testo integrale con note e bibliografia

1. La perdurante attualità di ciò che io chiamo suprematismo giudiziario - la problematica dei “confini” tra legislazione e giurisdizione costituzionale e degli “sconfinamenti” di quest’ultima nel campo della prima - non è altro che espressione di un fatto normativo. La giustizia costituzionale è un elemento costitutivo della forma di governo: qualsiasi decisione delle istituzioni politico-rappresentative è destinata ad essere vagliata (e questo è scontato) e riscritta dal giudice delle leggi (e questo lo è molto meno). Il nodo di questa problematica non è l’an (“se” un giudice delle leggi debba “rendere giustizia”); ma fino a che punto un tribunale costituzionale si può addentrare nella sfera di dominio degli organi politico-legislativi. Per scioglierlo, è necessario allungare lo sguardo, al di là dei singoli precedenti, allo scopo di cogliere le traiettorie decisive della casistica.
La vicenda giurisprudenziale, a dir poco tormentata, della disciplina dei licenziamenti (individuali e collettivi) è paradigmatica. Lo è perché, qui, la giurisprudenza ha letteralmente riscritto i contenuti essenziali della legislazione.
Mi propongo di seguire due prospettive. La prima concerne direttamente il rapporto tra Corte costituzionale e istituzioni politico-rappresentative, e si concentra sulla funzione normativa esercitata dalla giurisprudenza (§ n. 2-7). La seconda, collegata indirettamente al tema generale della forma di governo, si focalizza sulle caratteristiche del sindacato esercitato, per valutarne il significato complessivo, rispetto al fine di garantire la “performatività” della Costituzione (§ n. 8-13).

2. I precedenti rilevanti in materia di licenziamenti hanno ad oggetto le due novelle note come la “riforma Fornero” (l. n. 92/2912) e la “riforma Renzi” (il cd. jobs act, l. n. 183/2014 e d.lgs. n. 23/2015).
Semplificando al massimo, in tempi e modalità diversi, per le imprese di grandi dimensioni, il legislatore rappresentativo ha sostituito alla reintegra, come rimedio generale contro il licenziamento illegittimo, una disciplina differenziata, in cui lo strumento privilegiato è diventato la tutela obbligatoria indennitaria (frammentata in più regimi).
Su questo corpus, articolato contenutisticamente e segmentato temporalmente , il giudice costituzionale più volte è stato chiamato a intervenire. Solo in superficie le risposte paiono casistiche e disorganiche. Emerge una trama comune. Sempre più di frequente, su materie importanti si riscontrano catene di decisioni collegate a partire da un primo precedente, i cui contenuti normativi sono poi sviluppati da quelli che lo seguono. Da queste catene giurisprudenziali deriva un diritto nuovo, alla cui formazione concorrono sia gli organi politico-legislativi sia la Corte. L’oggetto del controllo di costituzionalità cambia: non è soltanto una disciplina positiva, ma piuttosto il “diritto” che, nel complesso, lo stesso giudice ha contribuito a stabilire.
È proprio ciò che è accaduto in materia di tutela del lavoratore contro i licenziamenti illegittimi. Le decisioni della Corte costituzionale, che hanno interessato quel tema, sono espressione di una giurisprudenza che è possibile ordinare sulla base di un indirizzo di fondo (con ciò, però, non voglio affermare pure che la giurisprudenza abbia una sua intrinseca razionalità; o che essa stessa offra all’interprete un quadro normativo chiaro, sicuro, ordinato).

3. In tema di licenziamenti illegittimi il fulcro è la sent. n. 194/2018 (rel. S. Sciarra), che ha dichiarato incostituzionale il meccanismo di determinazione legale dell’indennizzo, basato sul solo criterio di anzianità del lavoratore licenziato senza giusta causa o giustificato motivo (soggettivo o oggettivo). Il vizio è l’automatismo di una formula che omologa situazioni diverse, non è idonea a realizzare un adeguato ristoro per il lavoratore e un’adeguata dissuasione per l’imprenditore operando uno sbilanciamento a favore della libertà d’impresa, che contrasta con l’interesse del prestatore di lavoro alla stabilità del rapporto, e con la prescrizione della Carta sociale europea (CSE) che impone un “equo ristoro”.
Così decidendo, la Corte costituzionale non ha accolto la principale censura del giudice a quo, che denunciava il mutamento di regime protettivo (dalla reintegra all’indennità, considerata un “non adeguato ristoro”, un “regresso di tutela irragionevole e sproporzionato”) in ragione del criterio temporale dell’assunzione (prima e dopo il 7 marzo 2015). Il diverso trattamento ratione temporis (di per sé non irragionevole) è coerente col fine legale di incentivare le nuove assunzioni a tempo indeterminato. Se dunque l’indennità, come rimedio risarcitorio riconosciuto al lavoratore per il danno subito a causa di un licenziamento illegittimo, è una strada percorribile, non lo è il criterio per quantificarla, stabilito in modo “rigido” e “certo” .
Il risultato solo apparentemente rispetta la scelta del “jobs act” di passare dalla reintegra all’indennizzo. Nella decisione non c’è solo una ablazione, ma anche, e soprattutto, un’addizione. Ed è questo l’aspetto decisivo. A quello legale, la Corte sostituisce un diverso criterio, che consiste nel ri-consegnare al giudice il potere discrezionale di apprezzamento, in base a “indicatori” che, insieme all’anzianità, siano idonei a “individualizzare” il corrispettivo dovuto al lavoratore illegittimamente licenziato . Ripristinando, in qualche misura, la disciplina precedente, la ratio legis è rovesciata due volte: sia perché viene meno la finalità di un contratto a “tutela crescente”; sia perché la novella era diretta proprio a eliminare ogni valutazione del giudice .

4. Come tessere di un mosaico, da questo primo precedente prendono forma le decisioni successive (di illegittimità e di infondatezza).
Caduto e sostituito il meccanismo legale di determinazione dell’indennizzo nel caso di licenziamenti illegittimi per vizi materiali, cade ed è sostituito anche nell’ipotesi di licenziamenti illegittimi per vizi formal-procedurali . Sarebbe stato “incoerente”, rispetto alla soluzione data nella sent. n. 194, mantenere in vita un diverso trattamento normativo degli uni e degli altri.
È sempre il criterio introdotto nella “decisione-madre” che sorregge l’infondatezza delle censure che contestavano il passaggio alla tutela obbligatoria anche per i licenziamenti collettivi : questa previsione - oltre a non violare la delega o il diritto al lavoro - non è (più) insufficiente (come lo sarebbe stato se fosse ancora vigente il dispositivo legale). Il suo significato normativo è stato ormai trasformato con la 194.
Ancora. I vantaggi derivanti dalla disciplina del jobs act, così come manipolata dalla Corte costituzionale, giustificano il rigetto della questione che ne contestava l’applicazione anche ai lavoratori, già assunti alla data del 7 marzo 2015, in piccole imprese che, nel frattempo, avevano superato la soglia dimensionale delle 15 unità. La decisione chiarisce che quei lavoratori, se godevano prima della novella della tutela reale, continuano ad avvalersene in ragione del divieto di regressione; se, invece, ad essi si applicava già la tutela obbligatoria, alla disciplina originaria (ex l. n. 604/1966), va adesso preferita quella più favorevole del jobs act, resa “migliore” dalla Consulta con la 194.

5. Una comune logica di “allineamento” delle tutele - come si esprime la Corte - sta alla base degli interventi giurisprudenziali sulle forme di reintegra che, entro confini ridotti, permangono dopo le riforme Fornero e Renzi.
La prima legge ha esteso la reintegra ai licenziamenti economici in caso di “insussistenza del fatto” addotto dal datore di lavoro, purché, però, l’insussistenza sia “manifesta”, salva, comunque, la discrezionalità del giudice di ordinarla o no.
Con due pronunce successive - scritte, come la 194, da S. Sciarra - la Corte ha fatto saltare entrambi i caveat: la disposizione, dopo l’ablazione, impone sempre la reintegra.
Il primo a cadere è il potere discrezionale del giudice . Potremmo dire di trovarci di fronte ad una contraddizione interna alla giurisprudenza, rispetto alla sent. 194, che, viceversa, ne ha esaltato il libero apprezzamento. Qui la Corte censura l’indeterminatezza dei criteri di giudizio come vizio di irragionevolezza intrinseca. Il vero motivo dell’accoglimento, però, è la (ritenuta) disparità di trattamento tra i licenziamenti disciplinari e quelli economici rispetto al profilo di “insussistenza” della causa della decisione di porre fine al rapporto.
Il secondo caveat legale (la “manifesta” assenza del fatto) è annullato per motivi analoghi : è intrinsecamente irragionevole perché postula una valutazione del giudice “senza criteri”, ciò che contrasta con la ratio legis, individuata in una pronta definizione del processo di merito.
Si può condividere, certo, il ragionamento retrostante (per cui, scelta come soluzione la reintegra, la legge non dovrebbe distinguere caso per caso). Non si può non ammettere, tuttavia, che (anche) il legislatore avesse dalla sua qualche motivo, altrettanto valido, per rimettere alla discrezionalità del giudice l’apprezzamento delle situazioni concrete (in linea, del resto, con il favor per una tutela “individualizzata” espresso nella sent. 194).

6. Dopo questi precedenti - per ragioni di coerenza interna alla giurisprudenza - è diventato, per così dire, “facile” correggere pure il jobs act, nelle ipotesi, limitate, in cui aveva mantenuto la tutela reale.
La reintegra è, dalla Corte, estesa a tutte le ipotesi di licenziamento “nullo”, e non solo a quelle “espressamente” dichiarate tali dal decreto legislativo . Il vizio riscontrato è l’eccesso di delega: dalla legge di delegazione si trae - in base ad una interpretazione letterale e sistematica - il riferimento della tutela reale a “tutti” i licenziamenti nulli (perché contrari a norme imperative di legge).
A parte questo caso, le “decisioni Sciarra”, ricordate sopra, hanno consentito ulteriori “allineamenti” delle (diverse) norme vigenti.
La reintegra è messa al posto dell’indennità per i licenziamenti economici (per giustificato motivo oggettivo) se il fatto materiale è “insussistente”, sempreché non sia stato esperito il “repechage”, perché, in tal caso, continua ad applicarsi la tutela obbligatoria . La ratio della pronuncia è, qui, garantire la parità di trattamento tra questi licenziamenti e quelli disciplinari (per i quali il fatto “insussistente” impone la reintegra).
Analogamente si decide, stavolta per l’infondatezza, la questione di legittimità dell’omissione legislativa circa la reintegra per i licenziamenti disciplinari (per inadempimento del lavoratore), anche quando i contratti collettivi abbiano previsto, come conseguenza, la sanzione conservativa del posto di lavoro . L’interpretativa di rigetto è ancipite. Per un verso, si dice che l’apparato complessivo di tutela contro il licenziamento illegittimo, così come risulta dal diritto positivo “emendato dalla sue precedenti pronunce” è adeguato anche di fronte a licenziamenti disciplinari sproporzionati rispetto alla condotta e alla colpa del lavoratore. Per altro verso, si sostiene che una così ampia portata del principio di proporzionalità vale anche quando la contrattazione vi faccia riferimento, ma non nella fattispecie in cui, per espressa previsione dell’accordo, il fatto contestato sia punito solo con una sanzione conservativa. L’art. 39 Cost. - valorizzato ovviamente solo nel suo primo comma! - giustifica un apparente rigetto che, invero, ha il contenuto “pieno” di una “sentenza normativa” che riscrive la legge. La Consulta riscontra un radicale difetto di proporzionalità tra il presupposto (l’illecito disciplinare) e la conseguenza (il licenziamento), che rende in radice inidoneo il primo a giustificare la seconda, a tal punto da farla ritenere pari ad un licenziamento per un “fatto insussistente”. Secondo l’interpretazione autentica delle decisioni , “all’esito delle due pronunce, v’è simmetria tra licenziamento disciplinare e licenziamento per ragioni d’impresa, tracciata dalla Corte sulla linea del fatto materiale insussistente”.

7. Il disegno tracciato non sarebbe completo - rebus sic stantibus va aggiunto - se non si desse conto anche della sent. n. 183/2022 (Sciarra).
Qui siamo al cospetto di una “classica” illegittimità accertata ma non dichiarata (il dispositivo è di inammissibilità), per mancanza di una soluzione costituzionalmente obbligata o adeguata secondo la dottrina delle “grandezze comunque esistenti” (che, come sappiamo, è il grimaldello che ha fatto tracimare la dottrina delle “rime obbligate” in mere “rime adeguate”, la cui esistenza solamente giustificava l’accoglimento della questione). Una sentenza normativa, che grava sul legislatore, e che, qualora l’inerzia dovesse persistere, potrebbe essere portata ad effetto dal giudice delle leggi.
L’oggetto è la legittimità della tutela obbligatoria stabilita per le piccole imprese pari a 3-6 mensilità (art. 9.1, d. lgs. n. 23/2015). La Corte riconosce l’esistenza di un vulnus costituzionale, consistente e nell’inadeguatezza e nell’irrisorietà del quantum, per il fatto di poggiare solo sul criterio dimensionale del numero degli occupati in azienda. La norma positiva non è coerente con l’attuale contesto economico “ben differenziato”. Un simile “anacronismo legislativo” può essere superato, adottando la medesima soluzione stabilita nella sent. n. 194/18, ossia rimettendo al giudice il libero apprezzamento delle conseguenze economiche di un licenziamento illegittimo, secondo il criterio sostanziale della “personalizzazione” del danno subito dal lavoratore.
Di fronte a questa motivazione, aver escluso un intervento additivo appare secondario . Perché? L’importante è che la Corte ha chiuso il discorso sulla legittimità della disciplina positiva . La sua incoerenza “in senso cronologico” ovvero la sua inattualità è definitiva. Il legislatore deve intervenire e, in caso di inerzia, la Corte potrà riscriverla (inventando la norma che oggi non ha trovato). Nel frattempo, però, i giudici comuni potranno esercitare quel libero apprezzamento, qui ricordato, che la sent. 194 ha cristallizzato.

8. Volgendo lo sguardo al sindacato e analizzandone gli svolgimenti, si possono cogliere altri aspetti rilevanti per comprendere il posto del giudice delle leggi nel sistema dei poteri e delle garanzie di performatività costituzionale.
Diciamolo a voce alta: la giurisprudenza sui licenziamenti illegittimi minimizza la tutela del diritto costituzionale al lavoro. Sembra un paradosso, ma è così. Alla domanda se la sostituzione della tutela reale con l’obbligatoria determini un vulnus costituzionale alla protezione del prestatore di lavoro, la giurisprudenza ha risposto sostanzialmente “no”.
Nella sentenza-madre si ribadisce chiaramente che la reintegra non è l’unico strumento, che il legislatore ha una certa discrezionalità, che l’indennizzo è in linea teorica ammissibile, purché - questo il punto - la disciplina contro il licenziamento illegittimo sia ragionevole, espressione di un bilanciamento proporzionato tra la libertà d’impresa e il diritto al lavoro.
Si tratta di uno schema di giudizio consueto. Anche qui, la Corte ha compiuto una scelta di campo: accetta il punto di vista del legislatore come ipotesi di lavoro su cui esercitare un controllo di ragionevolezza “per linee interne”, verificando la “coerenza” della normativa (in tutte le forme possibili: coerenza logica, teleologica, cronologica, bilanciamento). Un controllo per linee interne ha un senso specifico: simula la deferenza del giudice verso il legislatore; dissimula l’esercizio da parte del giudice di una funzione normativa che, servendosi delle disposizioni legislative sindacate, ne trasforma il contenuto prescrittivo in una nuova disciplina.

9. Che la tutela del diritto al lavoro non sia affatto l’obiettivo principale del giudizio è confermato dall’uso giurisprudenziale dei propri precedenti. L’esclusione della reintegra, quale mezzo costituzionalmente adeguato di garanzia contro un licenziamento illegittimo, è stabilito recuperando un orientamento, emerso negli anni Sessanta del Novecento, confermandolo . Nondimeno: quell’affermazione è assunta come fosse un postulato, la cui validità non è discussa, senza che sia possibile revocare in dubbio la sua perdurante attualità nel contesto presente delle relazioni industriali (nonostante il verbale riconoscimento del “diritto del lavoratore a non essere estromesso dal lavoro ingiustamente” ).
La questione discussa nella giurisprudenza non è stabilire quale forma di tutela, reale o obbligatoria, sia costituzionalmente adeguata al valore del lavoro vulnerato da un atto arbitrario dell’imprenditore; ma, viceversa, se la disciplina dell’indennizzo, quale rimedio ritenuto idoneo allo scopo, sia ragionevole.
È un rovesciamento di prospettiva. Se si fosse riconosciuto il valore pieno del diritto al lavoro come “fondamentale diritto di libertà della persona umana” , l’esito della giurisprudenza avrebbe dovuto essere quello di ammettere normativamente solo la reintegra come mezzo di protezione avverso licenziamenti illegittimi . Sarebbe stata una via troppo diretta? Con effetti clamorosi verso il potere legislativo, ancor di più rispetto a quanto si è ottenuto con le decisioni in commento?
Sia come sia, io penso che la tutela reale sia la soluzione costituzionalmente imposta per garantire la stabilità del rapporto di lavoro. Non ci può essere alcun bilanciamento tra il diritto al lavoro e la libertà d’impresa in casi simili, ma solo l’esigenza di dare piena effettività al primo, perché nessuna concezione dell’art. 41 Cost. potrebbe giustificare la “libertà” dell’imprenditore di licenziare illegittimamente .

10. Nondimeno. La Corte ha scelto un’altra strada: accettare il punto di vista del legislatore e vagliarlo in termini di razionalità-ragionevolezza. Questo sindacato per linee interne, tuttavia, non è meno penetrante o meno problematico di un controllo diretto ad affermare la primarietà del diritto al lavoro. Nella nostra vicenda, il suo effetto concreto è stato - seguendo una via tortuosa - la manipolazione della disciplina legale, al contempo, confermata e ri-determinata.
Tanto le decisioni sulla congruità dell’indennizzo (a partire dalla 194/18), quanto quelle sull’estensione della reintegra (sentt. nn. 59/21, 125/22, 128 e 129/24), esitano sia la demolizione della prima (riaffermando il potere discrezionale del giudice che la legge voleva contenere e, quindi, sterilizzando di fatto il “contratto a tutele crescenti”), sia la riabilitazione casistica della seconda (nella traiettoria dell’allineamento tra licenziamenti disciplinari e licenziamenti economici).
Qualcuno potrebbe dire che s’è raggiunto comunque l’obiettivo di tutelare il diritto al lavoro, come un “valore primario” rispetto alla libertà d’impresa . Non penso che sia così. La Corte non ha riconosciuto nella tutela reale il rimedio costituzionalmente necessario; ha avallato la discrezionalità legislativa nella predisposizione dei mezzi di tutela caso per caso; li ha manipolati ampiamente in base a valutazioni di ragionevolezza. Ne è venuta una sorta di colegislazione, frutto dell’intervento degli organi di indirizzo politico e del giudice delle leggi. Detto diversamente: non c’è un diritto giurisprudenziale che si sostituisce al diritto politico-legislativo; c’è, invece, una regolazione che combina scelte politiche (del legislatore rappresentativo) e valutazioni di razionalità (del Custode), provenienti da due poteri, istituzionalmente diversi, che concorrono a determinare i contenuti normativi del diritto vigente, in cui l’indennizzo e la regola e la reintegra l’eccezione.

11. È coerente con un simile metodo di giudizio l’allentamento dei margini delle “rime obbligate”. La tendenza è ormai diffusa. Negando un qualche valore normativo alla dottrina di Vezio Crisafulli , la Corte può realizzare il presupposto di un giudizio di costituzionalità particolare. E, cioè, un giudizio che risolve la prescrittività della Costituzione nel “dogma” che nega l’esistenza di “soluzioni imposte”, anche di fronte a valori primari e inderogabili, come il diritto al lavoro di fronte a licenziamenti non giustificabili in alcun modo, e, quindi, che ammette solo un ragionevole bilanciamento di interessi (sempre) paritari. Se tutto è bilanciabile (come presuppone l’impostazione che, ripudiando la “tirannia dei valori”, porta all’assunto, indimostrato, che la Costituzione sia priva di un “ordine dei valori” ), non ci possono essere rime obbligate, ma solo opinabili rime “adeguate”. In un contesto in cui tutto è dato per bilanciabile, di conseguenza, al legislatore si può anche riconoscere la “prima parola” per stabilire il diritto positivo; ma alla Corte non si può non attribuire il potere “concorrente” di manipolarlo, adeguandolo ragionevolmente ai contesti.
Così facendo, però, la Corte ha rinunciato alla funzione, che le è propria, di annullare (in negativo) la legislazione in contrasto con la Costituzione. Al suo posto, s’è ritagliata nel tempo quella di partecipare, con mezzi propri, al processo di governo delle istituzioni politiche, riscrivendo in positivo, grazie all’interpretazione costituzionale orientata dalla ragionevolezza, i contenuti del diritto vigente.
Nella stessa direzione si spiega anche il progressivo e indefinito allargamento dei parametri del giudizio. Che, nella vicenda dei licenziamenti, i contenuti della Carta sociale europea come interpretata dai pareri del Comitato europeo dei diritti sociali, incerti sul piano della forza normativa , siano “presi in considerazione” (take in account) in quanto dotati di “autorevolezza particolare” , si può comprendere proprio nel quadro di una “teoria debole” della Costituzione. Ai fini di un bilanciamento senza traiettorie pre-determinate o pre-determinabili direttamente dalla Costituzione, qualsiasi “materiale” giuridico, interno o esterno, sia l’hard law sia il soft law, può diventare utile allo scopo.

12. Non è tutto. Vale la pena di chiedersi dove ha condotto davvero questa “giurisprudenza co-legislativa” nella materia dei licenziamenti.
Come detto, il legislatore, negli anni, ha moltiplicato i regimi di tutela, differenziandoli. La Corte costituzionale s’è mossa negli ambiti di questa legislazione. La sua sostanziale rideterminazione contenutistica ha conseguito un ordine?
In questa domanda non c’è soltanto l’esigenza di valutare il ruolo della Corte costituzionale nella ricomposizione dell’ordinamento, ma pure una parallela finalità di stabilire il valore delle decisioni di costituzionalità in termini di effettività delle tutele. Qual è il rapporto “costi-benefici” di questa giurisprudenza?
Sul piano dei rapporti tra poteri, l’esito è certamente distante da quello immaginato tanto dai teorici della giustizia costituzionale quanto dai Costituenti. Il modello del “legislatore negativo” è stato sostituito con quello della “Corte-colegislatore”. Era forse inevitabile e, aggiungo, in certa misura naturale che ciò accadesse. Tutto ciò non scioglie il nodo. Ripropone, invece, in termini rinnovati, la problematica dei limiti che i poteri, anche quello del custode della Costituzione, incontrano nel sistema.
Sul versante della tutela dei diritti, per limitarci a questo case study, la valutazione non è affatto positiva. Ritornando alla domanda: quale ordine è stato definito? La risposta non può che essere quella di riconoscere che, questa positivizzazione a più mani, ha mantenuto la pluralità dei regimi di tutela, senza aggiungere chiarezza, ma, piuttosto, complicandoli. Il fatto stesso che la Corte abbia più volte denunciato gli “interventi frammentari” della legislazione e, dopo le sue manipolazioni, abbia sentito il bisogno di chiedere alle istituzioni politiche un necessario “riordino” della disciplina vigente , testimonia per tabulas dell’incompiutezza ordinativa della giustizia costituzionale. Non si può liquidare la questione dicendo, come si fa di norma, che la Corte decide una singola domanda, che non è tenuta a considerare le conseguenze delle sue pronunce, che non deve tendere alla sistematica… Seguendo fino in fondo una simile prospettiva “frammentaria”, l’ordine e la certezza del diritto diventano davvero una chimera. In tale contesto, a patirne di più è l’effettività dei diritti.
La domanda delle cento pistole è la seguente: questa giurisprudenza co-legislativa ha migliorato lo status del lavoratore subordinato, ha ridotto l’asimmetria contrattuale tra le parti del rapporto, ha riavvicinato il diritto vigente posto per tutelare il lavoro al contenuto performativo della Costituzione?
Per le cose che ho detto, rispettosamente dissento.

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