come i criteri scelti dal Parlamento per la differenziazione del regime di tutela dei lavoratori illegittimamente licenziati possono essere da questi rivisti “anche in considerazione dell’evolvere delle esigenze organizzative, collegate, tra l’altro, al progresso tecnologico”. Ora la Corte motiva questa inversione di rotta sottolineando per l’appunto i mutamenti avvenuti nel tempo sia con riguardo al quadro normativo che al contesto economico.
Sotto il primo profilo, segnala come in un sistema imperniato sulla tutela indennitaria, in cui le dimensioni dell’impresa non assurgono più a criterio discretivo ai fini dell’applicazione della più incisiva tutela reale, la specificità delle piccole realtà organizzative non può giustificare un sacrificio sproporzionato del diritto del lavoratore a conseguire un congruo ristoro del pregiudizio sofferto.
Sotto il secondo profilo, la Corte osserva come il numero dei dipendenti non costituisca più un valido e univoco indicatore dell’effettiva forza economica, né può avere un peso tale da impedire la valutazione di fattori come la gravità del licenziamento arbitrario e il danno subito dal lavoratore. Anzi, secondo la Corte “in un quadro dominato dall’incessante evoluzione della tecnologia e dalla trasformazione dei processi produttivi, al contenuto numero di occupati possono fare riscontro cospicui investimenti in capitali e un consistente volume di affari”, per cui “Il criterio incentrato sul solo numero degli occupati non risponde, dunque, all’esigenza di non gravare di costi sproporzionati realtà produttive e organizzative che siano effettivamente inidonee a sostenerli”.
Il numero di dipendenti è, quindi, considerato un indice inadeguato a misurare la capacità economica del datore di lavoro, vero parametro da considerare, unitamente agli altri, ai fini della quantificazione di un’indennità che svolga la propria funzione compensativa, ma anche deterrente.
Ciò detto, secondo il giudice delle leggi, l’esiguo divario tra un minimo di tre e un massimo di sei mensilità vanifica l’esigenza di adeguarne l’importo alla specificità della singola vicenda, nella prospettiva di un congruo ristoro e di un’efficace deterrenza e conferisce un rilievo preponderante ad un criterio numerico non più sufficiente, né adeguato a misurare la capacità economica del datore di lavoro.
Mentre nelle due precedenti sentenze ad essere contestato era stato il criterio di calcolo dell’indennità, nella sentenza monito del 2022 pare dubitarsi, oltre che dell’adeguatezza dello scarto esiguo tra limite minimo e massimo dell’indennità, della congruità della soglia massima fissata dal D.Lgs. n. 23/2015 alla luce della differenziazione delle tutele previste, basata sul mero criterio del numero dei dipendenti, laddove si afferma che “il limite uniforme e invalicabile di sei mensilità, che si applica a datori di lavoro imprenditori e non, opera in riferimento ad attività tra loro eterogenee, accomunate dal dato del numero dei dipendenti occupati, sprovvisto di per sé di una significativa valenza” .

• I requisiti che un sistema di tutele deve soddisfare per garantire la funzione risarcitoria e dissuasiva dell’indennità e prime osservazioni
Le considerazioni svolte dalla Corte costituzionale suggeriscono che la funzione risarcitoria e dissuasiva dell’indennità da corrispondere ad un lavoratore illegittimamente licenziato sia garantita se essa tiene conto dei seguenti macro-criteri e principi:
- il danno subito dal lavoratore;
- la forza economica del datore;
- il comportamento delle parti e quindi della gravità della violazione.
La rilevanza del primo macro-criterio, su cui è parsa in un primo tempo insistere la Corte Costituzionale nella sentenza n. 194/2018 risulta affievolita alla luce della successiva sentenza n. 150/2020, che non fa più riferimento al principio della personalizzazione del danno. Tuttavia, non potendo considerare la seconda sentenza una rettifica della prima, va tenuta presente la funzione compensativa dell'indennità, anche alla luce del rilievo che ne dà la Carta Sociale Europea nell'interpretazione offerta dal Comitato europeo dei diritti sociali.
Mentre la valutazione del danno sofferto è utile a garantire la funzione compensativa, il giudizio in primis sul comportamento delle parti, in secundis sulla forza economica del datore, rilevano al fine di assicurare la funzione dissuasiva dell’indennità.
Si può convenire che la funzione dissuasiva vada attribuita all’indennità primariamente quando il datore di lavoro abbia adottato il licenziamento nella consapevolezza della sua ingiustificatezza. Quando non è stato mosso da questa consapevolezza, l’effetto dissuasivo è destinato ad avere un rilievo minore .
I criteri già enucleati dal legislatore e richiamati nelle sentenze della Consulta, integrabili con quelli proposti dal Comitato europeo dei diritti sociali, assurgono a indicatori utili per quanto non sempre precisi e in ogni caso mai univoci, per stabilire un’indennità che tenga conto dei suddetti principi.
L’anzianità di servizio continua ad essere, a giudizio della Corte, il criterio da cui partire per la determinazione di un’indennità equa. Anche nelle prime sentenze emesse a seguito della sentenza costituzionale n. 194/2018, la giurisprudenza ha assunto il calcolo dell'indennità in proporzione all'anzianità come punto di partenza per operare, successivamente, i correttivi che le circostanze del caso richiedevano . Ciò anche in considerazione del fatto che, anche dopo gli interventi demolitori della Corte costituzionale, è rimasta in vigore la legge delega n. 183/2014, che impone non solo al legislatore ma anche all’interprete di determinare “un indennizzo economico certo e crescente con l’anzianità di servizio” .
Esso, d’altro canto, può dar la misura dell’affidamento maturato occupando una posizione lavorativa, una sorta di aspettativa di fatto alla conservazione del posto del lavoro il cui venir meno comporta un danno tanto più grave tanti più anni sono stati dedicati a tale attività. Per altro, nella comune esperienza, le competenze sviluppate possono talvolta essere talmente firm specific da risultare poco ricercato all’esterno. Tanto più, se il lavoratore ha un’età avanzata e difficilmente rioccupabile. Inoltre, come osservano gli economisti O. Blanchard e J. Tirole, vi è un costo psicologico derivante dalla perdita del lavoro, consistente nella perdita di una rete di amicizie collegate all’attività lavorativa, in un peggioramento delle condizioni di salute e in un calo dell’autostima che sembra dipendere dal periodo di permanenza in azienda . Tuttavia, occorre ammettere che non sempre vi è una perfetta proporzionalità tra anzianità di servizio e entità del danno subito. Un lavoratore esperto può aver maturato negli anni trascorsi presso il datore di lavoro che lo licenzia competenze utili a trovare una nuova occupazione altrettanto soddisfacente in un periodo di tempo più breve rispetto a chi ha da poco fatto il proprio ingresso nel mondo del lavoro.
Altri aspetti, come le perdite finanziarie subite dalla data di licenziamento alla decisione del giudice e la possibilità di reintegro del lavoratore a cui fa riferimento il Comitato europeo dei diritti sociali o, ancora, la situazione del mercato del lavoro locale e le condizioni del lavoratore latamente richiamate dal diritto nazionale (espressione generica che può comprendere aspetti quali l’età, l’istruzione, le competenze, i carichi familiari ) possono concorrere alla determinazione di un ristoro adeguato, per quanto l’attribuzione di un peso eccessivo da parte del legislatore a questi aspetti possa portare, come vedremo, ad un’indesiderata eterogenesi dei fini.
Anche prima che la sentenza costituzionale n. 150/2020 ridimensionasse la rilevanza della funzione compensativa dell’indennità, la giurisprudenza è stata cauta nel dare eccessivo peso alla condizione del lavoratore. Rare, infatti, sono le sentenze che hanno corretto in aumento l’indennità calcolata sulla base dell’anzianità per tenerne conto. Quando lo ha fatto, sono stati presi in considerazione aspetti come i carichi di famiglia del lavoratore , il perdurare dello stato di disoccupazione , la difficoltà a trovare una nuova occupazione in ragione dell'età avanzata , del titolo di studio e dell'assenza di una particolare qualificazione professionale .
Per contro, il numero di dipendenti può essere un indice della capacità economica del datore, di cui tener conto per garantire la funzione dissuasiva dell’indennità, ma la sua idoneità a rappresentarla senza l’apporto di altri elementi è, tuttavia, discutibile, anche perché non ritrae adeguatamente la forza economica di imprese che svolgono attività capital intensive o ad alto contenuto tecnologico oppure che hanno un’organizzazione del lavoro flessibile. D’altra parte il più generico riferimento alle dimensioni dell’attività non ha trovato ancora altre specificazioni in norme di diritto positivo. Anche la giurisprudenza successiva alla sentenza del 2018, pur dando spesso rilievo al criterio della capacità economica dell’impresa per rendere più dissuasiva l’indennità liquidabile in sede di giudizio, ha fatto per lo più riferimento al numero dei dipendenti e alle dimensioni dell’impresa; talvolta, tuttavia, sono stati valutati anche la situazione patrimoniale aziendale e il giro d’affari desumibile dalla documentazione raccolta .
Quanto al comportamento delle parti, esso può riferirsi a quello tenuto in costanza del rapporto di lavoro , in sede di conciliazione e di giudizio , ma anche – per quanto di difficile se non impossibile valutazione – alle iniziative assunte dal lavoratore per la ricerca di una nuova occupazione .
Di interesse, la sentenza del Tribunale di Civitavecchia del 7 febbraio 2019, che ha incrementato l’indennità altrimenti quantificabile moltiplicando aritmeticamente il numero di anni di anzianità per due, tenendo conto anche dei precedenti rapporti di collaborazione o di lavoro a termine tra il datore e il lavoratore da parte; aspetto che può essere ricondotto sia al criterio del comportamento delle parti, sia ad un'interpretazione estesa del parametro dell'anzianità, rispondente ad un dato più fattuale.

I sistemi di tutela all’estero
Una panoramica delle normative vigenti nei principali paesi europei (Francia, Spagna, Germania e Regno Unito) mostra come il criterio dell’anzianità sia ampiamente utilizzato come unico o principale parametro nella determinazione dell’indennità in caso di licenziamento illegittimo non discriminatorio. In genere, inoltre, il tetto massimo delle indennità risulta inferiore a quello stabilito dalla legge italiana per i datori con più di 15 dipendenti (pari a 36 mesi).
In Spagna, ad esempio, nel caso di licenziamenti illegittimi, il datore di lavoro può scegliere la reintegrazione del lavoratore e la corresponsione delle mensilità non percepite nel frattempo o il riconoscimento di un’indennità pari a 33 giorni di paga per ciascun anno di servizio, fino a un massimo di 24 mensilità (art. 56, dell’Estatuto de los Trabajadores, Real Decreto legislativo n. 2/2015) .
In Francia, la reintegrazione è un’opzione che richiede il consenso del datore e del lavoratore. Altrimenti, dopo la riforma attuata con l’ordonnance n. 2017/1387, che ha modificato l’articolo L1235-3 del Codice del Lavoro, è riconosciuta un’indennità determinabile, per le imprese con più di dieci dipendenti, tra un limite minimo di tre mesi ed un limite massimo che cresce in proporzione con l’anzianità del lavoratore. È quindi riconosciuto al giudice un margine di flessibilità che gli consente tener conto di altri criteri. Tale flessibilità, tuttavia, risulta molto contenuta nei primi anni di servizio (da 3 a 3,5 mensilità dopo due anni di anzianità) e si espande oltremodo dopo 30 anni di anzianità di servizio (da 3 a un massimo di 20 mensilità). Per le imprese con meno di undici dipendenti, a parità di limiti massimi applicabili, il limite minimo è più basso e varia da 0,5 mensilità, dopo un anno di anzianità, a 2,5 mensilità, dopo dieci anni di anzianità.
Anche in Germania, la continuazione del rapporto può essere decisa di comune accordo. Altrimenti, il lavoratore ha diritto a un indennizzo solo se lavora in un’impresa con più di dieci dipendenti; il datore di lavoro, qualora adduca motivi oggetti, offre un indennizzo pari a mezza mensilità per anno di anzianità, la cui accettazione comporta rinuncia ad un eventuale ricorso giudiziario. Se il giudice è adito e non riscontra il motivo oggettivo di licenziamento, stabilisce un’indennità rapportata all’anzianità di servizio fino ad un tetto massimo che dipende anche dall’età del lavoratore: fino a 18 mensilità in caso di lavoratore con oltre 55 anni e 20 anni di servizio, fino a 15 mensilità in caso di lavoratore con oltre 50 anni di età e 15 anni di servizio, fino a 12 mesi negli altri casi. La legge tedesca (Kündigungsschutzgesetz) prevede un indennizzo ulteriore per il periodo tra la data del licenziamento e quella della decisione del giudice.
Età e anzianità sono i parametri stabiliti anche nel Regno Unito per la determinazione dell’indennità da corrispondere al lavoratore licenziato senza giustificato motivo. Ai lavoratori spetta, infatti, ai sensi dell'Employment Rights Act del 1996, un’indennità dal datore di lavoro, in caso di redundancy (equiparabile al giustificato motivo oggettivo) pari al salario di 0,5, di una o di 1,5 settimane per ciascun anno di anzianità a seconda, rispettivamente, che il lavoratore abbia meno di 22 anni, tra i 22 e i 40 anni o abbia un’età maggiore. È comunque previsto un tetto massimo di 20 anni di servizio ai fini della determinazione dell’indennità. La compensazione massima settimanale non può, in ogni caso, eccedere un importo pari a 571 sterline e quella complessiva non può superare le 17.130 sterline.

Le soluzioni prospettabili nel solco della giurisprudenza costituzionale
L’urgenza che si pone dinanzi al legislatore ad oggi riguarda l’articolo 9 del D.Lgs. n. 23/2015 sull’indennità da riconoscere ai dipendenti di piccole realtà economiche licenziati in modo illegittimo. La sentenza 183/2022 reca un monito. Se disatteso, è prevedibile che la Corte Costituzionale intervenga nuovamente, con una sentenza di illegittimità costituzionale che equiparerebbe del tutto i datori con quindici dipendenti o meno agli altri.
Interventi minimi di risposta al monito contenuto nella sentenza n. 183/2022
Il legislatore potrebbe limitarsi ad eliminare la differenziazione di trattamento prevista dall’articolo 9. In questo modo, anche la valutazione circa la capacità economica dell’impresa, di cui tener conto nella determinazione dell’indennità da riconoscere al lavoratore, sarebbe rimessa al giudice. La soluzione potrebbe risultare penalizzante e mettere in difficoltà le imprese economicamente meno solide, dato che il numero minimo di mensilità da riconoscere al lavoratore licenziato senza giustificato motivo o giusta causa salirebbe da tre a sei e il numero massimo da sei a trentasei.
Una seconda soluzione potrebbe consistere nell’estensione della forbice entro la quale tale indennità può essere riconosciuta, elevando il limite massimo di mensilità ad un numero più alto di sei, ma inferiore a quello indicato dall’articolo 3 (attualmente 36).
Quanto alla determinazione della soglia minima, è opportuno rammentare che. in un ordinamento, quale il nostro, in cui è consentita l’apposizione di un termine e la sua proroga fino a 24 mesi, se troppo elevata, potrebbe scoraggiare il ricorso al contratto a tempo indeterminato o, quanto meno, indurre in misura maggiore i datori di lavoro a sottoscriverlo solo una volta cessato il termine massimo consentito per la durata del rapporto di lavoro a tempo determinato .
Esteso il limite massimo di mensilità riconoscibili a titolo di indennità, per venire incontro alle perplessità sollevate dalla Consulta e contemperare l’innalzamento del limite massimo dell’indennità con l’esigenza di salvaguardare la continuità aziendale dei soggetti interessati, potrebbe essere inserita una clausola affinché si tenga conto dei diversi gradi di capacità economica che un datore di lavoro con un numero di dipendenti fino a 15 può vantare.
Il contestato riferimento al solo numero di dipendenti potrebbe poi essere sostituito da parametri più efficaci a misurare la capacità economica di un'impresa. A tal fine, potrebbe dirsi già più rispondente alle esigenze di equità la classificazione tra micro, piccole, medie e grandi imprese valida a livello unionale . Tale classificazione non tiene conto solo del numero di dipendenti, ma anche del fatturato e del totale degli attivi a bilancio. In questo modo, le imprese capital intensive sono inquadrate come medie o grandi imprese anche se hanno un numero esiguo di dipendenti. In effetti, i dati del conto economico e dello stato patrimoniale finiscono per riflettere, più del dato occupazionale, la reale capacità economica dell’impresa. Tali parametri possono in qualche modo essere adattati a tutte le realtà che redigono un bilancio, anche se non hanno natura di impresa.
Altrimenti, sempre per le imprese, possono rilevarsi adeguati parametri economici quali l’utile lordo o netto dell’esercizio o degli esercizi precedenti. Visto e considerato che il singolo datore può aver licenziato in carenza dei requisiti del giustificato motivo oggettivo o soggettivo o della giusta causa più di un dipendente, potrebbe rivelarsi opportuno porre quale limite massimo dell’indennità il parametro rilevatore della capacità economica rapportato al numero di dipendenti.
Un riordino delle norme sul contratto a tutele crescenti coerente con la giurisprudenza costituzionale.
Quanto agli articoli 3 e 4, le disposizioni risultanti dalle sentenze nn. 194/2018 e 150/2020, anche con le precisazioni introdotte da quest'ultima, lasciano al giudice una discrezionalità ampia, che mal si concilia con gli obiettivi di predeterminabilità della sanzione e di certezza del diritto . Obiettivi che il legislatore del 2015 si è posto, anche nella prospettiva più ampia di costruire un sistema di tutela del lavoratore che rafforzi le opportunità di ingresso nel mondo del lavoro .
D’altronde, non sembra del tutto disconosciuta neppure dalla Corte Costituzionale l’esigenza di uniformità di trattamento e di prevedibilità dei costi di un atto, per quanto illecito; piuttosto, precisa il giudice delle leggi, essa non può sacrificare in maniera sproporzionata l’apprezzamento delle particolarità del caso concreto .
Sebbene con la sentenza n. 150/2020 la Corte sembra aver dato ulteriori indicazioni ai giudici circa la prevalenza del criterio dell’anzianità, occorre evidenziare che la pronuncia riguarda prettamente la determinazione delle sanzioni in caso di licenziamento illegittimo per vizi formali ai sensi dell’articolo 4 del D.Lgs. n. 23/2015. Per quanto abbia espresso principi applicabili anche alla sanzionabilità dei licenziamenti per motivi sostanziali, resta il fatto che la Corte non ha un potere di interpretazione autentica delle proprie decisioni e che l’interpretazione delle norme dichiarate incostituzionali compete alla giurisprudenza e, segnatamente, alla Cassazione, nell’esercizio della funzione nomofilattica .
Benché le prime sentenze pronunciate dopo la sentenza costituzionale n. 194/2018 abbiano manifestato un approccio prudente, ancorando comunque, in prima battuta, il calcolo dell’indennità all’anzianità di servizio come in origine prospettato dalla norma, non vi è chiarezza sulla possibile bidirezionalità del successivo intervento correttivo né sull'intensità dello scostamento che la valutazione degli altri criteri può giustificare .
L’ipotesi di un intervento a modifica non solo dell’articolo 9, ma anche degli articoli 3 e 4, se non dell’intera disciplina vigente in materia di licenziamenti illegittimi, è avvallata dalla dottrina prevalente .
Un eventuale intervento di adeguamento del legislatore potrebbe limitarsi a richiamare o enunciare espressamente i criteri che il giudice del lavoro deve considerare per la determinazione dell’indennità. In tal senso si orienta la proposta di legge presentata nella scorsa legislatura A.C. 2744, laddove precisa che “nei casi in cui risulta accertato che non ricorrono gli estremi del licenziamento per giustificato motivo oggettivo o per giustificato motivo soggettivo o giusta causa, il giudice dichiara estinto il rapporto di lavoro alla data del licenziamento e condanna il datore di lavoro al pagamento di un'indennità risarcitoria onnicomprensiva, non assoggettata a contribuzione previdenziale determinata secondo i criteri stabiliti dall'articolo 8 della legge 15 luglio 1966, n. 604, e dall'articolo 18, quinto comma, della legge 20 maggio 1970, n. 300, nonché tenuto conto specificamente anche dell'età anagrafica, del livello di inquadramento lavorativo, dello stato di salute, della possibilità di ricollocazione del lavoratore e della gravità del comportamento delle parti. L'importo dell'indennità è determinato in misura comunque non inferiore a sei e non superiore a trentasei mensilità”.
Rimarrebbe, tuttavia, affidata al giudice la ponderazione dei fattori menzionati. Il sistema di tutele non si distaccherebbe di molto da quel “diritto liquido”, che “muta al mutare delle condizioni date nel caso concreto, della sensibilità dell’interprete e, in particolare, del concetto di giustizia a cui quest’ultimo accede” .
L’obiettivo di garantire l’uniforme applicazione delle norme sul licenziamento illegittimo e rendere prevedibile, entro un certo grado, l’indennità da versare al lavoratore in caso di giudizio con esito negativo per il datore di lavoro, potrebbe quindi essere perseguito dal legislatore attraverso una riforma organica degli articoli 3 e 4 del D.Lgs. n. 23/2015, superando a questo punto la differenziazione prevista all’articolo 9 e stabilendo, con norme di diritto positivo, criteri e modalità di determinazione dell’indennità.
Il criterio dell’anzianità di servizio mantiene una sua centralità: la Consulta lo ha comunque indicato come il primo dei criteri da considerare e non è un caso che sia il parametro utilizzato nella maggior parte degli ordinamenti europei per la determinazione dell’indennità da riconoscere al lavoratore licenziato illegittimamente.
L’anzianità di servizio, dopotutto, ha rappresentato e continua a rappresentare una proxy, per quanto non esatta, utile a tener conto dei bisogni e dei pregiudizi sofferti da chi ha maturato un’aspettativa di fatto, confidando sulla stabilità della propria occupazione e per questo, ad esempio, si è fatto carico maggiormente delle necessità del nucleo familiare. Anche la maturazione, con il passare degli anni nella medesima realtà, di competenze firm specific, utili a giustificare la progressione retributiva in un’azienda, ma non spendibili al di fuori, è un tratto che viene catturato dall’anzianità di servizio.
Ferma restando l’indicazione di un limite minimo e massimo di mensilità riconosciute a titolo di indennità in caso di licenziamento illegittimo, il criterio dell’anzianità potrebbe essere quindi previsto come preponderante, salvo rimettere al giudice – entro un range precisato nel testo della norma – la decisione sul numero di mensilità da riconoscere per ciascun anno di servizio (es. da 1,5 a 2,5 mensilità per anno di anzianità) in base ad altri criteri soggettivi (es. comportamento delle parti) e/o oggettivi (attinenti alla capacità economica del datore di lavoro e al pregiudizio subito dal lavoratore).
Una proposta di legge che pare adottare tale approccio è stata presentata nella scorsa legislatura alla Camera dei Deputati (A.C. 752); essa prevede la determinazione da parte del giudice dell’indennizzo, “se il licenziamento è stato intimato nei primi dieci anni di servizio del dipendente, in misura compresa fra otto e ventiquattro mensilità e, dall'inizio dell'undicesimo anno di servizio, da otto a trentasei mensilità dell'ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del trattamento di fine rapporto per ogni anno di servizio, tenuto conto anche della gravità del vizio riscontrato”.
Di tenore simile anche alcune soluzioni prospettate in dottrina. C. Pisani, ad esempio, ipotizza il ricorso a una tecnica simile a quella utilizzata dal contratto collettivo dei dirigenti commercio del 2016, che prevede soglie minime e massime più elevate al crescere dell’anzianità di servizio.
Rispetto alla definizione di più ampi scaglio, la determinazione del numero di mensilità per anno di servizio parrebbe consentire, tuttavia, una maggiore gradualità.
In alternativa, lo stesso C. Pisani ritiene sufficiente, a parità di soglia minima, fissare soglie massime differenziate sulla base dell’anzianità di servizio e di un ulteriore parametro oggettivo, in analogia con la tecnica adottata dall’articolo 8 della legge n. 604/1966 .
In alternativa, pur con il rischio di rendere più complessa la norma, il legislatore potrebbe stabilire un metodo di calcolo ponderato dell’indennità, attribuendo un peso specifico ai criteri da considerare. Nulla vieta, a quel punto, di prevedere il riconoscimento di una mensilità ogni “n” anni di anzianità di servizio, salvo prevedere una maggiorazione dell’importo (in percentuale o in termini assoluti) anche in base ad altri criteri.
Questi possono comprendere condizioni personali e fattori da cui dipende l’occupabilità del lavoratore. A tal proposito, può essere valutato il fatto che le statistiche evidenziano come la disoccupazione (anche di lunga durata) sia maggiore nella fascia di età tra i 15 e i 29 anni e tra i soggetti con grado di istruzione inferiore. Ma le condizioni personali possono comprendere anche i carichi familiari (quali la presenza di figli minorenni) o lo stato di salute.
L’entità del danno può poi dipendere da fattori quali l’assistenza di cui può disporre nella ricerca della nuova occupazione e dalle forme di sostegno al reddito assicurate dalla legislazione vigente durante il periodo di disoccupazione. Tuttavia. tali fattori sono o dovrebbero essere uniformi su tutto il territorio nazionale e dipendono dagli strumenti messi a disposizione del legislatore; lo stesso legislatore, che, quindi, dovrebbe tenerne conto ai fini dell'elaborazione delle politiche per il lavoro, attive e passive, prima ancora che nel disciplinare la tutela del lavoratore dal licenziamento illegittimo .
Inoltre, preme qui segnalare come la letteratura internazionale di diritto ed economia del lavoro abbia evidenziato i rischi che derivano da una stretta correlazione tra l’entità dell’indennizzo e le condizioni personali o del mercato del lavoro locale . È, infatti, ragionevole supporre che un apparato sanzionatorio che punisca più severamente il licenziamento illegittimo di particolari categorie sociali o in aree con maggiori problematiche di reinserimento nel lavoro possa avere effetti controproducenti. Per un’eterogenesi dei fini, potrebbe, infatti, scoraggiare l’assunzione degli stessi lavoratori che si vorrebbe meglio tutelare .
Se i commentatori più critici nei confronti delle sentenze della Corte Costituzionale sottolineano le sopra citate insidie che si palesano al legislatore che volesse più assicurare una stretta corrispondenza tra l’indennità riconosciuta al lavoratore ed il pregiudizio da questi sofferto, quanti non esprimono le medesime perplessità suggeriscono comunque che sia la funzione dissuasiva a dover essere prioritariamente garantita dall’ordinamento; ciò, avendo a mente soprattutto il comportamento delle parti – necessariamente oggetto della valutazione discrezionale del giudice - e la capacità economica del datore .
Tali argomentazioni consigliano quindi prudenza nell’utilizzo di criteri volti alla personalizzazione del danno ed a garantire la funzione compensativa dell'indennità. Quest’ultima può essere comunque garantita attraverso l’esercizio della discrezionalità lasciata dal legislatore al giudice unitamente ad altri criteri o altrimenti entro margini ben definiti e non tali da incidere negativamente sull’occupabilità dei lavoratori. Uno spunto può essere offerto da quanti in dottrina segnalano come l’attuale impianto possa essere migliorato per garantire la continuità contributiva del lavoratore e una più efficace protezione di lavoratori nel mercato del lavoro . L’integrazione dell’indennità con la copertura del periodo contributivo immediatamente successivo al licenziamento, entro un numero di mensilità stabilito dal legislatore, potrebbe rappresentare un modo per tener conto del più grave pregiudizio subito da quanti affrontano maggiori difficoltà a reinserirsi nel mondo del lavoro.
La discrezionalità del giudice nel fissare l’indennità all’interno delle soglie stabilite per legge o con il riconoscimento di una distinta quota dell’indennità, sempre entro un limite minimo e massimo stabilito dal legislatore, può quindi essere più ampiamente esercitata tenendo conto del comportamento delle parti, così da recepire le osservazioni della Corte Costituzionale sopra esposte. Il comportamento, come già evidenziato nei paragrafi precedenti, può essere riferito, oltre che al rapporto di lavoro (specie nel caso di licenziamento per giustificato motivo soggettivo), anche a quello successivo al licenziamento, con riguardo alla procedura di conciliazione .
Infine, per garantire da un lato la funzione dissuasiva dell’indennità, dall’altro la continuità dell’esercizio dell’impresa o dell’attività svolta dal datore, si rende opportuno individuare indici sintetici della sua capacità economica o rinviare al giudice, entro limiti stabiliti dal legislatore, la valutazione di tali aspetti ai fini della definizione ultima dell’importo da corrispondere al lavoratore.
Abbiamo già segnalato come la classificazione europea delle imprese su base dimensionale possa rispondere più adeguatamente alle anzidette esigenze. I limiti massimi (ed eventualmente quelli minimi) dell’indennità potrebbero quindi essere diversificati per micro, piccole, medie e grandi imprese, così come definite dalla Raccomandazione 6 maggio 2003/361/CE della Commissione.
Come innanzi accennato, anche altri parametri economici, come l’utile lordo, possono essere impiegati per commisurare l’indennità alla capacità finanziaria dell’impresa, eventualmente rapportati al numero dei dipendenti.
La salvaguardia della continuità aziendale e della conseguente capacità di mantenere i precedenti livelli occupazionali può, poi, essere considerata ai fini della valutazione sulla soglia massima dell’indennità in ogni caso determinabile dal giudice.

Quali spazi per l'autonomia collettiva
Vale la pena ricordare come le più significative riforme del diritto del lavoro e in particolare la definizione ex lege dei sistemi di tutela del lavoratore contro i licenziamenti illegittimi siano derivate dalla positivizzazione di accordi precedentemente sottoscritti dalle associazioni datoriali con i sindacati maggiormente rappresentativi.
La legge n. 604/1966, ad esempio, ha in larga misura cristalizzato un sistema di tutele disegnato dall'accordo interconfederale del 29 aprile 1965 sottoscritto da Confindustria, Intersind, ASAP, CGIL, CILS e UIL.
Alcune previsioni contenute nello Statuto dei lavoratori (Legge n. 300/1970) riprendono istituti previsti dal contratto collettivo di lavoro stipulato per il settore metalmeccanico nel dicembre 1969.
L'autonomia collettiva, pur avendo perso il monopolio nella determinazione delle tutele dei lavoratori avverso i licenziamenti illegittimi, mantiene rilevanza in alcune disposizioni di legge. La legge n. 300/1970, ad esempio, rinvia ai contratti collettivi e ai codici disciplinari l’individuazione delle condotte punibili con una sanzione conservativa anziché con il licenziamento per giustificato motivo soggettivo e per giusta causa . La legge n. 604/1966, inoltre, fa salve le disposizioni dei contratti collettivi e gli accordi sindacali che prevedono tutele più forti di quelle riconosciute dalla medesima legge .
L'assenza di uno stretto dialogo tra il D.Lgs. n. 23/2015 e la contrattazione collettiva ha sollevato in dottrina alcune perplessità, soprattutto per le più profonde divaricazioni che si possono creare tra il sistema di tutele previsto per gli assunti prima e dopo l'8 marzo 2015 .
Anche trascurando gli effetti di differenziazione che si possono avere non rinviando il cd Jobs Act alla contrattazione collettiva, occorre valutare l'importanza dell'autonomia delle parti sociali innanzi tutto come esercizio di una libertà; secondariamente, per la sua capacità di innovare il diritto di pari passo con le trasformazioni del mondo del lavoro e di tener conto delle particolarità presenti nelle diverse realtà economico-sociali.
Si tratta, quindi, di contemperare l'esigenza dell'ordinamento di garantire con norme di diritto positivo l'attuazione della Costituzione con quella di preservare spazi all'autonomia collettiva, che d'altronde trova espresso riconoscimento nella stessa carta costituzionale; per quanto la mancata attuazione dell'articolo 39 abbia posto non poche difficoltà sia all'interprete, sia al legislatore, il suo valore resta indiscusso.
Le principali tecniche normative per contemperare le suddette esigenze sono due. La prima è la determinazione con legge di un sistema di tutele minime, derogabili in melius dalla contrattazione collettiva.
La seconda è l'inserimento nel corpo della legge di puntuali rinvii alla contrattazione collettiva per demandare ad essa la disciplina di determinati aspetti, consentendo – entro determinati limiti – la derogabilità sia in melius che in pejus di alcune disposizioni di legge o la specificazione di fattispecie solo astrattamente indicate dal legislatore.
La possibilità, per i contratti collettivi, di indicare ulteriori casi in cui si può prevedere la tutela reale anziché obbligatoria, prevista dalla legge n. 300/1970, ne è un esempio. Ma anche la fissazione di soglie diverse, eventualmente entro certi limiti, da quelle indicate dal legislatore per la liquidazione dell'indennità può costituire un modo per costruire un sistema di tutele compatibile con le diverse realtà economico-sociali.

Conclusioni
La sentenza monito 183/2022 della Corte Costituzionale rende urgente un intervento del legislatore non solo per prevenire un nuovo investimento della Consulta sul tema degli effetti del licenziamento illegittimo deliberato da un datore di lavoro con meno di 15 dipendenti, ma anche per garantire la certezza del diritto a lavoratori e datori di lavoro nei prossimi mesi.
A tale urgenza fa eco la necessità di approntare un intervento meditato e coerente su un quadro normativo frutto di discipline adottate in tempi diversi .
La giurisprudenza costituzionale sul tema, così come l’evoluzione del mondo del lavoro negli ultimi anni, offrono nuovi spunti e al contempo confermano l’attualità di principi che possono orientare il legislatore in un’operazione che non si limita alla manutenzione dell’articolo 9 del decreto legislativo n. 23/2015, su cui insiste il monito. Piuttosto, offrono l’opportunità di una revisione più organica della normativa in materia, con riguardo anche agli articoli 3 e 4 del citato decreto. Ciò per tre ordini di ragioni: la necessità di coordinamento che comunque si porrebbe con la riscrittura dell’articolo 9; l’esigenza di garantire l’uniformità di applicazione delle norme sulla determinazione dell’indennità e – in qualche misura – la sua prevedibilità; l’opportunità di adeguare l’impianto delle tutele del lavoratore ai principi dell’ordinamento declinati nelle sentenze della Corte Costituzionale e all’evoluzione del mondo del lavoro.
Se da un lato l’anzianità di servizio continua ad essere ritenuta un criterio che validamente può concorrere alla determinazione dell’indennità, la necessità di tener conto di altri aspetti delle vicende portate all’attenzione del giudice del lavoro può favorire la definizione di soluzioni innovative e meglio in grado di svolgere la funzione riparatorio-compensativa, oltre che dissuasiva.
In questa sede, si è posto il proposito di dare anche alcuni spunti per adeguare, con norme di diritto, il sistema di determinazione dell’indennità fondato sul criterio dell’anzianità di servizio agli orientamenti della giurisprudenza costituzionale. Si è inteso poi offrire un contributo per superare il criterio fondato sul numero dei dipendenti per la differenziazione dei regimi di tutela del lavoratore illegittimamente licenziato; i criteri indicati dalla legge n. 604/1966 e dalla legge n. 300/1970, richiamati dalla giurisprudenza costituzionale, possono essere una base di partenza per elaborarne di nuovi, più appropriati ai tempi e meglio impiegabili per garantire la certezza del diritto a datori e lavoratori.
Le esigenze sopra descritte vanno contemperate, naturalmente, anche con la necessità di non elaborare una disciplina di diritto positivo eccessivamente complessa. Per questo, il compito forse più arduo del legislatore sarà quello di scegliere, tra le diverse soluzioni che la tecnica normativa può proporre, quelle che conducono al giusto contemperamento tra gli interessi coinvolti nel modo ritenuto più equo ed efficace.

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