[Riflessioni a caldo di un costituzionalista sulla sentenza n. 194 del 2018]
Da più di tre lustri ci siamo inoltrati nel secolo successivo a quello che è stato felicemente denominato “il secolo del Lavoro” (copyright di Aris Accornero): quello che comincia dalla non incriminazione dello sciopero (Zanardelli), dall’appeasement Giolitti-Turati e dalla pionieristica legislazione a tutela dei lavoratori del primo decennio del ‘900. Oggi, sempiterne crisi e nuove difficili problematiche, legate da un lato alla piaga della disoccupazione, in specie giovanile, e dall’altro all’irruzione di forme disparate di lavoro c.d. autonomo (i ciclisti di Foodora, ad esempio) si parano davanti a noi e al prototipo di rapporti contrattuali ai quali eravamo abituati: a tempo intedeterminato, con il loro punto di forza nella “stabilità reale” del rapporto/contratto di lavoro (copyright di Mario Napoli), sottoposto a regole tendenzialmente uniformi, nonché sindacalmente protette.
In questo panorama, quantomeno variegato, rispetto al quale le norme giornalisticamente denominate del Jobs Act hanno inciso pesantemente, una recente sentenza della Corte costituzionale (n. 194 del 2018) si sforza di piantare nella laguna dei rapporti di lavoro del capitalismo vittorioso una nuova fila di robuste palizzate sulle quali edificare per gli abitanti del XXI secolo, inseguiti dalla post-modernità, un ricetto, una fondamenta e magari una salizada, nonché, a Dio piacendo, un Palazzo o almeno la nobile facciata di questo. E la Corte talvolta ci riesce, come adesso brevemente si cercherà di dire.
Non sono un esperto di diritto del lavoro ed anche per questo non entrerò nei dettagli di un ragionamento che, fra gli altri, ha il merito di essere chiarissimo nella sua argomentata consequenzialità. Altri lo faranno già in questo primo commento di un prodotto giuridico qualificato, sul quale fioccheranno molte letture interpretative: sia favorevoli che critiche.
Si potrà dissentire, se mai, dall’impostazione generale o addirittura sull’ammissibilità della questione di legittimità costituzionale, avendo riguardo alla filosofia generale della sentenza, ovvero, per almeno un punto, sull’efficacia de iure di disposizioni tratte dalla Carta sociale europea (art. 24), fatte entrare attraverso l’operatività dell’art. 117 primo comma della Costituzione.
Eppure, una volta che ci si sia seduti al posto del passeggero al quale viene, via via, mostrata e spiegata la strada e il paesaggio che gli si para davanti, il termine del viaggio sarà quello lì: una sentenza manipolativa di accoglimento parziale – denominata anche ablativa – “nella parte in cui”… ecc. Una sentenza sicuramente “pro labour” come si usava dire una volta.
Dopo una breve descrizione dei punti di forza dell’argomentazione concentrerò il mio commento su ciò che, a mio avviso, sta a monte e su ciò che deve stare a valle della sentenza medesima.
2. Come viene bene anticipato, in chiave pedagogica, dall’ampio comunicato della Corte datato 8 novembre 2018, la sentenza n. 194 ha pronunciato l’illegittimità costituzionale del criterio di determinazione dell’indennità spettante ai lavoratori ingiustamente licenziati, così come introdotto dal d.lgs 23/2015, in materia di contratto a tempo indeterminato a tutele crescenti.
La questione non riguardava il quantum del risarcimento (tant’è che è stato ritenuto irrilevante il recente aumento delle soglie minima e massima operato dal c.d. “decreto dignità”), bensì il criterio di calcolo. Tale criterio – o meccanismo – era infatti unicamente ancorato (in misura fissa) all’anzianità di servizio e si presentava come rigido e uniforme, venendo pertanto a costituire una liquidazione standardizzata e forfettaria del danno. Ciò non consentiva una idonea personalizzazione dell’indennità in relazione al pregiudizio concretamente subìto, il quale – come dimostra l’esperienza – può dipendere da ulteriori, molteplici, fattori, al di là dell’anzianità di servizio: ad es. il numero dei dipendenti occupati, le dimensioni dell’impresa, il comportamento e le condizioni delle parti.
Il criterio fisso e rigido è stato, anzitutto, censurato per contrasto con l’art. 3 sotto il profilo dell’eguaglianza, perché si presta a trattare in modo ingiustificatamente omogeneo situazioni differenti. Ulteriore contrasto è stato ravvisato con l’art. 3 sotto il profilo della ragionevolezza, in quanto non offre adeguato ristoro del pregiudizio subìto e non costituisce valido strumento di dissuasione per il datore di lavoro dal licenziare in modo illegittimo. Di talché si sono ritenuti violati anche gli artt. 4, c. 1 (diritto al lavoro) e 35, c. 1 (tutela del lavoro). Inoltre la Corte – per il tramite del sindacato su norma interposta ex artt. 76 e 117, c. 1 Cost. – ha dichiarato la violazione della Carta sociale europea (fonte sovranazionale adottata nell’ambito del Consiglio d’Europa), che all’art. 24 riconosce il diritto a un “congruo indennizzo” per i lavoratori licenziati senza valido motivo.
3. Mi sforzo, adesso di risalire alle scaturigini della sentenza in esame andando alla ricerca dell’ambiente culturale ed ideologico nel quale essa è maturata; ciò almeno in una mia personale prospettazione. Per far ciò mi varrò di alcune spie linguistiche, della presenza cioè di alcuni lemmi e concetti che illuminano il ragionamento. Presto ci avvedremo che si tratta di princìpi/valori costituzionali, ai quali viene (ri)dato un posto e un ruolo eminente.
Il “diritto al lavoro” è già di per sé collocato tra i Princìpi fondamentali, venendo contrassegnato numericamente da una quarta posizione (se non è azzardato fare classificazioni ordinatorie tra i Princìpi…), dopo quello democratico, personalista-comunitario e di uguaglianza.
È a tutti noto che l’aggettivo “effettivo” – relativo al tipo di partecipazione dei cittadini in quanto “lavoratori” all’“organizzazione politica, economica e sociale del Paese” – ricorre sia nell’art. 3 che nell’art. 4, là dove la Repubblica si impegna a promuovere le condizioni che rendono “effettivo” il “diritto al lavoro”.
Allo stesso modo la forma verbale che sostiene i diritti inviolabili dell’uomo – rectius: della persona ai sensi dell’art. 2 – è la stessa di cui all’art. 4. Cosicché sia i diritti inviolabili senza numerazione, garantiti dall’art. 2, sia quello esplicito “al lavoro” (di cui all’art. 4) vengono “riconosciuti”. Vuol dire che tali diritti pre-esistono alla loro fondazione statuale e mai potrebbero essere tolti perché sono, per così dire, scritti nel cuore degli uomini e delle cose, prima che sui testi giuridici. La forma verbale prescelta appare, inoltre, “significativa dell’appartenenza del lavoro all’uomo”, in quanto elemento del “nucleo categoriale costitutivo della persona” (così Carmela Salazar già in un suo scritto del 1995). E vedremo che l’immedesimarsi della persona nel lavoro (e viceversa) sarà uno dei fondamenti centrali della sentenza.
Va da sé che, se non vogliamo rendere pleonastico l’inciso dell’art. 1, quel “fondata sul lavoro” che qualifica la Repubblica dall’inizio del tempo costituzionale (prima non era così…) ha anch’esso una sua presenza necessaria ed una sua pregnanza.
Tirando le somme su questo punto: tra i princìpi e i valori costituzionali dei primi quattro articoli della Costituzione sembra quasi instaurarsi una “Sacra Conversazione”, come quelle che sono ben rappresentate dai pittori della nostra grande tradizione: dal Lorenzetti di Assisi alla Pala di Brera di Piero della Francesca. Ma se così fosse, alla laica conversazione, come oggi potremmo chiamarla, dovrebbe partecipare anche il principio/valore che sta sul frontone del Titolo III: quello complessivamente ed articolatamente dedicato a tutti i rapporti economici, il quale recita al suo art. 35: “La Repubblica tutela il lavoro in tutte le sue forme e applicazioni”.
La sentenza in esame utilizza ampiamente questi concetti, come si è brevemente accennato sopra, giustificando, a mio parere, il titolo apparentemente enfatico dato a questa Nota, che si ricava letteralmente dal punto 9 del Considerato in diritto.
4. Ma, prima di passare velocemente in rassegna tali antecedenti culturali e l’ambiente costituzionale nel quale essi si situano, va chiarito che la sentenza – e il driver volitivo che spinge avanti il ragionamento – è molto attenta a non cadere nella trappola del suprematismo ideologico facendo propri questioni e parametri, quali emergono dall’ordinanza di rimessione, che, se accolti, avrebbero prodotto distorsioni ed errori. Così, con chirurgica precisione, il campo viene sbarazzato dalle questioni recate dagli art. 2 e 4 del decreto n. 23, mentre dell’art. 3 (che risulterà poi rilevante per la fattispecie dedotta in giudizio) vengono espunti – e dichiarati inammissibili – i commi 2 e 3 e preso in considerazione, per dichiararne l’illegittimità, solo il primo comma: quello relativo al pagamento da parte del datore di lavoro di una certa indennità che il legislatore stabilisce in modo fisso e rigido tra 4 e 24 mensilità, poi salite rispettivamente a 6 e 36 grazie alla recente novella del c.d. “decreto dignità”. Sarà proprio questo “meccanismo” che la sentenza si studierà di estromettere dalla Sacra (o civile) conversazione tra princìpi e valori costituzionali, alla quale ho prima accennato in forma di metafora.
Con mossa sicura la Corte scansa il problema dell’eventuale irragionevolezza del trattamento, chiaramente in pejus, derivante ai lavoratori assunti dopo l’entrata in vigore del decreto n. 23/2015 e lo nega, consentendo in ciò con la discrezionalità del legislatore, volta a favorire, anche per questa via, una più agevole instaurazione di rapporti di lavoro a tempo indeterminato. Tale assetto, dunque, non viola per sé il principio di eguaglianza né il canone di ragionevolezza.
5. È significativo, poi che la prima sentenza della Corte citata nella decisione in esame sia quella – storica e decisamente aperturista al nuovo – nella quale il diritto al lavoro di cui all’art. 4, veniva designato come “fondamentale diritto di libertà della persona umana”. Il che comportava già allora l’obbligo del legislatore di “disciplinare i rapporti di lavoro a tempo indeterminato circondando di doverose garanzie e di opportune temperamenti i casi in cui si rende necessario dar luogo a licenziamenti” (sentenza n. 45 del 1965). Ed il legislatore, con la legge n. 604 del 1966, accolse l’indicazione, sancendo che era illegittimo quel licenziamento che non fosse sorretto da una “giusta causa” o da un “giustificato motivo”.
Tutti gli Autori che si sono occupati della nostra materia cominciano la loro trafila interpretativa e argomentativa proprio da lì o, almeno, dalla trama sottostante; tra i costituzionalisti si possono citare, a memoria: Mortati (Il lavoro nella costituzione, 1954), Luciani (Il lavoro nella costituzione, 2007), Carlassare (Nel segno della Costituzione, 2012), Zagrebelsky (Fondata sul lavoro, 2013) , ecc.
Tra i civilisti e lavoristi tutte le grandi firme si sono cimentate nell’opera: Mengoni, Mancini, Giugni, Romagnoli, Treu, Napoli, Loy, Giubboni, Perulli, Orlandini, Speziale, Ferrante ecc..
Gli uni e gli altri mettono in luce la centralità della “persona del lavoratore” e, come afferma la sentenza nel suo cuore fondativo e argomentativo (punto 11 del Considerato in diritto): “nel momento traumatico della sua espulsione dal lavoro, la tutela risarcitoria non può essere ancorata all’unico parametro dell’anzianità di servizio.” Essa va dunque affidata “all’interno di un sistema equilibrato di tutele, bilanciato con i valori dell’impresa, alla discrezionalità del giudice”. Ciò che introduce all’esigenza di personalizzazione del danno, che è anch’essa imposta dal principio di eguaglianza e dal canone di ragionevolezza.
Non c’è dubbio che la sentenza in esame valorizzi il ruolo della giurisdizione. A tale proposito, tuttavia, non posso concludere queste impressioni a prima lettura se non con la speranza (e il timore) che la funzione giurisdizionale, e i giudici che quotidianamente la impersonano, si dimostrino degni del riconoscimento ricevuto e capaci di assolvere il compito che viene loro richiesto, nonché della fiducia che la società in loro ripone, anche a valle e per effetto della recentissima decisione del giudice delle leggi.
Dal canto suo al legislatore incombe di rimetter mano alla normazione su indennità e anzianità lavorativa alla luce dei princìpi, valori e parametri che la Corte gli ha, adesso, ulteriormente, indicato.