testo integrale con note e bibliografia
1. Dopo le recenti sentenze della Corte costituzionale, la n.128 e la 129, entrambe pubblicate il 16 luglio 2024, salgono ormai a ben nove le pronunce del giudice delle leggi che si sono succedute dal 2018 in materia di regimi sanzionatori del licenziamento ; e diventano dieci, se conteggiamo anche la sentenza “monito” a proposito dei licenziamenti nella piccola impresa
Non sembra azzardato dunque parlare di un inedito interventismo della giustizia costituzionale nella suddetta materia. Mai prima d’ora, infatti, la Consulta, aveva così profondamente inciso su precise scelte del legislatore prese da ben due differenti maggioranze parlamentari.
Anche le tecniche utilizzate dalla Corte hanno in comune un accentuato connotato “manipolativo” delle norme: in alcune si è trattato di un ritaglio ablativo di parole dal testo di legge, da cui è scaturito un sistema sanzionatorio che è molto diverso (sent. n. 59/21 e 125/22), se non l’esatto opposto (sent.n.194/18 e n.150/20), rispetto a quello previsto, rispettivamente, dalla legge.n.92/12 e dal decreto legislativo n.23/15; altre pronunce sono fortemente additive, con mutamento della tecnica dell’intervento di rimozione del vizio di costituzionalità ed hanno così permesso alla Corte di riscrivere parti importanti della norma (sent. n. 128/24). Anche le pronunce di rigetto (n. 183/22 e n. 129/24) sono destinate a lasciare il segno. L’ultima, in particolare, nella sostanza, reintroduce una fattispecie che il D,lgs. n. 23/15, aveva inteso eliminare per i lavoratori assunti dal 7 marzo 2015.
2. In estrema sintesi, con la sentenza n. 194/18, espungendo dall’art. 3 comma 1, D. Lgs. n. 23/15 “[il giudice condanna il datore di lavoro al pagamento di una indennità…] le parole “pari a due mensilità dell'ultima retribuzione… per ogni anno di servizio..”, la Corte ha eliminato il sistema automatico di calcolo dell’indennità prevista per il licenziamento ingiustificato, basato sull’anzianità del lavoratore (c.d. tutele crescenti); e ciò sul presupposto che sia costituzionalmente obbligata la personalizzazione del danno da parte del giudice in relazione al licenziamento ingiustificato. Mediante la suddetta amputazione lessicale, la norma che ne è residuata (il giudice condanna il datore di lavoro al pagamento di una indennità in misura non inferiore a sei mensilità e non superiore a trentasei mensilità), modifica radicalmente il sistema di calcolo dell’indennità, che ora viene lasciato alla discrezionalità del giudice, nell’ambito di un ampio range che va da 6 a 36 mensilità.
L’altra sentenza, pressoché “gemella”, la n. 150/19, elimina anch’essa il sistema del calcolo dell’indennità in base all’anzianità, questa volta in caso di vizio formale o procedimentale del licenziamento, sulla base delle medesime motivazioni della precedente pronuncia n. 194. Anche qui la Consulta sovrappone la propria visione a quella del legislatore, ritenendo che debba essere personalizzato il danno da perdita del posto anche nel caso di licenziamento giustificato ma che presenti solo un vizio nella forma o nel procedimento.
Non sono state da meno le due sentenze (n. 59/21 e n. 125/22) che hanno modificato l'art. 18 comma 7, Stat. lav., in relazione al licenziamento ingiustificato per motivo oggettivo per i lavoratori assunti prima del 7 marzo 2015. La Corte, infatti, ha praticamente cancellato la possibilità di applicare la tutela indennitaria riespandendo quella della reintegrazione; questo risultato è stato ottenuto sempre mediante la tecnica del ritaglio ablativo di singole parole dall’ enunciato normativo, eliminando due presidi che erano stati apposti dal legislatore per ridurla, e cioè, la “manifesta” insussistenza del fatto posto a base del licenziamento e la discrezionalità del giudice, al quale in ogni caso spettava l’ultima parola se applicare la tutela della reintegrazione o quella indennitaria.
3. Finito il suddetto mini ciclo degli anni 2018/2022, più prettamente demolitorio, con il 2024 se ne è aperto un altro di cinque sentenze (con differente presidente e relatore), riguardante il D. lgs.n.23/15 (e quindi i lavoratori assunti dal 7 marzo 2015), maggiormente orientato alla sistemazione complessiva della materia, ma pur sempre a contenuto fortemente manipolativo/creativo rispetto alla voluntas legis e al testo delle norme.
Si è iniziato con una sentenza di rigetto, la n.7, che ha dichiarato la legittimità costituzionale delle minor tutele nei confronti del licenziamento ingiustificato per i lavoratori assunti dal 7 marzo 2024, ritenendo razionali le intenzioni del legislatore, espresse anche nella legge delega, di incentivare l’occupazione a tempo interminato, soprattutto giovanile e la fuoriuscita dal precariato, mediante la limitazione della tutela della reintegrazione ed escludendola del tutto in particolare per il licenziamento economico. Su questa esclusione totale tornerà a pronunciarsi la Corte alcuni mesi dopo con la sentenza n. 128, per sancirne invece la sua parziale l’incostituzionalità in riferimento ai lavoratori assunti a partire dal 7 marzo 2015.
Nella pronuncia n. 7, peraltro, si avalla, se non addirittura viene costituzionalizzato, uno dei principi guida delle riforme in materia e cioè che non tutti i licenziamenti illegittimi sono uguali per cui è giustificata la differenziazione sanzionatoria; tuttavia, questa graduazione verrà poi però in parte ridimensionata dalla stessa Corte con le successive sentenze n.128 e 129.
Anche la sentenza n. 44/24 segue la stessa tendenza della precedente, avendo rigettato la questione di costituzionalità riguardante la norma che applica ugualmente il D. Lgs. n. 23/15, anche ai lavoratori già assunti alla data del 7 marzo 2015, nel caso in cui il datore superi la soglia dei 15 dipendenti dopo tale data. Anche qui la Corte fa leva sulla ragionevolezza dell’intento del legislatore di non disincentivare nuove assunzioni al di sopra della soglia fatidica dei quindici dipendenti, assicurando al datore di lavoro di poter fare affidamento, una volta superata limite dimensionale, a un regime dei licenziamenti complessivamente più favorevole rispetto all’art. 18 Stat. Lav.,
Se le sentenza n.7 e n. 44 sembrano segnare un cambiamento di rotta nel senso più “conservativo”, o più “rispettoso”, delle scelte del legislatore da parte dei giudici della consulta, non lo saranno le altre tre, in quanto con esse è ripresa la tendenza manipolativa/additiva, nella direzione, questa volta, di ridurre proprio quel gap di tutele previste dal D.Lgs.n.23/15, rispetto ai lavoratori assunti dal 7 marzo, che pure la stessa Corte aveva ritenuto costituzionalmente legittimo con la pronuncia n. 7/24.
E così, con la pronuncia n. 22, la Consulta ha ritenuto incostituzionale la scelta del legislatore delegato di applicare la tutela della reintegrazione a risarcimento pieno solo nei casi di nullità espressamente previste dalla legge, e ciò per violazione del criterio direttivo previsto dalla legge delega la quale al contrario riconosceva la tutela reintegratoria nei casi di licenziamenti nulli senza operare una distinzione di questo tipo.
Ma le sentenze maggiormente creative del 2024 sono le ultime due. Con la n. 128 del 16 luglio 2024, la Consulta, con pronuncia additiva, ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 3, comma 2, del d.lgs. n. 23 del 2015 (quindi per i lavoratori assunti a partire dl 7 marzo 2015), nella parte in cui non prevede che si applichi la tutela reintegratoria nelle ipotesi di licenziamento per motivo oggettivo illegittimo per insussistenza del fatto materiale. Anche in questo caso, dunque, il giudice delle leggi introduce una nuova norma nell’ordinamento, dalla struttura articolata in quanto la Corte opera un’importante distinzione: la tutela della reintegrazione continua ad essere esclusa solo se l’ingiustificatezza del licenziamento deriva dalla violazione dell’obbligo di repêchage, applicandosi in tale ipotesi la tutela indennitaria; invece, nel caso in cui il fatto materiale posto a base del motivo oggettivo del licenziamento sia insussistente, e cioè, in pratica, quando non risulti in giudizio l’effettiva soppressione del posto a cui era adibito il lavoratore licenziato, la mancata previsione della reintegrazione da parte dell’art. 3, secondo la Corte, deve ritenersi in violazione degli artt. 3, 4 e 35 Cost., determinando un’irragionevole differenziazione rispetto alla parallela ipotesi in cui sia insussistente il fatto contestato ai fini della giusta causa o del giustificato motivo soggettivo. Ciò in quanto, a dire del giudice delle leggi, se il fatto materiale allegato dal datore a fondamento del licenziamento non sussiste, risulta violato il principio della necessaria causalità del recesso datoriale, sia nel caso di licenziamento disciplinare che per motivi oggettivi. Fatto materiale dal quale viene però espunta, come si è visto, ogni valutazione circa il ricollocamento del lavoratore.
Viene in tal modo recepita una tesi sostenuta da una parte della dottrina (e dallo stesso giudice relatore in una sua monografia), in contrapposizione al differente orientamento della Cassazione, che invece ritiene applicabile la reintegrazione anche nel caso in cui il datore fornisca la prova della soppressione del posto ma non riesca a dare quella della ricollocabilità del lavoratore. E’ pur vero che quest’ultimo orientamento della Suprema Corte si è formato a proposito dell’art. 18, comma 7, Stat.lav., ma ormai, dopo la sentenza n. 128 della Consulta, in pratica non vi è più differenza con l’art. 3, comma 1 D.Lgs. n.23/15, nella parte in cui esso riguarda il licenziamento economico. Di qui, dunque, anche il ravvicinamento delle due discipline da parte della giurisprudenza costituzionale, sempre che, beninteso, la Cassazioni modifichi il suddetto suo orientamento conformandosi, anche in relazione all’art. 18 Stat. lav., alla distinzione sistematica operata dal giudice delle leggi.
Con sentenza n. 129, sempre del 16 luglio 2024, la Consulta ha ritenuto infondate le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 3, comma 2 del d.lgs. n. 23 del 2015, nella parte in cui non prevede l’applicazione della tutela reintegratoria anche nell’ipotesi del licenziamento comminato per un inadempimento per il quale il contratto collettivo prevede solo una sanzione conservativa. Si tratta, però, di una sentenza interpretativa di rigetto, per cui la non fondatezza della questione è nei limiti indicati dalla sentenza stessa, che nella sostanza ha anch’essa un contenuto additivo.
Infatti, anche qui, come nella sentenza n.128, la Corte opera il seguente importante distinguo sistematico: l’art. 3, comma 2, d.Lgs n.23/15, deve essere interpretato, affinché sia conforme a Costituzione, equiparando, ai fini sanzionatori, e quindi con applicazione della reintegrazione, all’insussistenza del fatto materiale, la fattispecie del licenziamento disciplinare in cui il fatto sussista ma esso sia stato previsto dal contratto collettivo come specifica e tipizzata inadempienza meritevole di sola sanzione conservativa; da questa fattispecie va invece tenuta distinta quella in cui la sanzione conservativa viene prevista dall’autonomia collettiva solo a fronte di clausole generali o vaghe di infrazioni; in questa ipotesi, secondo la Consulta, la previsione normativa di cui al comma 1 dell’art.3, secondo cui “resta estranea ogni valutazione circa la sproporzione del licenziamento”, non consente l’applicazione della reintegrazione, applicandosi quindi la sola tutela indennitaria, poiché si tratta di giudizio di proporzionalità di un fatto però sussistente.
Il suddetto distinguo determina un duplice effetto sistematico, del tutto simile a quello prodotto dalla sentenza n. 128, riguardante l’ altra fattispecie di accesso alla tutela reintegratoria (insussistenza del fatto): anche qui, viene ampliato il campo di applicazione della tutela reintegratoria rispetto a quanto previsto originariamente dal D.Lgs.n.23/15; nel contempo, e conseguentemente, viene reso più omogeneo il sistema del c.d. “doppi binario”, in relazione alle tutele per i lavoratori assunti dal 7 Marzo 2015, in quanto lo ha avvicinato a quello previsto dall'art.18 Stat. lav.; ma ciò avviene adottando l’interpretazione più restrittiva di questa altra fattispecie di accesso alla reintegrazione, che, secondo una parte della dottrina, era anche la più fedele alla ratio legis. Così facendo, anche con questa sentenza la Consulta si pone sostanzialmente in contrasto con un recente orientamento della Cassazione, che invece riconosce la reintegrazione anche nel caso di sussunzione del motivo del licenziamento in una clausola elastica o generica o vaga prevista dal codice disciplinare per la quale il contratto collettivo stabilisca solo una sanzione conservativa. E’ pur vero che l’art. 3, comma 2, a differenza dell’art. 18, comma 4, prevede espressamente che all’insussistenza del fatto materiale “resta estranea ogni valutazione circa la sproporzione del licenziamento”; tuttavia tale previsione è agevolmente desumibile in via interpretativa anche dal comma 4 dell’ art. 18, poiché identica è la ratio, sicche vale il brocardo ubi eadem legis ratio, eadem legis dispositio; anche perché si sa che il legislatore del 2015 è stato indotto a prevedere espressamente questa precisazione a seguito delle prima applicazioni giurisprudenziali della legge del 2012 tese appunto a far rifluire nell’insussistenza del fatto anche le valutazioni sulla proporzionalità.
In conclusione, in queste ultime due sentenze la Consulta tenta uno sforzo di sistemazione, recuperando la tutela della reintegrazione, ampliandone l’ambito di applicazione anche per i lavoratori assunti dal 7 marzo 2015, secondo la logica del principio -valorizzato nella sua prima sentenza di questo secondo mini ciclo del 2014 (sentenza n.7)-, della graduazione delle sanzioni in base alla diversa gravità del vizio. In tal modo ottiene il risultato di attenuare la differenza di tutela derivanti dal c.d. “doppio binario”, rimanendo coerente con il criterio fondamentale secondo cui non tutti i licenziamenti illegittimi sono uguali.
A differenza del precedente mini ciclo di sentenze del 2018/2022, nelle pronunce del 2024 la Corte cerca di dare una razionalità sistematica coerente con i principi di fondo che hanno ispirato le riforme legislative del sistema rimediale.
Ma il punto è proprio questo: si tratta di uno sconfinamento nel potere legislativo, di indebita supplenza o tutto ciò rientra nel ruolo della Consulta?
4. Negli anni recenti il problema degli sconfinamenti della giustizia costituzionale si è posto nuovamente in ragioni di una serie di pronunce che hanno fatto discutere, riguardanti vari settori dell'ordinamento. In particolare, per la vicinanza con gli aspetti critici evidenziati in relazione alla sentenza n. 194/18, si può ricordare la pronuncia con la quale la Corte ha riscritto la misura della sanzione amministrativa connessa al reato di bancarotta fraudolenta (Corte cost.n.222/2018). Anche in questo caso la Consulta ha introdotto, il luogo della disposizione vigente, una norma riscritta integralmente; inoltre, anche qui parrebbe operare una serie di salti argomentativi per arrivare alla costruzione di una diversa norma sanzionatoria maggiormente personalizzata, ma priva di un referente oggettivo e omogeneo .
E’ dunque interessante interrogarsi se la mission che sembra essersi autoattribuita la Corte in materia di tutele per il licenziamento, sia dovuta ad uno dei più formidabili concentrati di norme incostituzionali mai registrati nella storia dell’ordinamento repubblicano, o se, invece, vi è stata la pulsione a farsi legislatore facendo prevalere la propria contrarietà valoriale rispetto alla scelta del legislatore di modificare il regime della reintegrazione uniforme, presentando quindi, in tale prospettiva, i caratteri di uno sconfinamento anomalo rispetto al suo ruolo di garanzia istituzionale super partes e di massimo custode della razionalità giuridica dell’ordinamento.
Il momento è particolarmente propizio a seguito delle due più recenti sentenze del 16 luglio, che potrebbero avere completato il quadro degli interventi sulla disciplina rimediale, facendo sempre salva ovviamente la fantasia dei giudici rimettenti.
Si può quindi cominciare a formulare un bilancio di questo “micro sistema” elaborato dalla Consulta, sia sotto il profilo strettamente giuslavoristico, sia su di un piano più generale che riguarda il ruolo e la funzione stessa del giudice delle leggi nel nostro ordinamento.