testo integrale con note e bibliografia
Le sentenze nn. 128 e 129, rese dalla Corte costituzionale entrambe in data 16 luglio 2024, rappresentano l’ennesimo capitolo di una storia infinita, data dall’essere la Corte costituzionale periodicamente investita dei dubbi di costituzionalità sollevati dai giudici del lavoro relativamente ai provvedimenti legislativi - la legge del 28 giugno 1992, n. 92 ed il d.lgs. 4.3.2015, n. 23 attuativo della legge delega 10.12.2014, n. 183 (c.d. Jobs Act) – intervenuti, in tempi successivi e con riferimento ad ambiti soggettivi diversi – i lavoratori il cui rapporto di lavoro era in essere in data antecedente al 7.3.2015 e gli assunti a partire da quella data con il contratto di lavoro a tutele crescenti – a modificare il regime sanzionatorio dei licenziamenti illegittimi previsto, nella sua originaria formulazione, dall’art. 18 dello Statuto dei lavoratori.
E potrebbe essere l’ultimo capitolo, come sembra potersi desumere dall’assenza in queste ultime sentenze del monito in precedenza lanciato dalla Corte costituzionale al legislatore perché intervenisse a ricomporre il variegato quadro dei regimi sanzionatori applicabili alle diverse tipologie di recesso ove illegittimamente intimati e desse alla materia un assetto razionale.
La razionalizzazione è in effetti operata dalla Corte costituzionale con le sentenze in esame attraverso la rilettura delle vicende evolutive delle discipline tempo per tempo vigenti come determinate dal tumultuoso susseguirsi delle pronunzie giurisprudenziali correttive o adeguatrici della stessa Corte costituzionale e della Corte di Cassazione.
I dubbi attengono alla coerenza con quelle vicende di una tale rilettura.
Ma partiamo dagli esiti delle sentenze in esame.
Con la sentenza n. 128/2024, la Corte costituzionale ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 3, comma 2, del d.lgs. n. 4.3.2015, n. 23 nella parte in cui non prevede che la tutela reintegratoria attenuata si applichi anche nelle ipotesi di licenziamento per giustificato motivo oggettivo in cui sia direttamente dimostrata in giudizio l’insussistenza del fatto materiale allegato dal datore di lavoro, rispetto alla quale resta estranea ogni valutazione circa il ricollocamento del lavoratore.
Di contro, con la sentenza n. 129/2024 la Corte costituzionale ha dichiarato non fondate le questioni di legittimità costituzionale sollevate con riguardo allo stesso art. 3, comma 2, d.lgs. n. 23/2015 per esser stato ivi prevista l’applicazione della sanzione indennitaria in luogo della sanzione della reintegrazione attenuata nell’ipotesi in cui l’illegittimità del licenziamento disciplinare derivi dal difetto di proporzionalità della sanzione espulsiva rispetto al fatto contestato essendo per tale fatto contemplata dal contratto collettivo applicabile l’irrogazione si una sanzione conservativa.
La questione di fondo è in entrambe le pronunzie l’allineamento dei regimi sanzionatori previsti dal d.lgs. n. 23/2015 con riguardo alle distinte ragioni di illegittimità dei licenziamenti disciplinari e dei licenziamenti per giustificato motivo oggettivo con i regimi sanzionatori posti relativamente alle medesime ipotesi dalla legge n. 92/2012.
Quanto al licenziamento per giustificato motivo oggettivo considerato nella sentenza n. 128/2024 l’illegittimità costituzionale della previsione della sanzione indennitaria in luogo della sanzione della reintegrazione attenuata per l’ipotesi di insussistenza del fatto posto a base del licenziamento per giustificato motivo oggettivo è pronunziata per aver ritenuto la Corte costituzionale un tale regime stridente con l’applicazione della tutela reintegratoria prevista per la medesima ipotesi di insussistenza del fatto dalla l. n. 92/2012 in origine con riferimento al solo licenziamento disciplinare e, con riguardo al licenziamento per giustificato motivo oggettivo a seguito delle sentenze della Corte costituzionale 7.4.2021 n. 59 e 19.5.2022 n. 125 che quella tutela, quanto alla prima di esse, aveva reso obbligatoriamente applicabile, rileggendo in questi termini il verbo “può” utilizzato nel testo della norma con riferimento all’emanazione da parte del giudice dell’ordine di reintegrazione del lavoratore illegittimamente licenziato e, quanto alla seconda, aveva riferito, attraverso l’elisione dell’aggettivo “manifesta”, che inizialmente qualificava l’insussistenza in relazione alla quale l’applicabilità della tutela reintegratoria era prevista, all’ipotesi dell’insussistenza tout court.
E l’esigenza di allineamento dei regimi sanzionatori è altresì alla base dell’accezione riduttiva in cui è nella sentenza n. 128/2024 assunta la nozione di fatto posto a base del licenziamento per giustificato motivo oggettivo, accezione che non comprende il “repêchage” ovvero la ragione di illegittimità del licenziamento data dalla ricorrenza di una possibilità di ricollocamento del lavoratore licenziato nell’organico aziendale, laddove questa risulta, viceversa, ricompresa nella nozione di fatto posto a base del licenziamento accolta dalla Corte costituzionale nella sentenza n. 125/2022 nel ricollegare all’ipotesi della mera insussistenza del fatto l’applicazione della sanzione della reintegrazione attenuata.
La validità di tale accezione riduttiva riconosciuta dalla sentenza n. 128/2024 in esame è ivi motivata in relazione al più ristretto ambito di operatività della sanzione della reintegrazione attenuata rispetto a quello definito nella legge n. 92/2012 in parallelo con quanto si ricava dal raffronto tra la previsione che con riguardo al licenziamento disciplinare nella legge n. 92/2012 ammette l’applicazione della sanzione della reintegrazione attenuata anche nell’ipotesi in cui il fatto contestato implichi in base al codice disciplinare di cui al contratto collettivo applicabile l’irrogazione di una sanzione meramente conservativa e la previsione che nel d.lgs. n. 23/2015 che, sempre con riguardo al licenziamento disciplinare, nel circoscrivere l’applicabilità della sanzione della reintegrazione attenuata alle ipotesi di insussistenza del fatto non riconducibile a valutazioni circa la proporzionalità della sanzione rispetto al fatto contestato, induce ad escludere l’applicabilità della tutela reintegratoria nel caso di difforme valutazione della sanzionabilità del fatto contestato da parte della contrattazione collettiva. Di tale conclusione suona chiara conferma l’esito della sentenza n. 129/2024 allorché dichiara non fondata la questione di costituzionalità sollevata a riguardo e, quindi, ritenendo conforme agli invocati parametri di costituzionalità la disposizione che nel d.lgs. n. 23/2015 esclude l’applicabilità all’ipotesi di illegittimità del licenziamento conseguente al difetto di proporzionalità della sanzione espulsiva secondo la contrattazione collettiva della tutela reintegratoria prevedendo viceversa la tutela indennitaria.
La razionalizzazione sta qui nell’allineamento dei regimi sanzionatori per cui, mentre nella legge n. 92/2012 il fatto la cui insussistenza comporta l’applicazione della sanzione della reintegrazione attenuata implica tutte le ragioni di illegittimità tanto del licenziamento disciplinare quanto del licenziamento per giustificato motivo oggettivo e, così, quanto al primo, l’insussistenza del fatto contestato, ove anche l’insussistenza del fatto discenda dall’aver il contratto collettivo valutato quel fatto come non sanzionabile con il licenziamento e quanto al secondo, l’insussistenza della ragione posta a base del licenziamento comprensiva della violazione dell’obbligo di repêchage, nel d.lgs. n. 23/2015 il fatto insussistente legittimante l’applicazione della sanzione della reintegrazione attenuata è invece circoscritto al fatto contestato ed alla ragione organizzativa posta a base del licenziamento per giustificato motivo oggettivo, risultando estranei alla nozione, così da implicare l’applicazione della sanzione indennitaria, tanto la difforme valutazione collettiva della sanzionabilità del fatto contestato con riguardo al licenziamento disciplinare quanto il il repêchage relativamente al licenziamento per giustificato motivo oggettivo.
Il che se armonizza il quadro normativo, esonerando il legislatore dall’intervento a suo tempo sollecitato, lascia aperte tutte le questioni concettuali sottese ai pregressi interventi giurisprudenziale che di quel quadro hanno segnato l’evoluzione.
E’ sufficiente una lettura della sentenza n. 125/2022 per avvedersi che la nozione ivi accolta posta a base del licenziamento per giustificato motivo oggettivo inclusiva del repêchage è il portato del recepimento dell’orientamento espresso dalla Corte di Cassazione e di recente ribadito in termini più rigorosi, con accollo integrale dell’onere della prova dell’impossibilità del ricollocamento del lavoratore licenziato, per cui il repêchage integra un elemento costitutivo della fattispecie la cui accertata possibilità determina l’insussistenza del fatto invocato a giustificazione del licenziamento da riguardarsi quale extrema ratio.
Ora è evidente che l’ammissibilità qui dichiarata dello “spacchettamento” degli elementi costitutivi della fattispecie finalizzato a costruire ai fini dell’applicabilità della tutela reintegratori due distinte ipotesi di insussistenza del fatto – l’una a valere per la legge n. 92/2012 in cui alla ragione organizzativa posta a base del licenziamento per giustificato motivo oggettivo si accompagna il repêchage e l’altra destinata a operare nell’ambito del d.lgs. 23/2015 che da quella nozione esclude il repêchage che, ove fosse ragione determinante dell’illegittimità del licenziamento per giustificato motivo oggettivo, implicherebbe l’applicazione della sanzione indennitaria, pone in dubbio, se non espressamente nega, stante la vincolatività della declaratoria dii illegittimità costituzionale di cui alla sentenza n. 128/2024, l’unitarietà della fattispecie del licenziamento per giustificato motivo oggettivo sancita dalla Corte di Cassazione e dalla stessa Corte costituzionale con la sentenza n. 125/2022.
E sul punto manca nella sentenza in esame una qualsiasi presa di posizione.
Analogamente suscita perplessità la duplice nozione di insussistenza del fatto riferita al licenziamento disciplinare dato che qui non si tratta, come nella sentenza in esame si afferma, di disconoscere la rilevanza ai fini dell’applicazione della tutela reintegratoria la valutazione di proporzionalità della sanzione rispetto al fatto contestato operata in sede collettiva ma di ammettere l’inadempimento del datore all’obbligo da questi assunto in base al disposto del contratto collettivo di limitare la propria reazione disciplinare alla sanzione conservativa prevista nel codice disciplinare, il che comporta il sancire l’irrilevanza del contratto collettivo quale fonte di diritto limitativa dell’agere/licere del datore.
Ma c’è di più, dovendosi tener conto di una considerazione ulteriore suscettibile di inficiare in termini radicali la validità delle pronunzie rese.
Il rilievo riconosciuto all’insussistenza del fatto con riguardo tanto al licenziamento disciplinare quanto al licenziamento per giustificato motivo oggettivo, pur nella duplicità dell’accezione accolta con riferimento ai due distinti testi normativi si fonda sulla natura necessariamente causale del licenziamento ovvero sull’indefettibilità di una ragione giustificativa assunta quale requisito qualificante l’esistenza stessa del provvedimento.
Il che, al di là di quanto rilevato nella sentenza n. 128/2024 circa la valenza costituzionale del principio, non è giacché è la stessa legge a negarlo.
Il comma 6 dell’art. 18 come novellato dall’art. 1, comma 42, l. n. 92/2012 ammette la comminazione del licenziamento senza motivo, ciò risolvendosi, sulla falsariga di quanto previsto dall’art. 2, l. n. 604/1966, in un mero vizio formale implicante l’applicazione della sanzione indennitaria per di più ridotta della metà e compresa ora, a seguito della sentenza della Corte costituzionale n. 194 del 26.9.2018, tra un minimo di 9 ed un massimo di 18 mensilità, salvo che non sia il lavoratore ad invocare in giudizio, chiedendone l’accertamento, un motivo disciplina re o attinente a ragioni oggettive.
Si delinea così uno scenario per il quale alla situazione di fatto data dall’intimazione del recesso senza specificazione dei motivi giuridicamente qualificata come condotta viziata sul piano formale e punibile con la sanzione indennitaria ridotta, può opporsi in ogni caso, essedo comunque, logicamente ed altresì giuridicamente, presupposta la riferibilità dell’atto ad un motivo determinante , una situazione processuale per cui, alla stregua della prospettazione offerta dal lavoratore in ordine al fondamento motivazionale dell’atto, causa petendi e thema decidendum del giudizi vengono ad identificarsi nella ricorrenza e nell’idoneità giustificativa del motivo invocato, implicando il mutamento del titolo dell’illecito e del regime sanzionatorio applicabile, con esiti di assoluta irrilevanza giuridica della fattispecie originaria pur legalmente tipizzata.
Si potrebbe osservare che ci troviamo di fronte alla generalizzazione di un meccanismo processuale non inconsueto, corrispondendo a quello che da sempre consente l’ingresso nel giudizio e la giustiziabilità del motivo discriminatorio, non altrimenti possibili per essere quel motivo, in quanto sempre legato al foro interno del soggetto agente, deducibile in giudizio solo sulla base della prospettazione in fatto del soggetto che lo subisce e su quella base accertabile dal giudice anche in via presuntiva.
Ma se ciò è ammissibile, per le indicate ragioni, con riguardo al motivo discriminatorio, certamente non lo è per gli ulteriori motivi, quello disciplinare e quello economico.
In effetti, diversamente da quanto si verifica per l’intento discriminatorio, radicato, come detto, nel foro interno del soggetto agente, tali diverse tipologie di recesso presuppongono, con riguardo al motivo disciplinare, l’esercizio consapevole di un potere qualificato come discrezionale e destinato a concretarsi nell’adozione di specifici atti idonei ad esprimerlo e, con riguardo al motivo economico, l’assunzione di determinazioni in ordine alla riorganizzazione aziendale e alla riduzione di personale che si riconnettono ad una valutazione soggettiva ed ancora una volta discrezionale dell’imprenditore, non potendo in alcun caso qualificarsi necessitata ovvero ritenersi inevitabilmente indotta dalla ricorrenza in concreto di situazioni riflettenti difficoltà economiche, finanziarie o di bilancio (come ammette la stessa sentenza n. 128/2024 nel richiamare la decisione della Corte di Cassazione n. 25201 del 7.12.2016) o l’opportunità di interventi di razionalizzazione dell’organizzazione produttiva, così che tanto l’esercizio del potere quanto le determinazioni organizzative, possano ritenersi da parte del giudice oggettivamente operanti, a prescindere dalla volizione del soggetto datore e suscettibili di qualificazione come motivi posti a base del recesso genericamente intimato e, conseguentemente, di accertamento in ordine alla loro consistenza ed alla loro idoneità giustificativa dell’atto risolutivo posto in essere