Testo Integrale con note e bibliografia
IL GIUSTIFICATO MOTIVO OGGETTIVO: LE RAGIONI
La giurisprudenza di legittimità a partire da alcuni arresti dell’anno 2016 (Cass. sez. lav. 20.09.2016, n. 18409; 28.09.2016 nr. 19185) e, con consapevole presa di distanza, con l’arresto del 7.12.2016 nr. 25201, ha superato il proprio precedente orientamento secondo cui le «ragioni inerenti all’attività produttiva, all’organizzazione del lavoro ed al regolare funzionamento di essa» che giustificano il licenziamento ai sensi dell’ articolo 3 L. 604/1966 consisterebbero nella necessità di far fronte a «situazioni economiche sfavorevoli non contingenti» o a «spese straordinarie»; nelle pronunce citate si è infatti riconosciuto che il giustificato motivo oggettivo si sostanzia in ogni modifica della struttura organizzativa dell’impresa che abbia quale suo effetto la soppressione di una determinata posizione lavorativa, indipendentemente dall’obiettivo perseguito dall’imprenditore, sia esso, cioè, una migliore efficienza, un incremento della produttività— e quindi del profitto— ovvero la necessità di far fronte a situazioni economiche sfavorevoli o a spese straordinarie.
A tale principio ha inteso assicurare continuità la giurisprudenza successiva ( per tutte: Cass. sez. lav. 15.02.2017 nr. 4015; 24 maggio 2017 nr. 13015; 2 maggio 2018 nr. 10435; 23 maggio 2018, n. 12794) .
Nella giurisprudenza della Corte di legittimità resta, dunque, comunque ferma la necessità del controllo in sede giudiziale:
- in primo luogo, della effettività e non pretestuosità della ragione obiettiva, per come dichiarata dall’imprenditore;
- di poi, del nesso causale tra la ragione accertata ed il licenziamento (in termini di riferibilità e coerenza del recesso rispetto alla riorganizzazione).
Sicchè ove lo stesso datore di lavoro abbia motivato il licenziamento sulla base di situazioni sfavorevoli o spese straordinarie la mancanza di prova delle medesime produce la illegittimità del licenziamento non già perché non integranti in astratto il giustificato motivo obiettivo ma perché in concreto si accerta che il motivo dichiarato non sussiste ed è pretestuoso (cfr. Cass. Civ. sez. lav. 15.2.2017 nr. 4015 ha ritenuto conforme a diritto la pronunzia del giudice del merito dichiarativa della illegittimità del licenziamento sul rilievo che questi aveva ritenuto non provate le «sopravvenute ed inaspettate» ragioni addotte, che rappresentavano una situazione sfavorevole).
Due temi sono collegati alla suddetta definizione del licenziamento economico:
- la individuazione dei criteri per evitare che la ragione organizzativa di cui all’articolo 3 L. 604/1966 (causa) si identifichi con la mera soppressione del posto di lavoro (effetto), con il rischio che il licenziamento per giustificato motivo oggettivo trasmodi in licenziamento ad nutum;
- la collocazione sistematica, nell’ambito del giustificato motivo oggettivo, dell’obbligo del repechage, cui è strettamente connesso il tema degli effetti giuridici della violazione dell’obbligo e del tipo di tutele applicabili.
Questi spunti di riflessione si riferiscono al tema del repechage che comunque, a giudizio di chi scrive, non è estraneo alla prima delle questioni poste in premessa; può infatti affermarsi che il rapporto di causalità tra la ragione organizzativa (quale agente causale) ed il licenziamento (effetto) viene meno proprio quando anche all’esito della riorganizzazione il lavoratore possa essere impiegato nella azienda.
IL GIUSTIFICATO MOTIVO OGGETTIVO : IL REPECHAGE
Per chiarezza di trattazione giova premettere che una questione di repechage viene in rilievo nelle sole ipotesi in cui la riorganizzazione posta a base del licenziamento abbia carattere «qualitativo» ovvero investa una specifica posizione di lavoro; quando, invece, la esigenza organizzativa sia di carattere meramente «quantitativo»— ovvero consista in una generica esigenza di riduzione di personale tra più posizioni omogenee e fungibili— non è utilizzabile il criterio dell’impossibilità di «repechage» e, piuttosto, viene in considerazione l’obbligo del datore di lavoro di individuare il soggetto da licenziare secondo i principi di correttezza e buona fede.
Il tema di queste considerazioni è dunque la prima delle ipotesi considerate.
Per tradizionale giurisprudenza della Corte di legittimità l'impossibilità del repechage rientra nella fattispecie del giustificato motivo oggettivo; si è affermato, infatti, che la effettività di una modifica organizzativa che determini la soppressione di una determinata posizione lavorativa non è da sola sufficiente a costituire un giustificato motivo oggettivo di licenziamento, che include anche l'inesistenza di altri posti di lavoro in cui ricollocare utilmente il lavoratore (tra le tante, Cassazione civile sez. lav. 22 novembre 2017 n. 27792; 11 ottobre 2016, n. 20436; 13 giugno 2016 n. 12101; 22 marzo 2016, n. 5592; 12 luglio 2012, n. 11775; 26 marzo 2010, n. 7381).
Con la conseguenza che la impossibilità di ricollocazione, in quanto interna al giustificato motivo oggettivo, costituisce un requisito di legittimità del licenziamento.
Tale ricostruzione è trasversale ai diversi orientamenti che si erano invece formati nella giurisprudenza di legittimità in riferimento al diverso profilo della distribuzione nel processo degli oneri di allegazione e di prova relativi all’obbligo di repechage ( e sul contenuto di tali oneri) .
La ricostruzione del giustificato motivo oggettivo come fattispecie comprendente non solo la ragione organizzativa che determina il licenziamento ma anche la impossibilità di ricollocazione è stata ribadita nel più recente arresto di Cass. sez. lav. 2 maggio 2018 nr. 10453, quale premessa della questione, affrontata nella pronunzia, della tutela riconosciuta al lavoratore a fronte della violazione dell’obbligo di repechage nel vigente regime dell'articolo 18 L. nr. 300/1970.
IL LICENZIAMENTO ECONOMICO E LE TUTELE DELL’ARTICOLO 18 L. nr. 300/1970
La sentenza da ultimo citata seppure relativa ad un ipotesi di licenziamento illegittimo per violazione dell’obbligo di repechage si è fatta carico di una interpretazione di sistema del comma 7 dell’articolo 18 L. 300/1970, riferibile, cioè, ad ogni ipotesi di carenza del giustificato motivo oggettivo.
Nella prima parte è più specificamente affrontata la questione della possibilità di applicare la tutela reintegratoria, prevista dal comma 7 dell’ articolo 18 per i casi di «manifesta insussistenza del fatto posto a base del licenziamento per giustificato motivo oggettivo» anche nelle ipotesi di violazione dell’obbligo di repechage; il dubbio risolto è quello della sussumibilità di tale violazione tra gli «altri casi» in cui «non ricorrono gli estremi del giustificato motivo», per i quali la norma dispone la tutela meramente indennitaria.
Sotto questo profilo, ribadendo l’ inerenza dell’obbligo di repechage al giustificato motivo oggettivo, la pronuncia ha affermato che l’ ipotesi della «insussistenza del fatto», cui è collegata la tutela restitutoria comprende l’intero accertamento della fattispecie, che consta non solo delle ragioni organizzative ma anche dell’ impossibilità di un diverso impiego del dipendente licenziato.
La interpretazione del giudice di legittimità ha dato rilievo all’ argomento letterale, osservando che il termine «insussistenza del fatto», in assenza di una limitazione testuale alle sole «ragioni» della impresa ( ex all’articolo 3 L. 604/1966) comprende l’intero «fatto giuridico» e, dunque, la complessiva nozione di giustificato motivo oggettivo, come elaborata dalla giurisprudenza.
Il passaggio successivo dell’iter argomentativo, riferibile a tutte le evenienze di accertamento dell’illegittimità del licenziamento economico, individua i criteri di giudizio affinchè la insussistenza del fatto possa dare accesso al regime della reintegra, in quanto “manifesta”.
Sul punto la Suprema Corte ha interpretato l’aggettivazione come evenienza probatoria, affermando che la tutela reintegratoria è ammissibile solo in ipotesi residuali, a fronte di «una evidente e facilmente verificabile assenza dei presupposti giustificativi del licenziamento che consenta di apprezzare la chiara pretestuosità del recesso» (così in motivazione) .
La Corte di legittimità ha applicato il principio di diritto in una fattispecie in cui il giudice del merito aveva rilevato una situazione di «insufficienza probatoria» in ordine all’inesistenza di posti ove la lavoratrice potesse essere utilmente ricollocata, essendo rimaste incerte circostanze decisive per la ricostruzione dell’organico aziendale.
In tale situazione di «insufficienza probatoria» ha ritenuto corretto il dispositivo del giudice del merito (seppure diversamente motivato) di applicazione della sola tutela indennitaria.
Possiamo dunque muovere dall’affermazione, ricavabile dalla pronuncia in esame, che nei casi di insufficienza della prova della esistenza del giustificato motivo oggettivo il licenziamento è illegittimo ma non vi è «manifesta insussistenza del fatto».
In sostanza, la insufficienza della prova del giustificato motivo oggettivo determina il mancato assolvimento dell’onere a carico del datore di lavoro (articolo 5 legge 604/1966) e l’accertamento della illegittimità del licenziamento; diverso è il piano del regime «sanzionatorio» che consegue all’ accertamento di illegittimità .
Ed invero:
- ai fini dell’accertamento della illegittimità del licenziamento, il mancato assolvimento dell’onere della prova— o per assenza assoluta di prova o in caso di prova dubbia o per acquisizione della prova positiva della assenza del giustificato motivo oggettivo — cade a carico del datore di lavoro.
- quanto al regime delle tutele, la situazione è diversa; cade, infatti, a carico del lavoratore l’esito della prova dubbia, in termini di riduzione di tutele.
Resta in ombra la disciplina sanzionatoria nei casi di totale assenza della prova; si pensi ai casi di contumacia del datore di lavoro (o, comunque, quanto al tema che ci occupa, ai casi di mancanza di allegazione e/o prova circa la incollocabilità del dipendente licenziato in altre posizioni di lavoro disponibili).
In sostanza, si tratta di stabilire se la assenza della prova equivalga o meno alla prova dubbia nella selezione delle tutele.
A ben vedere resta da precisare anche la evenienza della acquisizione della prova positiva (di insussistenza del giustificato motivo oggettivo; ad esempio per l’accertamento della esistenza di una posizione di lavoro disponibile). V’è in particolare da chiarire se la assenza «evidente e facilmente verificabile sul piano probatorio» dei presupposti giustificativi del licenziamento sottenda non solo la acquisizione della prova ma anche il suo carattere «immediato», cioè tale da far emergere in maniera «chiara» la pretestuosità del recesso. In questo senso ciò che rileverebbe è non soltanto la emergenza probatoria ma anche la pretestuosità del motivo addotto.
Su questi dubbi la giurisprudenza sarà chiamata ad esprimersi.
Vi è ancora da segnalare che l’accertamento che consente di applicare la tutela del comma 4 dell’articolo 18 non termina al momento della verifica della illegittimità del recesso e della manifesta insussistenza del fatto; il percorso argomentativo della sentenza in esame prosegue richiedendo al giudice del merito un ulteriore esercizio del suo potere discrezionale.
La previsione testuale nel comma 4 dell’articolo 18 di una mera «possibilità» del giudice di applicare la tutela reintegratoria (anche nei casi di accertata manifesta insussistenza del fatto) comporta, argomenta il giudice di legittimità, che la manifesta insussistenza del fatto consente soltanto l’accesso «teorico» alla «restitutio in integrum» e non la applicazione automatica di tale tutela.
La definitiva scelta del regime sanzionatorio, precisa la Suprema Corte, deve essere orientata dal canone dell’articolo 2058 cod.civ., secondo cui la tutela in forma specifica può essere esclusa se risulta eccessivamente onerosa per il debitore (e, dunque, per l’imprenditore).
Il giudice è chiamato, cioè, a verificare se « la tutela reintegratoria sia al momento di adozione del provvedimento giudiziale sostanzialmente incompatibile con la struttura organizzativa medio tempore assunta dalla impresa» ( così la sentenza, in motivazione)
Il giudice di legittimità individua, dunque, nel momento finale di adozione della decisione l’intervallo temporale sottoposto all’esame del giudice del merito.
Si pone allora una delicata questione procedurale, poiché la valutazione concerne fatti storici («la consistenza della struttura organizzativa dell’impresa») avvenuti (anche) successivamente alla introduzione del giudizio (e fino al momento della decisione, nel primo grado e, sembrerebbe doversi ritenere anche nel grado di appello) .
Resta dunque da verificare come l’accertamento di questi fatti storici possa essere veicolato nel processo a fronte delle rigide preclusioni del rito del lavoro quanto alla fissazione del thema probandum ed alla articolazione delle istanze istruttorie sia in relazione alla posizione del datore di lavoro ( che dovrebbe individuarsi come parte onerata della prova della modifica organizzativa impeditiva della riassunzione) che rispetto alla posizione del lavoratore ( parte interessata alla applicazione della tutela reintegratoria) .
Una soluzione che intendesse limitare l’accertamento ai soli fatti organizzativi sopravvenuti nell’arco temporale compreso tra il licenziamento e la introduzione del giudizio, invece, oltre a non essere fedele al criterio del «momento della decisone» indicato dalla Suprema Corte si rivelerebbe di scarsa valenza pratica, in ragione dell’intervallo ravvicinato tra il licenziamento e l’esercizio della azione giudiziaria sotteso al regime della decadenza.
IL CONTENUTO DELL’OBBLIGO DEL REPECHAGE: AMBITO TERRITORIALE, SOGGETTIVO, QUALITATIVO .
-IL CRITERIO TERRITORIALE
La giurisprudenza ha da tempo risalente affermato che l'onere del datore di lavoro di dimostrare l'impossibilità di una diversa utilizzazione del lavoratore va assolto in riferimento a tutte le sedi dell'attività aziendale, essendo sufficiente la limitazione dell'offerta alla sede cui il lavoratore licenziato era addetto soltanto nel caso di preliminare rifiuto del medesimo a trasferirsi altrove (Cass. sez. lav., 10 marzo 1992 n. 2881; 3 giugno 1994, n. 5401; 23 ottobre 1996 nr. 9204; 26 ottobre 1996 nr. 9369; 16 maggio 2003, n. 7717 ).
L’ampiezza dell’ambito di ricerca di un’utile ricollocazione è chiaramente espressa da Cass. sez. lav., 15 luglio 2010, n. 16579, che ha confermato la sentenza di merito laddove aveva posto a carico del datore di lavoro l’onere di provare la impossibilità di impiegare il lavoratore sia in altre sedi in Italia che in altre sedi estere.
Tale indirizzo non affronta direttamente la questione delle modalità con le quali debba emergere il rifiuto del lavoratore alla ricollocazione presso altra sede ovvero se sia individuabile un vero e proprio onere del datore di lavoro, al fine di assolvere all’obbligo di repechage, di prospettare al lavoratore un trasferimento; tale onere sembra, tuttavia, essere un presupposto del principio di diritto affermato.
-IL CRITERIO SOGGETTIVO
La ricerca dell’utile reimpiego a carico del datore di lavoro non include, invece, la ricollocazione presso altre società appartenenti al medesimo gruppo di imprese, in conformità al consolidato principio per cui nell’ambito del rapporto di lavoro il gruppo di imprese rileva nei soli casi di artificioso frazionamento di un’unica realtà aziendale in aziende solo formalmente appartenenti a soggetti diversi .
Il principio è stato applicato dal giudice di legittimità ( Cass. civ. sez. lav. 31 maggio 2017 nr. 13809) in un caso in cui era lo stesso datore di lavoro ad invocare il collegamento economico- funzionale, assumendo di avere adempiuto all’obbligo di repechage per avere offerto al lavoratore l’ occupazione presso un’altra impresa del gruppo. L’assunto difensivo è stato disatteso sul rilievo che la ricerca deve essere compiuta all’interno della azienda e che non è utilmente invocabile dal datore di lavoro il fatto di essersi attivato presso aziende diverse.
Nell’arresto del 16 maggio 2003, n. 7717 la Suprema Corte è tornata ad escludere ogni rilievo, ai fini dell’adempimento all’obbligo di repechage, al preliminare rifiuto del lavoratore a trasferirsi in altra società del gruppo.
La pronunzia si segnala per avere fatta salva la eventualità in cui emerga la sussistenza di un unico rapporto di lavoro tra un dipendente e più datori di lavoro, tali da formare un gruppo così strettamente collegato da costituire un unico centro di imputazione di rapporti giuridici, secondo i criteri tradizionali enunciati dallo stesso giudice di legittimità.
-IL CRITERIO QUALITATIVO
Una delicata questione attiene, infine, all’ambito oggettivo delle mansioni in cui il lavoratore debba essere ricollocato; in altri termini trattasi di stabilire entro quali limiti il datore di lavoro debba attivarsi per reperire al lavoratore posizioni lavorative diverse rispetto a quella soppressa.
Nel regime dell’articolo 2103 cod.civ. vigente anteriormente all’intervento sostitutivo operato dal decreto legislativo 15 giugno 2015, n. 81 (art. 3, comma 1) si è consolidato il principio che il datore di lavoro è tenuto ad offrire al lavoratore mansioni professionalmente «equivalenti» e che, in subordine, è altresì valido il cd. patto di demansionamento.
Restava da individuare la parte su cui ricadesse l’onere di proposta del patto di demansionamento conservativo del posto di lavoro .
Alcune pronunzie della Suprema Corte hanno apertamente esteso l’ obbligo di repechage alle mansioni inferiori, individuando un dovere di iniziativa del datore di lavoro; in tali arresti trovasi affermato che è a carico del datore di lavoro l’onere di prospettare al lavoratore, anteriormente al licenziamento, la possibilità di assegnazione a mansioni inferiori compatibili con il suo bagaglio professionale e di offrire la relativa prova in giudizio; tale principio è argomentato sul rilievo che, fermo restando che l'eventuale patto di demansionamento deve essere anteriore o coevo al licenziamento, in tanto il consenso del lavoratore rispetto alla assegnazione a mansioni inferiori può essere espresso in quanto il datore di lavoro, in ottemperanza al principio di buona fede nell'esecuzione del contratto, gli abbia prospettato la possibilità di tale utilizzazione ( in termini: Cassazione civile, sez. lav., 21/12/2016, n. 26467; conf. Cassazione civile, sez. lav., 08/03/2016, n. 4509; 13 agosto 2008 n. 21579; 18 novembre 2015 n. 23698).
Il datore di lavoro che adducesse a fondamento del licenziamento la soppressione del posto di lavoro cui era addetto il lavoratore avrebbe, dunque, l'onere di provare non solo che al momento del licenziamento non sussisteva alcuna posizione di lavoro alla quale egli avrebbe potuto essere assegnato per l'espletamento di mansioni equivalenti ma anche di avergli prospettato, senza ottenerne il consenso, la possibilità di un reimpiego in mansioni inferiori eventualmente disponibili e rientranti nel suo bagaglio professionale.
In altre pronunce di legittimità si trova invece più genericamente affermato —senza una aperta presa di posizione circa la esistenza di un obbligo del datore di lavoro di proporre le mansioni inferiori— che il presupposto di fatto affinchè l’obbligo del repechage operi anche rispetto a mansioni inferiori è che il lavoratore le abbia accettate ossia che il cd. il patto di demansionamento sia intervenuto prima del licenziamento (mentre non rileverebbe un consenso del lavoratore alla assegnazione di mansioni inferiori manifestato successivamente al licenziamento e non accettato dal datore di lavoro; così Cassazione civile, sez. lav., 18/03/2009, n. 6552) o ancora che il patto di demansionamento ai soli fini di evitare un licenziamento è valido non solo ove sia promosso dalla richiesta del lavoratore - il quale deve manifestare il suo consenso non affetto da vizi della volontà - ma anche allorquando l'iniziativa sia stata presa dal datore di lavoro, purchè vi sia il consenso del lavoratore e sussistano le condizioni che avrebbero legittimato il licenziamento in mancanza dell'accordo (Cassazione civile, sez. lav., 28/10/2015, n. 22029; Cass. n. 11395/14; Cass. n. 25074/13; Cass. n. 2375/05)
Il nuovo testo dell’articolo 2103 cod.civ., vigente dal 25 giugno 2015, avendo esteso lo ius variandi del datore di lavoro a tutte le mansioni ricomprese nel medesimo livello contrattuale, sembra comportare un ampliamento negli stessi termini dell’obbligo del repechage.
Essendo stato del tutto espunto dal testo codicistico il parametro di «equivalenza» delle mansioni, per i licenziamenti successivi al 24 giugno 2015, il riferimento all’obbligo di repechage verso mansioni «equivalenti» resta privo di un sostegno normativo .
Deve inoltre procedersi ad armonizzare la tradizionale giurisprudenza formatasi sul patto di demansionamento con la previsione del novellato articolo 2103 cod.civ., che codifica per la prima volta, al comma due, la possibilità del datore di lavoro di assegnare il lavoratore a mansioni appartenenti al livello di inquadramento inferiore «in caso di modifica degli assetti organizzativi aziendali che incide sulla posizione del lavoratore», ponendo un doppio limite: la appartenenza delle mansioni inferiori alla medesima categoria legale; il diritto del lavoratore alla conservazione del livello di inquadramento e del trattamento retributivo in godimento .
La previsione del comma due sembrerebbe, tuttavia, riferita alla ipotesi ordinaria di modifica dei contenuti della prestazione di lavoro ( alla prestazione di lavoro è intitolata la rubrica dell’articolo 2103 cod.civ.) e non anche al caso estremo in cui la assegnazione alle mansioni inferiori costituisca l’unica misura conservativa del rapporto di lavoro, in alternativa al licenziamento.
La ipotesi del tradizionale patto di demansionamento sembra piuttosto da sussumere nella disciplina del comma 6 dell’articolo 2103 cod.civ., laddove prevede la stipula di accordi individuali tra il datore di lavoro ed il lavoratore— nelle sedi assistite di cui all’articolo 2113 o avanti alle commissioni di certificazione— nell’interesse del lavoratore alla conservazione dell’occupazione, con possibilità in questo caso di modifica anche della categoria legale oltre che «del livello di inquadramento e della relativa retribuzione».
Trattasi allora di stabilire se il datore di lavoro abbia o meno, onde adempiere all’ obbligo del repechage, l’onere di proporre al lavoratore la stipula di tali accordi; ove si propendesse per la soluzione affermativa, in continuità con la sopracitata giurisprudenza relativa all’obbligo di proposta delle mansioni inferiori, resterebbe comunque aperta una ulteriore questione.
Resterebbero, infatti, da individuare i criteri di accertamento dell’adempimento/inadempimento all’obbligo di reimpiego ove nelle sedi protette non si raggiunga l’accordo relativamente una delle modifiche proposte dal datore di lavoro astrattamente consentite dall’art. 2103 cod.civ. (categoria, livello e retribuzione).
In primo luogo, sembrerebbe potersi ricavare dall’articolo 36 Cost. la inderogabilità della retribuzione contrattuale relativa al livello di inquadramento concordato; in questo senso, la possibilità di modifica della retribuzione prevista dal richiamato comma 6 resterebbe limitata dalla equità costituzionale, con impossibilità di negoziare al ribasso la retribuzione del livello concordato.
Inoltre, il criterio generale della correttezza e buona fede oggettiva pare imporre un criterio di gradualità della proposta di mansioni inferiori, dovendo essere offerte tra quelle disponibili in azienda le mansioni inferiori più prossime al precedente livello riconosciuto.
Altra modifica qualitativa delle condizioni di lavoro riguarda la possibilità di trasformazione dell’orario; in altri termini trattasi di stabilire se il datore di lavoro possa licenziare un lavoratore full time per assumerne un altro part time.
La soluzione negativa appare imposta dalla logica del licenziamento come extrema ratio, pur con le precisazioni derivanti dalla nuova definizione della ragione organizzativa enunciata dalla giurisprudenza del 2016 .
Il datore di lavoro può sopprimere una posizione di lavoro anche semplicemente all’esito di un accorpamento delle relative mansioni a quelle esercitate da altri dipendenti in servizio; tuttavia in caso di soppressione parziale il licenziamento del lavoratore la cui posizione è stata parzialmente soppressa sarebbe giustificato solo in caso di indisponibilità del medesimo a svolgere l'attività lavorativa residuata con rapporto part-time.
IL PROCESSO: ONERI DI ALLEGAZIONE E DI PROVA DEL REPECHAGE
Secondo un orientamento tradizionale della giurisprudenza di legittimità, l'onere di provare di avere adempiuto all'obbligo di ricollocazione a carico del datore di lavoro presupponeva il preventivo assolvimento, da parte del lavoratore, dell'onere di dedurre la possibilità del repechage anche attraverso l'allegazione dei posti concretamente disponibili (in termini: Cass. 10 maggio 2016, n. 9467; Cass. 8 agosto 2015, n. 16512; Cass. 15 luglio 2015, n. 14807; Cass. 4 giugno 2015, n. 11547; Cass. 3 marzo 2014, n. 4920; Cass. 18 settembre 2013, n. 24037; Cass. 12 settembre 2013, n. 20918; Cass. 14 settembre 2012, n. 15477).
Da tale indirizzo si è dichiaratamente discostata Cass. 22 marzo 2016 nr. 5592, seguita da numerose ulteriori pronunce conformi ( Cass. 11.10.2016 nr. 20436; 22 novembre 2017 nr. 27792; 19.4.2017 nr. 9869; 5 gennaio 2017 nr. 160 ).
Appare, dunque, consolidato alla attualità il principio secondo cui il lavoratore non ha l’onere di allegare i posti di lavoro in cui avrebbe potuto essere utilmente impiegato per evitare il licenziamento.
Da ultimo, nell’arresto di Cass. 23 maggio 2018 nr. 12794 si precisa che seppure non sussiste un onere del lavoratore di indicare quali siano i posti disponibili in azienda— gravando la prova dell'impossibilità di ricollocamento sul datore di lavoro— è altresì vero che, una volta accertata, anche attraverso presunzioni gravi, precise e concordanti, tale impossibilità, la mancanza di allegazioni del lavoratore circa l'esistenza di una posizione lavorativa disponibile, corrobora il quadro probatorio.
Resta da precisare se il lavoratore, pur non essendo onerato ad indicare i posti disponibili, debba comunque allegare nella domanda introduttiva del giudizio la avvenuta violazione dell’obbligo di repechage, investendo il giudice del relativo accertamento ovvero se si tratti di un accertamento che il giudice deve compiere anche d’ufficio.
Il giudice di legittimità nell’arresto di Cass. 22 marzo 2016 nr. 5592 (cui si deve il revirement circa gli oneri di allegazione) afferma che : « la domanda del lavoratore è correttamente individuata, a norma dell'art. 414 c.p.c., nn. 3 e 4, da un petitum di impugnazione del licenziamento per illegittimità e da una causa petendi di inesistenza del giustificato motivo così come intimato dal datore di lavoro, cui incombe pertanto la prova, secondo la previsione della L. n. 604 del 1966, art. 5, della sua ricorrenza in tutti gli elementi costitutivi, in essi compresa l'impossibilità di repechage..»
Si ritiene,cioè, sufficiente che il lavoratore alleghi «l'illegittimo rifiuto di continuare a farlo lavorare oppostogli dal datore di lavoro, in assenza di giusta causa o giustificato motivo»; in conseguenza di tale allegazione sorge l’onere del datore di lavoro di dimostrare il «fatto estintivo» rappresentato dal giustificato motivo oggettivo, nel quale «rientra pure l'impossibilità del cd. repechage» (sentenza nr. 5592/2016 sopra citata) .
Di tale indirizzo sono espressione, tra le altre, Cass. 11 ottobre 2016 nr. 20436;Cass 13 giugno 2016 nr. 12101; Cassazione civile, sez. lav., 22 novembre 2017, n. 27792 .
La conclusione è del resto coerente con quanto affermato dalla Suprema Corte in relazione al licenziamento per giusta causa nel motivare la necessità, ripetutamente affermata, che il giudice del merito provveda— anche in mancanza di allegazione del lavoratore — a verificare l’ eventuale difetto di proporzionalità tra illecito disciplinare e licenziamento. La Corte ha al riguardo osservato che l'accertamento deve essere svolto anche d'ufficio poichè attiene alla stessa sussumibilità del fatto controverso sotto il concetto di giusta causa o giustificato motivo di licenziamento e che diversamente, risulterebbe interrotta la sequenza logica "fatto- norma- effetto giuridico", attraverso la quale si afferma l'esistenza d'un fatto sussumibile sotto una norma che ad esso ricolleghi un dato effetto giuridico (Cassazione civile, sez. lav., 26/05/2016, n. 10950; Cass. n. 14670/15; Cass. n. 4572/13; Cass. n. 16583/12; Cass. 29.7.2011 n. 16808; Cass. n. 27196/06; Cass. 29.10.98 n. 10832; Cass. 10.7.98 n. 6769).