Testo Integrale con note e bibliografia
La Corte Costituzionale ha depositato, in data 9.11.2018, le motivazioni sottese alla sentenza n.194/2018, emessa a seguito dell’ordinanza di rimessione del Tribunale di Roma con cui venivano sollevate questioni di legittimità costituzionale dell’art. 1 comma 7 lettera c) della legge 10.12.2014 n. 183, e degli artt. 2,3 e 4 del D.lgs. 4.03.2015 n.23 (attuativo della delega di cui all’art. 7 lettera c) cit.), già tra l’altro paventate da parte della dottrina all’epoca della emanazione del Dlgs. cit.
Prima di passare ad una disamina della disposizione normativa oggetto della pronuncia di illegittimità costituzionale è opportuno evidenziare che Corte ha ritenuto inammissibile – per la genericità dell’ordinanza di rimessione sui principi e i criteri direttivi ritenuti meritevoli di censura - la questione di legittimità costituzionale dell’art. 1 comma 7 lettera c) della legge 183/2014 ( secondo cui al dichiarato «scopo di rafforzare le opportunità di ingresso nel mondo del lavoro da parte di coloro che sono in cerca di occupazione», ha delegato il Governo ad adottare uno o più decreti legislativi, «in coerenza con la regolazione dell’Unione europea e le convenzioni internazionali», nel rispetto dei principi e criteri direttivi della «previsione, per le nuove assunzioni, del contratto a tempo indeterminato a tutele crescenti in relazione all’anzianità di servizio, escludendo per i licenziamenti economici la possibilità della reintegrazione del lavoratore nel posto di lavoro, prevedendo un indennizzo economico certo e crescente con l’anzianità di servizio e limitando il diritto alla reintegrazione ai licenziamenti nulli e discriminatori e a specifiche fattispecie di licenziamento disciplinare ingiustificato, nonché prevedendo termini certi per l’impugnazione del licenziamento»).
Ha dichiarato altresì, inammissibili per difetto di rilevanza le questioni relative agli artt. 2, 3 commi 2 e 3, 4 del D.lgs. 23/2015, così escludendo la possibilità di un ripristino – a seguito dell’accoglimento della ordinanza romana – del sistema sanzionatorio previgente
Ha, pertanto, circoscritto il giudizio di legittimità costituzionale al solo art. 3 comma 1 del D.lgs. 23/2015 secondo cui ““1. Salvo quanto disposto dal comma 2, nei casi in cui risulta accertato che non ricorrono gli estremi del licenziamento per giustificato motivo oggettivo o per giustificato motivo soggettivo o giusta causa, il giudice dichiara estinto il rapporto di lavoro alla data del licenziamento e condanna il datore di lavoro al pagamento di un'indennità non assoggettata a contribuzione previdenziale di importo pari a due mensilità dell'ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del trattamento di fine rapporto per ogni anno di servizio, in misura comunque non inferiore a quattro e non superiore a ventiquattro mensilità”.
La Corte ha respinto le questioni di illegittimità della citata disposizione con riferimento agli artt. 76 e 117 primo comma Cost. per il tramite dei parametri interposti dell’art. 10 della Convenzione OIL n. 158 del 1982 sul licenziamento e 30 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea ( secondo cui ogni lavoratore ha il diritto alla tutela contro ogni licenziamento ingiustificato, conformemente al diritto comunitario e alle legislazioni e prassi nazionali), argomentando, rispettivamente, sulla non vincolatività della prima siccome non ratificata dall’Italia e, in ordine alla seconda, sulla autonomia della disposizione censurata rispetto alle norme del diritto dell’Unione, non avendo quest’ultima esercitato nessuna competenza e/o direttiva in tema di licenziamenti individuali.
Ha escluso, altresì, la contrarietà dell’art. 3 comma 1 del D.lgs. n. 23 del 2015 rispetto al principio di eguaglianza, sollevata dal giudice remittente in virtù della tutela deteriore da essa riservata ai lavoratori assunti a decorrere dal 7.03.2015 rispetto a quelli assunti, in epoca anteriore, anche nella stessa azienda.
La Corte – pur prendendo atto della correttezza della prospettazione di fatto: ovvero che la tutela prevista dal Jobs Act era (ed è) in effetti deteriore a quella precedentemente in vigore – ritiene che la delimitazione della sfera di applicazione ratione temporis di normative che si succedono nel tempo sono frutto di scelte di politica normativa che “non contrastano, di per sé, con il principio di eguaglianza, poiché il fluire del tempo può costituire un valido elemento di diversificazione delle situazioni giuridiche (ordinanze n. 25 del 2012, n. 224 del 2011, n. 61 del 2010, n. 170 del 2009, n. 212 e n. 77 del 2008, sentenza n. 254 del 2014, punto 3. del Considerato in diritto)” .
Secondo il Giudice delle leggi “il legislatore, nel rispetto del canone di ragionevolezza, è libero quindi di delimitare la sfera temporale di applicazione delle norme ( ..) ( cfr sentenze n. 273 del 2011, punto 4.2. del Considerato in diritto, n. 94 del 2009, punto 7.2. del Considerato in diritto, e n. 104 del 2018, punto 7.1. del Considerato in diritto)”.
La motivazione, in parte qua, della sentenza n.194/2018 esula, a parere della scrivente, dalle censure formulate nella ordinanza di rimessione - che pure segnano il confine entro il quale la Corte Costituzionale sarebbe chiamata a pronunciarsi – considerato che la norma scrutinata non fa riferimento alcuno alla data di instaurazione del rapporto di lavoro, essendo il campo di applicazione temporale della disciplina dettato dall’art. 1 del cit. D.lgs. 23/2015, non oggetto della ordinanza di rimessione al Giudice delle Leggi.
Ad ogni buon conto le motivazioni espresse nella sentenza 194/2018 assumono un particolare valore siccome indicative di un sostanziale “sdoganamento” – in termini di legittimità - della disciplina normativa dettata dal cd. Jobs act ancorché deteriore, in termini di tutela, rispetto a quella dettata dalla legge 92/2012 (cd. Legge Fornero), salvo che per la parte della disposizione oggetto della declaratoria di illegittimità; cosi sancendo il venir meno di quello che è stata definita “la fine dell’anomalia italiana, nel panorama internazionale, costituita dal nostro vecchio regime del job property fondato sull’articolo 18 nella sua prima edizione 1970”
Sin qui il principio del Giudice delle leggi pare condivisibile, non potendo porsi in discussione la discrezionalità del legislatore di modificare - così come del resto fatto già con la legge 92/2012 (art. 1 comma 42 lettera a)) rispetto all’originaria norma prevista dall’art. 18 legge 300/1970 – la disciplina giuridica di un istituto.
Ma per meglio comprendere la portata, ed i limiti, della affermazione della Corte sulla conformità della nuova disciplina – ed in particolare dell’art. 3 comma 1 del D.lgs. 23/2015 – al principio di uguaglianza è bene evidenziare che – sulla base delle indicazioni della ordinanza di rimessione – tale valutazione è relativa “non al regime di tutela dettato (per i nuovi assunti, id est con decorrenza 7.03.2015) dal D.lgs. 23/2015, quanto piuttosto al criterio di applicazione temporale di tale regime” (pag. 29 della sentenza 194/2018).
In pratica si ritiene conforme ai principi costituzionali la applicazione, nella stessa azienda, di diversi regimi sanzionatori a secondo della data di instaurazione del rapporto di lavoro.
Ma, pur volendo seguire il ragionamento del Giudice delle Leggi, è di tutta evidenza che la sentenza della Corte non affronta e lascia, quindi, ipoteticamente aperta, la questione di legittimità costituzionale della disciplina del Jobs act nella ipotesi di licenziamenti plurimi fondati sulla medesima causale, rispetto ai quali si realizza una diretta violazione del principio di uguaglianza.
Invero - pur ammettendosi che il mutamento delle condizioni socio –economiche di un Paese possa giustificare la modifica normativa di un istituto in relazione al verificarsi temporale del fatto giuridico (nel caso in esame il licenziamento illegittimo) che si intende disciplinare - priva di ragionevolezza sarebbe una diversificazione di tutela dei lavoratori destinatari di un recesso – fondato sulla medesima causale - a secondo della data di instaurazione del rapporto di lavoro.
Differenziazione che non potrebbe trovare certo la sua ragion d’essere nelle finalità della legge delega posta a fondamento del D.lgs. 23/2015 – ovvero di “rafforzare le opportunità di ingresso nel mondo del lavoro da parte di coloro che sono in cerca di occupazione” – non apparendo la stessa idonea a giustificare, in termini di bilanciamento di interessi, l’esigenza di un trattamento uguale per fattispecie fattuali del tutto sovrapponibili
Profilo di illegittimità che, a parere della scrivente, il legislatore potrebbe superare o ripristinando il regime di tutele previsto dalla legge 92/2012 o, una volta esclusa la copertura costituzionale della reintegra nel posto di lavoro, estendendo il meccanismo sanzionatorio previsto dal Jobs Act – rimodulato sulla base dei principi di cui alla sentenza n. 194/2018 - ai lavoratori assunti prima e dopo il 7.03.2015.
Le argomentazioni richiamate nella sentenza 194/2018 potrebbero essere, in sintesi, colte dal legislatore per un intervento nella materia dei licenziamenti illegittimi più audace di quello effettuato nel D.lgs. 23/2015, ovvero di dettare una disciplinare sanzionatoria uniforme – ovviamente applicabile ai fatti illeciti posti in essere in epoca successiva alla sua entrata in vigore, nei limiti delineati dal Giudice delle Leggi - a prescindere dalla data di assunzione del lavoratore.
Intervento normativo che, probabilmente, non tarderà ad arrivare considerati gli effetti conseguenti alla sentenza n. 194/2018 che nel dichiarare la illegittimità costituzionale dell’art. 3 comma 1 del D.lgs. 23/2015 (sia nel testo originario sia nel testo modificato dall’art. 3 comma 1 del D.l.12.07.2018 convertito nella legge 9.08.2018 n. 96) – limitatamente alle parole “di importo pari a due mensilità dell’ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del trattamento di fine rapporto per ogni anno di servizio” – ha modificato le finalità della stessa.
Ma prima di passare ad una disamina degli effetti della pronuncia è utile sintetizzare le motivazioni poste a fondamento della declaratoria di illegittimità, che contengono affermazioni di valenza fondamentale del nostro sistema di garanzie e tutele del lavoro, da cui non potrà prescindersi nella disciplina della materia dei licenziamenti.
Trattasi, in particolare, del riconoscimento secondo cui : «il diritto al lavoro» (art. 4, primo comma, Cost.), affiancato alla «tutela» del lavoro» «in tutte le sue forme ed applicazioni» (art. 35, primo comma, Cost.), si sostanzia nel riconoscere che i limiti posti al potere di recesso del datore di lavoro correggono un disequilibrio di fatto esistente nel contratto di lavoro”.; ed ancora che “il forte coinvolgimento della persona umana – a differenza di quanto accade in altri rapporti di durata – qualifica il diritto al lavoro come diritto fondamentale, cui il legislatore deve guardare per apprestare specifiche tutele”, concernenti la tutela del lavoratore nel caso di licenziamento illegittimo.
La Corte - pur riconoscendo che la tutela dal recesso ingiustificato è affidata alla discrezionalità del legislatore ordinario, quanto alla scelta dei tempi e dei modi, e che è possibile stabilire un meccanismo sanzionatorio anche solo risarcitorio- monetario – esclude che “nel momento traumatico della sua espulsione dal lavoro” la tutela risarcitoria possa essere ancorata all’unico parametro della anzianità di servizio; sia in considerazione della inadeguatezza della stessa nei casi (da essa ratione temporis disciplinati) di limitata anzianità lavorativa che, vieppiù, per il venir meno della funzione dissuasiva nei confronti del datore di lavoro.
In sintesi il valore fondamentale riconosciuto al diritto al lavoro, anche come forma di pieno sviluppo della personalità umana (art. 4 e 35 Cost), la necessità di adeguatezza e dissuasività della misura risarcitoria (art. 3 Cost. e 76 e 117 primo comma della Cost. in relazione all’art. 24 della Carta Sociale europea), sono i parametri che hanno condotto alla declaratoria di illegittimità del cit. art. 3 comma 1 nella parte in cui prevede un meccanismo risarcitorio legato alla sola anzianità di servizio.
Oggetto della censura di illegittimità è proprio il meccanismo (automatico) di determinazione del danno, che ha indotto la Consulta a ritenere irrilevante, quale ius supeveniens, l’innalzamento della misura sia minima che massima dell’indennizzo previsto dal cit. art. 3 comma 1 (in virtù del D.lgs. 96/2018) rispettivamente da 4 a 6 mensilità, e da 24 a 36 mensilità.
Il passaggio motivazionale della sentenza più delicato – anche nell’ottica di un intervento legislativo in materia – è quello relativo alla ritenuta violazione dell’art. 3 della Costituzione siccome fondato sulla esigenza di personalizzazione del danno subita dal lavoratore, che il Giudice delle leggi ritiene di assegnare alla discrezionalità valutativa del giudice chiamato a dirimere la controversia “entro i confini tracciati dal legislatore per garantire una calibrata modulazione del risarcimento dovuto, entro una soglia minima e una massima” (pag. 37 della sentenza).
La Corte sembra, pertanto, voler sottolineare la impossibilità, per il legislatore, di predeterminare il costo del licenziamento illegittimo - sia pure con la indicazione di una soglia minima e massima – essendo, comunque, necessario assicurare al giudice una valutazione discrezionale del caso concreto ; valorizzando, pertanto, il ruolo della giurisdizione, in netto contrasto con la tendenza e la voluntas del legislatore del 2015.
La pronuncia della Corte rientra tra le sentenze cd. additive - siccome declaratoria di illegittimità parziale testuale, con conseguente eliminazione della norma non conforme a Costituzione, attraverso la riduzione del testo della disposizione – ed ha, in concreto, un effetto fortemente manipolativo della norma censurata .
Infatti, effetto principale della sentenza n. 194/2018, è di riaffidare al Giudice il compito di “personalizzare" la misura dell’indennità risarcitoria fra il minimo di 6 ed un massimo di 36 mensilità; specificando la Corte che - nel rispetto dei limiti, minimo e massimo, dell’intervallo in cui va quantificata l’indennità spettante al lavoratore illegittimamente licenziato - il giudice dovrà tenere di conto non solo dell’anzianità di servizio ma anche di altri criteri, desumibili in chiave sistematica dalla evoluzione della disciplina limitativa dei licenziamenti (numero dei dipendenti occupati, dimensioni dell’attività economica, comportamento e condizioni delle parti).
Ed, inoltre, quale ulteriore effetto dello ius superveniens vi è quello dell’innalzamento della soglia massima di risarcimento riconoscibile nei casi di licenziamento per giustificato motivo oggettivo o soggettivo per i quali era già esclusa dalla normativa precedente la possibilità di reintegra (art. 18 comma 5 e comma 7 parte seconda della novellata legge n. 300/1970, che prevedono una indennità risarcitoria tra 12 e 24 mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto).
Tenuto conto degli effetti della pronuncia del Giudice delle leggi - che ha prodotto un aumento del risarcimento previsto dalla pregressa normativa nei casi di licenziamento illegittimo (economico o per giustificato motivo soggettivo, non manifestamente insussistente), rimettendo, comunque, alla discrezionalità del giudice la determinazione del quantum – è venuta meno quella esigenza di certezza del diritto, attraverso una preventiva valutazione del “costo” del recesso, che costituiva una delle principali finalità della disciplina complessiva del Jobs Act.
In attesa di un prevedibile (ed auspicabile) intervento del legislatore in materia, pare utile soffermarsi sui contenuti e sui limiti di una nuova disciplina in materia di licenziamenti che – sulla base dei principi affermati dal giudice delle Leggi nella sentenza oggetto del presente commento – possa coniugare le finalità di certezza del diritto con quelle di tutela del lavoro, non potendo invocarsi, quale limite costituzionale di bilanciamento, la libertà economica di impresa che, ai sensi dell’art. 41 della Cost., non pare poter giustificare l’adozione di un atto illecito (così come dalla Corte qualificato il recesso ingiustificato) sanzionato con una tutela indennitaria predeterminata dal legislatore, sulla base di parametri minimi.
Tale potrebbe essere quella di: a) uniformare la disciplina in tema di licenziamenti per tutti i lavoratori senza operare un distinguo sulla base della data di assunzione; b) stabilire, per i licenziamenti economici e per quelli per giustificato motivo soggettivo, in luogo della reintegra un indennizzo predeterminato adeguato (tale le 12 mensilità già previste dalla legge Fornero come risarcimento minimo per il recesso illegittimo) da aumentare - per ogni anno di anzianità lavorativa e tenuto conto della condotta delle parti - fino ad un massimo di 36 mensilità.
In tal modo si assicurerebbe una preventiva valutazione del costo del licenziamento, sì assicurandosi quella certezza del diritto da molti auspicata quale fondante le assunzioni stabili, senza, però, ignorare la necessaria salvaguardia del diritto al lavoro e del lavoratore ad un adeguato ristoro di fronte ad un recesso datoriale ingiustificato.
Nelle more di un intervento legislativo di riordino della materia è rimesso ai giudici un ponderato e attento uso nell’esercizio del potere discrezionale (ri)attribuito, sì da assicurare un analogo trattamento di situazioni analoghe, specie in considerazione dei diversi livelli di tutela indennitaria ( anche se nelle diverse sfumature della retribuzione globale di fatto e della retribuzione di riferimento per il calcolo del trattamento di fine rapporto) attualmente previsti (al di fuori delle residuali ipotesi di reintegra) - dalla legge Fornero e dal Jobs act - sia nel minimo (rispettivamente 12 e 6) che nel massimo (24 e 36).
Esigenza di tutela paritaria particolarmente avvertita per i licenziamenti cd. economici in considerazione dell’orientamento giurisprudenziale della Suprema Corte che, nei casi di licenziamento per giustificato motivo oggettivo, tende a ritenere come prevalente, anche nelle ipotesi disciplinate dalla legge 92/2012, la tutela meramente indennitaria .
Resta, comunque, indubbia la “tenuta” – in via generale – del regime sanzionatorio in termini meramente indennitari dei licenziamenti economici voluto dal legislatore, e, di conseguenza, fortemente ridimensionata l’aspettativa di quanti ritenevano ipotizzabile – per il tramite dell’intervento della Corte Costituzionale - un ritorno ad una tutela reintegratoria, almeno per le ipotesi di manifesta insussistenza del giustificato motivo oggettivo, tra l’altro già ridimensionata in sede di applicazione giurisprudenziale