Testo Integrale con note e bibliografia

Abstract:
L’autore, prendendo spunto dalla sentenza della Grande Sezione della CGUE del 21/12/2016 C-201/15, esamina tre questioni: la prima attiene all’estensione della rilevanza della Direttiva, in ragione del principio del c.d. effetto utile; la seconda attiene al bilanciamento dei principi che regolano la materia; la terza attiene al rapporto tra le Alte Corti nella materia in esame.
Sommario: 1. Premessa. -2. Il caso. – 3. La direttiva 98/59. L’estensione della rilevanza della direttiva, in questi casi, avviene per effetto del principio del c.d. effetto utile. – 4. Libertà di stabilimento e/o libera circolazione di capitali? . – 5. Sulla natura restrittiva della norma in esame. – 6. Sull’eventuale giustificazione: la definizione di ragioni imperative di interesse generale ed il principio di proporzionalità.– 7. (segue) Sul bilanciamento dei principi che regolano la materia. – 8. Il rapporto tra la Corte di giustizia e la Consulta nella materia in esame.
1. Premessa.
La Corte di giustizia, nella causa C-201/15 del 21 dicembre 2016, è chiamata a chiarire quali siano i limiti dell’intervento degli Stati membri, in materia di licenziamenti collettivi, volti a garantire la sicurezza del lavoro per i lavoratori coinvolti nelle procedure di riduzione del personale.
La controversia, nel caso di specie, è insorta a seguito del rifiuto, da parte delle autorità greche, di autorizzare la società – una controllata della Lafarge-Holcim Ltd – a ricorrere al licenziamento collettivo.
In Grecia, i licenziamenti collettivi sono subordinati a una preventiva autorizzazione amministrativa.
Ciò a indotto il Consiglio di Stato a sottoporre alla Corte due questioni vertenti sulla compatibilità della normativa greca con la direttiva 98/59 e con alcune disposizioni del Trattato in materia di libertà di stabilimento e di libera circolazione di capitali, in combinato disposto con l’art. 16 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea.
Le questioni che la controversia solleva sono molteplici.
In questa sede ne esaminerò tre.
1)La prima attiene all’estensione della rilevanza della direttiva per effetto del principio del c.d. effetto utile.
2) La seconda attiene al bilanciamento dei principi che regolano la materia.
3) la terza attiene al rapporto tra le Alte Corti e, segnatamente, al rapporto tra la Corte di giustizia e la Consulta nella materia in esame.
Ma procediamo con ordine, esaminando, in primo luogo, la fattispecie.
2. Il caso.
La AGET Iraklis, il cui principale azionista è il gruppo multinazionale francese Lafarge, produce cemento in tre stabilimenti.
Il consiglio di amministrazione della AGET Iraclis, invocando una contrazione delle attività nel settore dell’edilizia nella regione dell’Attica, approvava, nel marzo del 2013, un piano di ristrutturazione che prevedeva la chiusura definitiva dell’impianto di Chalkida, che impiegava 236 dipendenti.
La società invitava il sindacato per discutere (dopo averlo informato) del piano degli esuberi.
Il sindacato non dava seguito agli inviti.
La società, a questo punto, presentava al Ministro una richiesta di approvazione del piano di licenziamento collettivo, ai sensi dell’art. 5 della legge greca n. 1387/1983.
Il Ministro, sulla base di un parere reso dal Consiglio Superiore del Lavoro, negava l’autorizzazione al piano di esuberi presentato dalla società.
La società adiva il Consiglio di Stato greco per l’annullamento di tale decisione.
Il giudice greco, pur affermando che una previsione come quella prevista dall’art. 5, paragrafo 3, della legge 1387/1983 non era prevista dalla direttiva 98/59, riteneva che la stessa trovava fondamento nell’art. 5 della direttiva (che non pregiudica la facoltà degli Stati membri di “applicare o di introdurre disposizioni (…) più favorevoli ai lavoratori”).
Il Consiglio di Stato, però, nutriva dei dubbi sulla compatibilità della disciplina greca con alcune norme del diritto dell’Unione. Per gli opportuni chiarimenti, dopo aver sospeso il procedimento, chiedeva alla CGUE:
1) Se sia conforme, in particolare, alle disposizioni della direttiva 98/59 e, in generale, agli artt. 49 e 63 TFUE, una norma di diritto nazionale, quale l’articolo 5, paragrafo 3, della legge 1387/1983, che subordini i licenziamenti collettivi in una data impresa a un’autorizzazione dell’amministrazione rilasciata sulla base dei criteri attinenti: a) alle condizioni di mercato; b) alla situazione dell’impresa; c) all’interesse dell’economia nazionale.
2) Nell’ipotesi di risposta negativa alla prima questione, se una norma di diritto nazionale di tale contenuto sia conforme, in particolare, alle disposizioni della direttiva 98/59/CE e, in generale, agli articoli 49 e 63 TFUE quando sussistano ragioni sociali serie, quali una grave crisi economica e un tasso di disoccupazione particolarmente elevato.
La questione (principale), ancorchè sollevata incidentalmente in altro procedimento , è irrisolta da tempo.
La Corte suddivide la sua analisi in due parti.
Nella prima parte, valuta la compatibilità della disposizione greca con la direttiva 98/59.
Nella seconda parte, analizza le disposizioni del Trattato in materia di libera circolazione.
3. La direttiva 98/59.
La premessa da cui muove la Corte è duplice.
Per un verso, ricorda che la direttiva “mira a rafforzare la tutela dei lavoratori in caso di licenziamento collettivo ”, avendo come scopo principale quello di “far precedere i licenziamenti collettivi da una consultazione dei rappresentanti dei lavoratori e dall’informazione dell’autorità pubblica competente ”.
Sotto altro profilo, ricorda che la direttiva 98/59 (come la precedente 75/129) garantisce “solo un’armonizzazione parziale delle regole di protezione dei lavoratori in caso di licenziamenti collettivi ”.
Ciò premesso, la Corte ribadisce che la direttiva non incide, in alcun modo, “sulla libertà di giudizio” del datore di lavoro “in merito al se e al quando debba elaborare un piano di licenziamento collettivo”(punto 31).
In questo contesto, fermo restando la possibilità per gli Stati membri “di adottare provvedimenti più favorevoli ai lavoratori” (punto 32), La Corte, in assonanza con le conclusioni dell’Avvocato generale , ritiene che la normativa greca sottoposta al suo esame “non rientra , in linea di massima, nell’ambito di applicazione della direttiva 98/59 e resta, di conseguenza, di competenza degli Stati membri” (punto 33).
Le assonanze con le conclusioni dell’Avvocato generale, però, si fermano qui.
L’affermazione che la direttiva 98/59 “non osta” ad una disciplina come quella greca è affermata “in linea di principio”.
La conclusione sarebbe diversa, afferma la Corte, “nell’ipotesi in cui un regime nazionale siffatto abbia, alla luce delle sue modalità più precise o della maniera in cui è concretamente attuato dall’autorità pubblica competente, la conseguenza di privare del loro effetto utile le disposizioni degli articoli da 2 e 4 della direttiva 98/59” (punto 35).
L’affermazione è in linea con quanto più volte affermato dalla Corte che “sebbene la direttiva 98/59 garantisca solo una armonizzazione parziale delle norme a tutela dei lavoratori in caso di licenziamento collettivo, la limitatezza di una simile armonizzazione non può tuttavia privare di effetto utile le disposizioni della direttiva ”.
Lo stesso varrebbe, prosegue la Corte, “nel caso di una normativa nazionale che subordini i licenziamenti collettivi al previo assenso di un’autorità pubblica qualora, per l’effetto, ad esempio, dei criteri in base ai quali deve pronunciarsi la suddetta autorità o del modo in cui essa li interpreta o li attua in concreto, risultasse, in pratica, esclusa per il datore di lavoro qualsiasi possibilità effettiva di procedere a licenziamenti collettivi siffatti” (punto 38).
L’estensione della rilevanza della direttiva, in questi casi, avviene, quindi, per effetto del principio del c.d. effetto utile.
Tale principio, che impone un’applicazione o una interpretazione delle norme comunitarie che sia funzionale al raggiungimento delle loro finalità , viene utilizzato dalla Corte per superare i limiti fisiologici della direttiva sui licenziamenti collettivi (che garantisce solo una armonizzazione parziale delle norme interne alla direttiva).
In sostanza, la Corte, attraverso una giurisprudenza costante che si snoda dalla direttiva 75/129 alla direttiva 98/59 , afferma che la limitatezza dell’armonizzazione parziale delle norme nazionali “non può avere come conseguenza di privare di effetto utile le disposizioni della direttiva” (punto 36).
E’ tuttavia compito del giudice del rinvio, conclude la Corte, verificare se “la summenzionata normativa ha la conseguenza di privare le disposizioni della direttiva 98/59 del loro effetto utile” (punto 44).
4. Libertà di stabilimento e/o libera circolazione di capitali?
La Corte, nella seconda parte della sentenza, analizza la compatibilità della normativa greca con le disposizioni di diritto primario.
In questo contesto, la prima domanda a cui la Corte fornisce risposta e se le questioni pregiudiziali richiedevano l’esame dell’art. 49 o dell’art. 63 del TFUE, o di entrambe le norme.
Rientra nell’ambito della libertà di stabilimento la situazione in cui una società stabilita in uno Stato membro crei una società controllata in un altro Stato membro. Ciò vale, in particolare, allorchè una società siffatta o un cittadino di uno Stato membro acquisisce una partecipazione nel capitale di una società stabilita in un altro Stato membro che gli conferisce una sicura influenza sulle decisioni della società e gli consente di indirizzarne le attività .
Tale ipotesi, afferma la Corte nella sentenza esaminata, “ricorre nell’ambito della causa principale, giacchè, come risulta dalla decisione di rinvio, il gruppo multinazionale Lafarge, la cui sede è in Francia, detiene partecipazioni nella AGET Iraklis che lo rendono azionista principale di quest’ultima e giacchè, all’epoca in cui è stato disposto il piano di licenziamento controverso, le suddette partecipazioni ammontavano all’89% del capitale della AGET Iraklis” (punto 47).
L’AGET Iraklis riteneva che la questione riguardava anche la libera circolazione dei capitali, senza, però, chiarirne le ragioni .
La Corte, al punto 59, ha cura di precisare che: “anche ammesso che la normativa di cui trattasi nel procedimento principale produca effetti restrittivi sulla libera circolazione dei capitali, detti effetti sarebbero, nell’ambito di tale procedimento, la conseguenza ineluttabile di un eventuale ostacolo alla libertà di stabilimento e non giustificherebbero un esame autonomo alla luce dell’art. 63 TFUE”.
5. Sulla natura restrittiva della norma in esame.
La nozione di “restrizione”, secondo una giurisprudenza consolidata , concerne, in particolare, misure che, seppur applicabili senza discriminazione quanto alla nazionalità, sono idonee ad ostacolare o rendere meno attraente l’esercizio della libertà d’impresa.
L’esigenza di una autorizzazione preventiva costituisce, in linea di principio, una siffatta restrizione .
L’orientamento citato riguarda casi di realizzazione di stabilimenti e non il loro ridimensionamento.
Ma tale ragionamento deve, necessariamente, avere riguardo (anche) alle ipotesi di ridimensionamento dell’impresa.
La libertà di stabilimento, in linea di principio, comporta la libertà di determinare la natura e la portata dell’attività che sarà svolta nello Stato ospitante “ e, in particolare, le dimensioni degli impianti stabili e il numero di lavoratori richiesti a tal fine” (punto 53) perché “la decisione di procedere a un licenziamento collettivo rappresenta una decisione fondamentale nella vita dell’impresa” (punto 54).
Le disposizioni di diritto dell’Unione, peraltro, devono essere interpretate in linea con i diritti fondamentali sanciti dalla Carta.
L’art. 49 TFUE, in sostanza (come ricorda l’Avvocato generale nel punto 49), “deve essere interpretato in conformità dell’art. 16 della Carta, che sancisce la libertà d’impresa” che comprende “la libertà di esercitare un’attività economica o commerciale, la libertà contrattuale e la libera concorrenza”.
In tali circostanze, conclude la Corte (punto 57) “una normativa nazionale siffatta può costituire un serio ostacolo all’esercizio della libertà di stabilimento in Grecia”.
6. Sull’eventuale giustificazione: la definizione di ragioni imperative di interesse generale ed il principio di proporzionalità.
In base alla giurisprudenza Gebhard , le restrizioni devono soddisfare quattro condizioni per essere compatibili con il diritto dell’Unione: esse devono applicarsi in modo non discriminatorio, essere giustificate da motivi imperiosi interesse pubblico, essere idonee a garantire il conseguimento dello scopo perseguito e non andare oltre quanto necessario per il raggiungimento di questo.
Dall’art. 52, paragrafo 1, della Carta risulta inoltre che la libertà d’impresa garantita dall’art. 16 della Carta non è assoluta, ma può essere oggetto di disciplina.
La normativa greca non presentava profili discriminatori.
La Corte ha, quindi, verificato se i restanti criteri, che ruotano sulla giustificazione e la proporzionalità dell’intervento, fossero presenti nella fattispecie.
La Corte, prima di esaminare tale questione, riafferma alcuni principi di grande rilevo.
In particolare:
a) I diritti fondamentali garantiti dalla Carta sono applicabili a tutte le situazioni regolate dal diritto dell’Unione;
b) Ciò si verifica, in particolare, allorchè una normativa nazionale è atta ad ostacolare una o più libertà fondamentali garantite dal Trattato;
c) Il ricorso, da parte di uno stato membro, a eccezioni previste dal Diritto dell’Unione per giustificare un ostacolo a una libertà fondamentale garantita dal Trattato deve pertanto essere considerato come attuazione del diritto dell’Unione, ai sensi dell’art. 51, paragrafo 1, della Carta (punti da 62 a 64).
La sentenza ribadisce la portata della sentenza Akeberg-Fransson .
Il punto centrale del ragionamento della Corte è che non sia sostenibile che l’ambito della Carta sia più ristretto dell’ambito di applicazione del diritto dell’Unione.
Malgrado le critiche e le resistenze, specie da parte della Corte costituzionale tedesca , era fin troppo chiaro alla Corte che la protezione dei diritti fondamentali dell’Unione sarebbe stata incompleta se non fosse stato possibile applicare la Carta, ad esempio, alla valutazione di un atto giuridico nazionale che fosse in contrasto con il diritto primario.
Fatta questa premessa, la Corte esamina la questione se si possa ritenere che i tre criteri utilizzati nell’art. 5, paragrafo 3, della legge n. 1387/1983 – vale a dire le condizioni del mercato del lavoro, la situazione dell’impresa e l’intesse dell’economia nazionale – siano diretti a incentivare la protezione dei lavoratori adeguatamente ed in modo proporzionato.
La Corte, sotto questo profilo, ha fissato due punti fermi.
Con il primo, (ri)afferma che “secondo giurisprudenza costante motivi di natura puramente economica, quali, in particolare, la promozione dell’economia nazionale o il buon andamento di quest’ultima, non possono servire come giustificazione per ostacoli vietati dal Trattato ” (punto 72). Da ciò consegue l’inammissibilità del criterio “dell’interesse dell’economia nazionale” cui fà riferimento la normativa greca (punto 96).
Viceversa, secondo punto fermo, la tutela dei lavoratori rientra tra le ragioni imperative di interesse generale ; in particolare, la Corte ha già ammesso che le considerazioni attinenti al mantenimento dell’occupazione possono costituire, in determinate circostante e a certe condizioni, giustificazioni per una normativa nazionale avente l’effetto di ostacolare la libertà di stabilimento .
Ma la sentenza và oltre.
L’Unione, come risulta dall’art. 3, paragrafo 3, TUE, non soltanto instaura un mercato interno, ma si adopera per lo sviluppo sostenibile dell’Europa (punto 76).
“Poiché dunque l’Unione non ha soltanto una finalità economica ma anche una finalità sociale, i diritti che derivano dalle disposizioni del Trattato relative alla libera circolazione delle merci, delle persone, dei servizi e dei capitali devono essere bilanciati con gli obiettivi perseguiti dalla politica sociale tra i quali figurano in particolare, come risulta dall’art. 151, primo comma, TFUE, la promozione dell’occupazione, il miglioramento delle condizioni di vita e di lavoro, che consenta la loro parificazione nel progresso, una protezione sociale adeguata, il dialogo sociale, lo sviluppo delle risorse umane atto a consentire un livello occupazionale elevato e duraturo e la lotta contro l’emarginazione” (punto 77).
L’importanza di questa affermazione, centrale nell’economia della motivazione, verrà affrontata nelle osservazioni conclusive.
Basti dire, in questa fase del commento, che l’esigenza del bilanciamento, propria di alcuni atti normativi dell’Unione , diventa centrale nella valutazione della Corte.
In questo bilanciamento non rientra, almeno direttamente , l’art. 27 della Carta (sul diritto dei lavoratori all’informazione e alla consultazione nell’ambito dell’impresa ) che, però, attraverso la sentenza Association de mediation sociale condiziona la lettura dell’art. 30 della Carta che la Corte non manca di menzionare (nel punto 89).
Bilanciamento che viene operato in astratto e in concreto.
La Corte, dopo aver ricordato l’ampio margine di discrezionalità di cui godono gli Stati membri nella scelta delle misure in grado di conseguire gli obiettivi di politica sociale (punto 81), afferma che, sul piano dei principi (punto 94) una normativa come quella greca “non può essere considerata contraria alla libertà di stabilimento garantita dall’art. 49 TFUE né alla libertà d’impresa sancita dall’art. 16 della Carta” (punto 83). Libertà, quest’ultima, che “non costituisce una prerogativa assoluta” (punto 85). Peraltro, l’art. 52, paragrafo 1, della Carta ammette la possibilità di apportare limitazioni all’esercizio dei diritti sanciti dalla stessa.
Le decisioni in tema di licenziamenti collettivi sono decisioni economiche e commerciali che, normalmente, hanno ripercussioni sull’occupazione di un numero rilevante di lavoratori all’interno dell’impresa.
Per tale ragione, in mancanza di una norma del diritto dell’Unione destinata a prevenire i licenziamenti (al di là del dovere dell’informazione e consultazione prevista dalla direttiva 98/59), una normativa come quella greca può “rilevarsi idoneo a contribuire al rafforzamento del livello di protezione effettiva dei lavoratori e della loro occupazione” (punto 92).
Ma se si passa dal piano astratto (dell’esame della normativa) alle “modalità concrete caratterizzanti la fattispecie” il discorso cambia.
Per quanto riguarda i criteri della “situazione dell’impresa” e le “condizioni del mercato del lavoro”, “tali criteri appaiono, a priori, certamente collegabili a obiettivi di interesse generale, quali la protezione dei lavoratori e dell’occupazione (punto 98), ma gli stessi “sono formulati in maniera generica e imprecisa” (punto 99). “Criteri siffatti, che non sono precisi e non riposano dunque su condizioni oggettive e controllabili, vanno oltre quel che è necessario per conseguire gli obiettivi indicati e non possono pertanto soddisfare quanto esige il principio di proporzionalità” (punto 100), violando,peraltro gli artt. 49 del TFUE e la libertà d’impresa sancita dall’art. 16 della Carta (punti 102-103).
L’eventuale esistenza, in uno Stato membro, di un contesto caratterizzato da una crisi economica acuta e da un tasso di disoccupazione particolarmente elevato “non è atta ad incidere sulle risposte fornite alla prima questione”, afferma la Corte, al punto 108, rispondendo al secondo quesito formulato dal giudice di rinvio.
7. (segue) Sul bilanciamento dei principi che regolano la materia.
Il bilanciamento dei principi costituisce, nell’economia della decisione, uno snodo fondamentale.
Nel bilanciamento dei principi si individuano quattro operazioni intellettuali.
-L’identificazione del principio;
- L’interpretazione del principio;
- Il bilanciamento dei principi che, contemporaneamente, regolano la materia;
- La concretizzazione del principio.
Operazioni che, almeno dal punto di vista teorico, possono essere esaminate in modo distinto.
Nella prima operazione (identificazione dei principi) la Corte ha utilizzato due tecniche diverse.
Per un verso, ha individuato la fonte normativa (o meglio, le fonti normative) che esprimono uno dei due “principi”che entrano in gioco.
Si tratta della libertà di stabilimento (sancita dall’art. 49 del TFUE) che viene letta in combinato disposto con l’art. 16 della Carta (che sancisce la libertà d’impresa).
Sotto altro profilo, nella identificazione dell’altro “principio” ha richiamato l’art. 3, paragrafo 3, TUE (che impone all’Unione, non soltanto di instaurare un mercato interno, ma di adoperarsi per uno sviluppo sostenibile dell’Europa) da cui si desume l’esistenza di un principio diverso: quello di assicurare, nelle varie operazioni anche una finalità sociale .
In quanto “principi”, a differenza delle regole, sono derogabili, cioè sono soggetti a una serie di eccezioni che si manifestano solo in occasione della loro applicazione a un caso concreto .
Nell’interpretazioni dei due principi che si contendono il campo, la Corte ha utilizzato due tecniche diverse.
L’interpretazione logica e sistematica con riferimento alla libertà di stabilimento.
La libertà di stabilimento, afferma la Corte, comporta (logicamente) la libertà di determinare la natura e la portata dell’attività che sarà svolta nello Stato ospitante “ e, in particolare, le dimensioni degli impianti stabili e il numero di lavoratori richiesti a tal fine” (punto 53) perché “la decisione di procedere a un licenziamento collettivo rappresenta una decisione fondamentale nella vita dell’impresa” (punto 54).
Le disposizioni di diritto dell’Unione, peraltro, devono essere interpretate in linea con i diritti fondamentali sanciti dalla Carta (ricorso all’interpretazione sistematica)
L’art. 49 TFUE, in sostanza (come ricorda l’Avvocato generale nel punto 49), “deve essere interpretato in conformità dell’art. 16 della Carta, che sancisce la libertà d’impresa” che comprende “la libertà di esercitare un’attività economica o commerciale, la libertà contrattuale e la libera concorrenza”.
Nell’interpretazione del secondo principio (tendente ad assicurare le finalità anche sociali delle operazioni) la Corte usa una tecnica autoreferenziale (tipica di un ordinamento lacunoso, come quello dell’Unione Europea).
La tutela dei lavoratori rientra tra le ragioni imperative di interesse generale, afferma la Corte, richiamando i suoi precedenti .
Individuati (ed interpretati) i “principi”, la Corte si pone il problema del loro bilanciamento.
“Poiché dunque l’Unione non ha soltanto una finalità economica ma anche una finalità sociale, i diritti che derivano dalle disposizioni del Trattato relative alla libera circolazione delle merci, delle persone, dei servizi e dei capitali devono essere bilanciati con gli obiettivi perseguiti dalla politica sociale tra i quali figurano in particolare, come risulta dall’art. 151, primo comma, TFUE, la promozione dell’occupazione, il miglioramento delle condizioni di vita e di lavoro, che consenta la loro parificazione nel progresso, una protezione sociale adeguata, il dialogo sociale, lo sviluppo delle risorse umane atto a consentire un livello occupazionale elevato e duraturo e la lotta contro l’emarginazione” (punto 77).
Bilanciare non significa trovare un punto di equilibrio o una “via mediana” ma, secondo l’opinione preferibile , applicare un principio anziché un altro.
La gerarchia assiologia, ovviamente, non è assoluta ma è flessibile; dipende dal caso in discussione .
Nel bilanciare i “principi” la Corte compie due operazioni distinte.
Sul piano astratto, a Corte, dopo aver ricordato l’ampio margine di discrezionalità di cui godono gli Stati membri nella scelta delle misure in grado di conseguire gli obiettivi di politica sociale (punto 81), afferma che, sul piano dei principi (punto 94) una normativa come quella greca “non può essere considerata contraria alla libertà di stabilimento garantita dall’art. 49 TFUE né alla libertà d’impresa sancita dall’art. 16 della Carta” (punto 83). Libertà, quest’ultima, che “non costituisce una prerogativa assoluta” (punto 85). Peraltro, l’art. 52, paragrafo 1, della Carta ammette la possibilità di apportare limitazioni all’esercizio dei diritti sanciti dalla stessa.
Affermazioni di grande importanza, forse non adeguatamente sottolineate nei commenti alla sentenza .
Ma se si passa dal piano astratto (dell’esame della normativa) alle “modalità concrete caratterizzanti la fattispecie” il discorso cambia.
In questa operazione, la Corte passa dal bilanciamento, in astratto, alla “concretizzazione”, nel caso concreto, del bilanciamento.
In questa operazione un principio è sacrificato, mentre l’altro viene applicato.
Per quanto riguarda i criteri della “situazione dell’impresa” e le “condizioni del mercato del lavoro”, afferma la Corte, “sono formulati in maniera generica e imprecisa” (punto 99). “Criteri siffatti, che non sono precisi e non riposano dunque su condizioni oggettive e controllabili, vanno oltre quel che è necessario per conseguire gli obiettivi indicati e non possono pertanto soddisfare quanto esige il principio di proporzionalità” (punto 100), violando,peraltro gli artt. 49 del TFUE e la libertà d’impresa sancita dall’art. 16 della Carta (punti 102-103).
Ciò non significa, ovviamente, che in un caso diverso, venga a prevalere il “principio” opposto.
8. Il rapporto tra la Corte di giustizia e la Consulta nella materia in esame.
Ma qual’è il rapporto tra rinvio pregiudiziale alla CGUE ed il rinvio alla Consulta quando vengono in rilievo questioni inerenti la Carta costituzionale (artt. 41 e 4) e la Carta dei diritti fondamentali (artt. 30 e 16)?
La risposta, fino al dicembre dell’anno scorso, era scontata.
La pregiudiziale comunitaria, in ossequio alla giurisprudenza pregressa, doveva sempre precedere la questione di costituzionalità a pena di inammissibilità .
La questione và rivisitata alla luce della giurisprudenza più recente della Consulta.
La Corte, nella sentenza n. 269 del 2017 , inverte l’ordine delle questioni.
La pregiudiziale comunitaria viene postergata all’incidente costituzionale e configurata come ipotesi residuale, almeno nel caso in cui sussistano dubbi di costituzionalità per contrasto con diritti protetti sia dalla Costituzione, sia dalla Carta dei diritti fondamentali.
Il cambiamento sarebbe imposto dalla trasformazioni indotte sul sistema dei rapporti fra diritto nazionale ed europeo per effetto del Trattato di Lisbona e della Carta (che presenta, dice la Corte, “un contenuto di impronta tipicamente costituzionale”).
Nel caso della doppia pregiudizialità, quindi, il rimedio interno deve precedere quello europeo.
L’innovazione, che rappresenta la maggiore novità nel rapporto tra le Alte Corti dalla Granital ad oggi, muta il DNA delle relazioni tra le due Corti.
Attivare una dinamica normativa in cui il rispetto dell’identità costituzionale non rappresenta (più solo) il confine esterno della discrezionalità interpretativa della Corte di giustizia ma un’essenziale coordinata ermeneutica delle norme europee significa invertire il verso discendente del primato del diritto europeo e propiziare un movimento ascendente di elaborazione giurisprudenziale dei diritti e del diritto.
L’innovazione, che riprende il modello francese (introdotto a seguito di revisione costituzionale) e, almeno in parte, quello austriaco si pone in contrasto con l’elaborazione della Corte di giustizia?
Dalla lettura della motivazione della sentenza sembrerebbe di no.
La stessa Corte di giustizia ha, infatti, affermato che il diritto dell’Unione “non osta” al carattere prioritario del giudizio di costituzionalità di competenza delle Corti costituzionali, purchè i giudici ordinari restino liberi di sottoporre alla Corte di giustizia, in “qualunque fase del procedimento ritengano appropriata (…) qualsiasi questione pregiudiziale a loro giudizio necessaria”, di “adottare qualsiasi misura necessaria per garantire la tutela giurisdizionale provvisoria dei diritti conferiti dall’ordinamento giuridico dell’Unione”; di” disapplicare, al termine del giudizio incidentale di legittimità costituzionale, la disposizione legislativa in questione che abbia superato il vaglio di costituzionalità, ove, per altri profili, la ritengano contraria al diritto dell’Unione” .
Resta il fatto che la sentenza pone una serie di delicatissimi problemi applicativi.
Ne indico tre.
Quale è l’ambito di operatività della nuova regola introdotta dalla Consulta.
Vale solo nel caso in cui venga in questione l’applicabilità della Carta dei diritti , ovvero anche quando si censuri il contrasto con disposizioni dei Trattati .
La riconducibilità della portata della sentenza n.269/17 alla sola Carta potrebbe argomentarsi, oltre che sulla base della motivazione della sentenza, sulla base della natura delle libertà riconosciute nei Trattati (che sono principi di struttura). In questo caso, è richiesto il massimo grado di uniformazione normativa che rende, indispensabile, richiedere l’intervento, preventivo, della Corte di giustizia.
Ma la questione è aperta.
Ed ancora, quale è il vincolo della decisione n. 269/17 considerato che è contenuta in un obiter dictum di una sentenza di inammissibilità specie per il giudice di ultima istanza che ha l’obbligo (e non la facoltà) di effettuare il rinvio pregiudiziale?
Ma la questione più delicata è la terza.
Cosa succede se la Consulta dichiara l’infondatezza della questione costituzionale.
E’ possibile ricorre alla CGUE solo per profili diversi da quelli scrutinati dalla Consulta o, anche, per gli stessi profili esaminati (e ritenuti infondati) dalla Consulta?
Sul tema, si è interrogata la stessa Corte di cassazione, nella sentenza n. 3831 del 16 febbraio 2018.
La Cassazione, che in ossequio alla sentenza n. 269/17, ha ritenuto di privilegiare, in prima battuta, l’incidente di costituzionalità ha “auspicato” un “chiarimento sull’ambito dei profili in relazione ai quali il giudice comune – e, segnatamente, il giudice di ultima istanza – mantenga il potere (se del caso, previo rinvio pregiudiziale ex art. 267 TFUE, ove tale rinvio non fosse già azionato dalla stessa Corte costituzionale) di non applicare una norma interna che abbia superato il vaglio di legittimità costituzionale”.
Il tutto al fine di evitare un conflitto con quanto statuito dalla stessa Corte di giustizia nella sentenza Global Starnet ove la Corte ha affermato che “il giudice nazionale le cui decisioni non sono impugnabili con un ricorso giurisdizionale è tenuto, in linea di principio, a procedere al rinvio pregiudiziale di una questione di interpretazione del diritto dell’Unione anche nel caso in cui, nell’ambito del medesimo procedimento nazionale, la Corte costituzionale dello Stato membro di cui trattasi abbia valutato la costituzionalità delle norme costituzionali alla luce delle norme di riferimento aventi un contenuto analogo a quelle delle norme del diritto dell’Unione”.

 

 

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