Testo Integrale con note e bibliografia
La sentenza della Corte d’Appello di Milano, 8 gennaio 2019, n. 1897 in commento tratta diversi argomenti di interesse. In particolare essa affronta, da un lato, l’ormai annoso tema dell’errata elezione del rito processuale, nella scelta tra rito ordinario ex art. 414 Cod. proc. civ. e «Rito Fornero», nelle cause per licenziamento; dall’altro, l’ancor più antico tema del lavoratore che, troppo ammalato per recarsi sul luogo ove assolve le mansioni di lavoratore subordinato, riesce tuttavia a trovare sufficienti energie per badare al proprio negozio sotto casa e per concedersi un poco di svago in discoteca.
I criteri e gli effetti della scelta tra «Rito Fornero» e rito ex art. 414 Cod. proc. civ. nelle cause di licenziamento
LA MASSIMA
Lavoro – Lavoro subordinato – Licenziamento per giusta causa – Processo del Lavoro – «Rito Fornero» – Ricorso proposto con rito errato – Conseguenze – Impedimento decadenza – Sussiste
Lavoro – Errata elezione del rito («Fornero» o 414 Cod. proc. civ.) – Mutamento del rito ex artt. 426 e 427 Cod. proc. civ. – Applicabile
Il ricorso per l’impugnazione del licenziamento depositato tempestivamente ma dichiarato inammissibile per ragioni connesse al rito prescelto è idoneo ad impedire la decadenza prevista dall’art. 6, comma 2, L. n. 604/1966 ed il lavoratore potrà pertanto riproporre il ricorso, con il rito appropriato, anche dopo lo spirare del termine.
Inoltre qualora una causa sia introdotta erroneamente con il «Rito Fornero» o con il ricorso ex art. 414 Cod. proc. civ., il Giudice deve disporre il mutamento del rito e non dichiarare l’inammissibilità del ricorso
Corte Appello di Milano, 8 gennaio 2019, n. 1897
ARTICOLO
LA SCELTA DEL RITO APPLICABILE, TRA «RITO FORNERO» E 414 COD. PROC. CIV.
Il mai troppo criticato rito speciale introdotto dalla L. 28 giugno 2012, n. 92 (c.d. «Legge Fornero»), il c.d. «Rito Fornero», è destinato alle controversie aventi ad oggetto l’impugnativa dei licenziamenti soggetti all’articolo 18, Statuto dei Lavoratori, anche quando devono essere risolte questioni relative alla qualificazione del rapporto di lavoro. Si tratta, pertanto, di un ambito specifico rispetto alla generale applicazione del rito previsto dagli artt. 409 e segg. Cod. proc. civ. in materia di lavoro.
L’introduzione di un rito parallelo rispetto a quello ordinario nasceva dalla volontà di assicurare alle cause di licenziamento, caratterizzate da un’elevata criticità, un percorso privilegiato al fine di pervenire ad una decisione nel più breve tempo possibile . La peculiare delicatezza delle liti rimesse al nuovo rito investiva entrambi i fronti del contendere: per il lavoratore estromesso dal lavoro, si trattava di ottenere – ove le sue ragioni fossero risultate fondate – un ordine di ripristino del rapporto quanto più possibile celere, considerate le esigenze non solo di natura economica sottese alla costanza del rapporto di lavoro; per il datore di lavoro, il rischio di causa era legato (anche) al trascorrere del tempo poiché una lunga durata del processo poteva riverberarsi, anche dopo la profonda modifica dell’art. 18 Statuto dei Lavoratori, in un aggravio del risarcimento dovuto al lavoratore.
In quel momento, dunque, il legislatore pensò di risolvere questi problemi mediante un rito privilegiato, sia da una maggiore snellezza, sia da un percorso preferenziale nella gestione dei calendari da parte degli uffici giudiziari.
Nonostante ciò, a giudizio di molti operatori ed interpreti, il «Rito Fornero» ha creato molti più problemi di quanti ne abbia risolti . Due dei nodi di maggior rilievo sono stati quelli affrontati dalla sentenza in commento che oggi interviene a guidare l’orientamento di un Foro, quello del Tribunale di Milano, che fin dalle prime pronunce si è contraddistinto per la severità delle posizioni in materia.
IL FATTO
Il caso che ha dato origine alla sentenza nasce da un licenziamento per giusta causa. Il rapporto di lavoro era sorto nel 2016 e, dunque, rientrava nel regime del «Jobs act», più precisamente nel «contratto a tutele crescenti» introdotto dal D.Lgs. 4 marzo 2015, n. 23; sennonché, il rapporto di lavoro era stato ceduto, nell’ambito di un cambio di appalto, dall’originario datore di lavoro a quello che ha poi comunicato il licenziamento. Il passaggio era stato regolato da un accordo sindacale che aveva obbligato la società resistente ad assumere tutti i lavoratori in forza dell’appaltatore uscente «senza periodo di prova e con la normativa in materia di licenziamenti antecedente al Jobs act». «Tutti i lavoratori» compresi, dunque, anche coloro che sarebbero stati soggetti al «contratto a tutele crescenti» anche presso l’originario datore di lavoro.
Pertanto, anche il rapporto di lavoro dedotto in lite risultava soggetto, pattiziamente, all’applicazione dell’art. 18 Statuto dei Lavoratori.
Sulla base di tale premessa, il lavoratore ha pertanto proposto ricorso contro il licenziamento nelle forme del «Rito Fornero». Il Tribunale ha tuttavia dichiarato il ricorso inammissibile ritenendo applicabile, invece, il rito ordinario ex art. 414 Cod. proc. civ. Ricevuta la sentenza, il lavoratore non ha potuto che rinnovare il ricorso secondo il rito indicato ottenendone un esito vittorioso: la dichiarazione di insussistenza della giusta causa di licenziamento, la conferma dell’intervenuta cessazione del rapporto di lavoro e la condanna della Società al pagamento di un’indennità risarcitoria pari a 12 mensilità di retribuzione, secondo la previsione dell’art. 18, comma 5, Statuto dei Lavoratori.
La Società ha proposto appello contro tale decisione chiedendo, tra l’altro, che il secondo ricorso fosse dichiarato inammissibile perché depositato dopo la scadenza del secondo termine di decadenza stabilito dall’art. 6, comma 2, L. 15 luglio 1966, n. 604.
È utile, prima di proseguire, riepilogare le date che hanno segnato la vicenda:
• nel dicembre 2016, il lavoratore venne assunto;
• dopo poco, il suo rapporto di lavoro fu ceduto (o ricostituito) presso il nuovo appaltatore;
• il 16 marzo 2017 gli venivano contestati gli addebiti disciplinari;
• il 6 aprile 2017 fu comunicato il licenziamento per giusta causa;
• il 7 aprile 2017 il lavoratore impugnò stragiudizialmente il licenziamento;
• il 15 settembre 2017 il lavoratore depositò il ricorso con il «Rito Fornero»;
• il 6 novembre 2017 il Tribunale dichiarava inammissibile il ricorso per l’errata elezione del rito;
• il 7 novembre 2017 il lavoratore depositava il ricorso ex art. 414 Cod. proc. civ.
Come noto, l’art. 6, L. n. 604/1966 stabilisce che il licenziamento deve essere impugnato a pena di decadenza entro 60 giorni dalla sua ricezione in forma scritta; e che tale impugnazione diviene inefficace se non è seguita, entro il successivo termine di 180 giorni, dal deposito del ricorso nella cancelleria del tribunale del lavoro. Il secondo termine, come ormai appurato, inizia a decorrere dalla trasmissione da parte del lavoratore dell’impugnazione stragiudiziale .
Nel nostro caso, l’impugnazione stragiudiziale fu immediata e il ricorso «Fornero» fu depositato tempestivamente (dopo circa 160 giorni). Il secondo ricorso, tuttavia, fu depositato a termine spirato, oltre 210 giorni dopo l’impugnazione stragiudiziale.
Chiariti i presupposti della decisione possiamo passare ad esaminarne gli interessanti risvolti giuridici.
I MOTIVI DELLA DECISIONE. «TUTELE CRESCENTI» PER LEGGE E ART. 18 PER CONVENZIONE
Il primo punto di notevole interesse è in realtà affrontato dal Tribunale e solo lambito dalla Corte d’Appello: il rapporto di lavoro, sorto in regime legale di «tutele crescenti», era destinatario per via pattizia dell’applicazione dell’art. 18 Statuto dei Lavoratori.
Comprensibile, dunque, il dilemma processuale dell’attore. L’individuazione dell’esatto rito applicabile, infatti, deriva dal coordinamento tra le due norme rilevanti:
• secondo l’art. 1, comma 47, L. n. 92/2012, il «Rito Fornero» si applica «alle controversie aventi ad oggetto l’impugnativa dei licenziamenti nelle ipotesi regolate dall’articolo 18»;
• secondo l’art. 11, D.Lgs. n. 23/2015, «ai licenziamenti di cui al presente decreto non si applica[no]» il «Rito Fornero» ma, dunque, il rito ex art. 414 Cod. proc. civ.; i licenziamenti in questione, a norma dell’art. 1, comma 1, sono quelli che investono «operai, impiegati o quadri, assunti con contratto di lavoro subordinato a tempo indeterminato a decorrere dalla data di entrata in vigore del presente decreto […]».
Orbene, la L. n. 92/2012 avrebbe imposto al caso il «Rito Fornero» poiché «l’impugnativa del licenziamento» era regolata dall’art. 18 Statuto dei Lavoratori e la norma non si presta a distinguere tra l’assoggettamento di natura legale o pattizia; d’altro canto, le richiamate disposizione del D.Lgs. n. 23/2015 sono parimenti chiare nel ricondurre alla propria disciplina – e, dunque, all’art. 414 Cod. proc. civ. – il licenziamento in un rapporto sorto nel 2016.
Ci troviamo pertanto di fronte ad un conflitto che va risolto con applicazione degli ordinari canoni , senza lasciar adito a margini di incertezza. Purtroppo, gli stralci riportati dalla sentenza d’appello non consentono di conoscere il percorso ermeneutico seguito dal Tribunale. È tuttavia evidente che il primo Giudice ha ritenuto applicabile la disciplina «naturale» del D.Lgs. n. 23/2015, prevalente sulla disciplina pattizia.
Rilevata l’intempestività del secondo ricorso, la società Appellante ha eccepito la decadenza del lavoratore dal diritto di impugnazione del licenziamento poiché il deposito del ricorso risultava tardivo rispetto al termine istituito dall’art. 6, comma 2, L. n. 604/1966.
La Corte d’Appello ha tuttavia respinto l’eccezione affermando che, con il deposito del primo ricorso, per quanto inammissibile per errata elezione del rito, il lavoratore «aveva già posto in essere il comportamento necessario per impedire la indicata decadenza». L’effetto impeditivo, dunque, viene perfezionato e reso definitivo con il deposito del ricorso (seppure di rito errato). Sul punto, la Corte milanese unisce il proprio ad un orientamento diffuso .
Certo, tale orientamento getta i semi per situazioni meno cristalline di quella esaminata. Il lavoratore coinvolto nel giudizio ha depositato il secondo ricorso con la maggiore solerzia possibile, già il giorno dopo la sentenza di inammissibilità; sennonché, impedita la decadenza, egli avrebbe tuttavia potuto postergare e in misura significativa il deposito del nuovo ricorso poiché a questo punto i diritti da lui azionati avrebbero incontrato il solo limite della prescrizione, potenzialmente aggravando tuttavia la posizione della controparte.
Sotto un altro profilo, è possibile chiedersi se l’impedimento della decadenza (con conseguente facoltà del lavoratore di riproporre l’azione anche a distanza di tempo) si verificherebbe anche nel caso in cui, depositato tempestivamente il ricorso, il procedimento fosse poi estinto senza giungere a sentenza (ad esempio, per rinunzia agli atti o inattività delle parti (artt. 306 e segg. Cod. proc. civ.). In questo caso, il quesito sembra dover ottenere risposta negativa. Argomentando ex art. 310, comma 2, Cod. proc. civ., infatti, a norma del quale «l’estinzione rende inefficaci gli atti compiuti»; Cass. n. 26309/2017 ha ritenuto di confermare l’inidoneità ad impedire la decadenza di un ricorso tempestivo ma successivamente non coltivato .
Decidendo su un’ulteriore tema sollevato dalla difesa della società appellante, la Corte ha chiarito inoltre che non qualunque atto processuale avrebbe sortito il medesimo effetto.
La società, infatti, ha richiamato la decisione di Cass., Sez. Lav., 7 novembre 2017, n. 26309 secondo cui il ricorso ex art. 700 Cod. proc. civ. non era idoneo ad impedire la decadenza; il medesimo giudizio, a dire dell’appellante, andava esteso all’erroneo ricorso «Fornero».
Cass. n. 26309/2017 aveva infatti ritenuto che la conservazione dell’efficacia dell’impugnazione stragiudiziale del licenziamento esige che, nel termine previsto, venga proposto ricorso secondo il «Rito Fornero», restando inidoneo allo scopo il ricorso proposto ai sensi dell’art. 700 Cod. proc. civ. . Proprio la natura decadenziale del meccanismo istituito dall’art. 6, L. n. 604/1966, rendeva inapplicabile, ex art. 2964 Cod. civ., qualunque ipotesi interruttiva del decorso del termine.
La Corte d’Appello, nel respingere la tesi della società, ha posto l’accento sul contenuto degli atti processuali evocati: secondo il Collegio milanese, infatti, il ricorso ex art. 700 Cod. proc. civ. non deve necessariamente indicare la causa petendi e il petitum, presenti invece sia nel ricorso «Fornero» sia nel ricorso ex art. 414 Cod. proc. civ. Nel caso soggetto al gravame, la sentenza di inammissibilità poteva esplicare, secondo la Corte, solamente un effetto processuale lasciando impregiudicata la posizione sostanziale del lavoratore ormai sottratta alla decadenza.
La sentenza non ne parla espressamente ma sembra doversi ritenere inidoneo ad impedire la decadenza anche l’adozione di uno strumento processuale del tutto diverso quale la notifica (o il deposito in cancelleria civile) dell’atto di citazione. Ciò per via del tenore letterale dell’art. 6, comma 2, L. n. 604/1966 che identifica il comportamento impeditivo della decadenza nel «deposito del ricorso nella cancelleria del tribunale in funzione di giudice del lavoro».
Nessun dubbio, viceversa, sull’idoneità della richiesta del tentativo di conciliazione o arbitrato ex artt. 410 e segg. Cod. proc. civ., espressamente menzionato dall’art. 6, comma 2, L. n. 604/1966 ma con l’ulteriore del deposito del ricorso giudiziario entro 60 giorni in caso di fallimento del tentativo .
IL MUTAMENTO DEL RITO
La Corte coglie l’occasione per intervenire su un altro tema assai dibattuto a margine del «Rito Fornero»: di fronte all’introduzione della lite secondo un rito errato (ordinario o «Fornero» che sia), la giurisprudenza si è divisa tra un primo orientamento che richiedeva al Giudice di convertire il rito assegnando alle parti un termine per la regolarizzazione degli atti ; ed un secondo, in base al quale il Tribunale doveva semplicemente dichiarare il ricorso inammissibile o le domande improcedibili o improponibili .
La Corte d’Appello di Milano ha abbracciato la prima opzione, ritenendo applicabili gli artt. 426 e 427 Cod. proc. civ. sul passaggio dal rito civile al rito del lavoro e viceversa. Secondo il Collegio, la definizione del procedimento introdotto in modo errato con una decisione di mero rito contrasterebbe con il principio in base al quale, ove il vizio processuale sia sanabile, la chiusura in rito del processo può avvenire solo dopo che la parte sia stata invitata dal Giudice a porvi rimedio e non lo abbia fatto. Ciò perché, conclude la Corte, il processo deve tendere, laddove possibile, ad una decisione di merito e limitare le pronunce di mero rito ai casi in cui il vizio processuale sia insanabile.
OSSERVAZIONI CONCLUSIOVE. IL CASO IN ESAME OFFRE LO SPUNTO PER ALCUNE ULTERIORI OSSERVAZIONI: L’ACCORDO SINDACALE PUÒ (ANCORA) IMPORRE PATTIZIAMENTE L’APPLICAZIONE DELL’ART. 18 STATUTO DEI LAVORATORI IN LUOGO DELLE «TUTELE CRESCENTI»?
Un diverso tema di notevole interesse emerge dal caso: il licenziamento de quo è stato ricondotto alla disciplina dell’art. 18 Statuto dei Lavoratori pur rientrando, per le proprie caratteristiche oggettive, nell’ambito di applicazione del «contratto a tutele crescenti».
L’accordo sindacale, dunque, ha imposto una deroga alla disciplina legale (sicuramente imperativa) . Tale pattuizione è stata ritenuta valida nel giudizio in esame. I limiti di questo scritto non consentono una compiuta indagine sul fondamento e sulle complesse implicazioni di tale aspetto per cui ci limiteremo ad uno spunto di riflessione.
La deroga sarebbe senz’altro consentita da un «accordo di prossimità», a norma dell’art. 8, D.L. 13 agosto 2011, n. 138 (conv. in L. 14 settembre 2011, n. 148, c.d. «Manovra di Ferragosto»). Ricorrendone (gli impervi) presupposti , infatti, un tale accordo sindacale può regolare la materia dei licenziamenti privi di giusta causa o giustificato motivo anche in deroga alla legge, purché nei limiti della Costituzione e dell’Ordinamento europeo ; e con efficacia erga omnes, ossia verso tutti i lavoratori cui il contratto stesso si riferisce .
Nulla nella sentenza lascia tuttavia intendere che sia stato utilizzato un tale strumento. Il contratto collettivo in esame sembra invece presumibilmente adottato nell’ambito di un trasferimento d’azienda o di ramo d’azienda ex art. 2112 Cod. civ. e art. 47, L. 29 dicembre 1990, n. 428. In tal guisa, il contratto collettivo gestionale potrebbe tuttavia derogare alla legge, incidendo sulle posizioni individuali dei lavoratori, soltanto in senso più favorevole agli stessi .
Questo è il punto di attuale interesse: nei primi mesi del 2018, allorché fu stipulato l’accordo sindacale de quo, si poteva forse concordare sulla preferibilità, per il lavoratore, della disciplina dell’art. 18 Statuto dei Lavoratori rispetto a quella delle «tutele crescenti», almeno nella maggior parte dei casi e per la casistica contemporanea, caratterizzata da rapporti di lavoro che, per forza di cose, erano (e sono) di recente o recentissima costituzione. Sennonché, al momento in cui scriviamo, tale raffronto avrebbe un esito assai più incerto: infatti, dopo l’emanazione del D.L. 12 luglio 2018, n. 87 (c.d. «Decreto Dignità») e la ravvicinata pubblicazione della sentenza della Corte Cost. 9 novembre 2018, n. 194 , la tutela offerta dal D.Lgs. n. 23/2015 potrebbe al contrario risultare in molti casi più favorevole al lavoratore rispetto all’art. 18 Statuto dei Lavoratori.
Se così fosse, l’ordinario accordo sindacale (ossia, non «di prossimità») o il patto individuale di applicazione dell’art. 18 Statuto dei Lavoratori in deroga all’art. 1, D.Lgs. n. 23/2015 potrebbe risultare nullo.
IL MERITO DELLA LITE E LA DIVERSA EFFICACIA INABILITANTE DI TALUNE PATOLOGIE
Come accennato in apertura, il caso esaminato dalla Corte d’Appello di Milano n. 1897/2019 in commento, nasce dalla vicenda di un lavoratore che, nel corso di un periodo nel quale era assente dal lavoro per malattia, era stato trovato intento a ballare in una discoteca «almeno dall’una circa fino alle quattro di mattina circa»; dopo due settimane circa da tale episodio, inoltre, ancora in periodo di malattia, il medesimo lavoratore veniva trovato, alle ore 16.00 circa, seduto dietro al banco di un negozio di calzoleria che risultava appartenere ad una ditta individuale «Il tuo calzolaio» della quale il lavoratore era titolare.
Tali circostanze erano state dedotte in un contestazione disciplinare e avevano condotto al licenziamento per giusta causa del lavoratore.
Il Tribunale aveva riconosciuto rilievo disciplinare solamente al primo addebito poiché il comportamento tenuto avrebbe potuto mettere in pericolo la pronta ripresa del lavoro; viceversa, la presenza del lavoratore nel proprio negozio, da un lato, era stata ritenuta inidonea a pregiudicare la guarigione dalla lombo-sciatalgia diagnosticatagli dal medico; dall’altro, non comprovava di per sé la fraudolenta simulazione della malattia. Il Tribunale riteneva quindi la sanzione adottata non proporzionata e il licenziamento illegittimo. In applicazione dell’art. 18, comma 5, Statuto dei Lavoratori dichiarava risolto il rapporto di lavoro e condannava la società al pagamento di un’indennità nella misura minima di 12 mensilità.
Nel promuovere l’appello, la società contestava la decisione del primo grado e, tra l’altro, sottolineava il contrasto tra lo stato morboso indicato nei certificati e le attività svolte nel periodo della malattia che ne comprovavano la simulazione.
La Corte ha tuttavia condiviso le valutazioni del Tribunale.
Fermo restando il (blando ma confermato) rilevo disciplinare della notte in discoteca, la Corte ha riesaminato gli altri aspetti del caso.
In primo luogo, si è pertanto osservato che il certificato rilasciato dal medico di base è un atto pubblico che fa piena prova, sino a querela di falso, relativamente alla provenienza dal pubblico ufficiale che lo ha formato, alle dichiarazioni rese al medesimo e agli altri fatti che il medico-pubblico ufficiale dichiari di aver compiuto o attesti essere avvenuti in sua presenza. La diagnosi ivi contenuta è una dichiarazione di scienza dello stato morboso del paziente, seppure spesso compiuta anche in base alle dichiarazioni rese dallo stesso soggetto interessato.
Orbene, chiarisce la Corte, lo svolgimento di attività in costanza di malattia può essere valutata dal giudice come elemento indiziario dell’insussistenza della malattia stessa ed essere idonea a giustificare il recesso del datore di lavoro per violazione dei doveri generali di correttezza e buona fede e degli specifici obblighi contrattuali di diligenza e fedeltà ove tale attività esterna sia per sé sufficiente a far presumere l’inesistenza della malattia, dimostrandone una sua fraudolenta simulazione ovvero quando, valutata in relazione alla natura della patologia e delle mansioni svolte, l’attività stessa possa pregiudicare o ritardare la guarigione e il rientro in servizio del lavoratore. Occorre tuttavia – prosegue la Corte – che questi profili emergano chiaramente, da un lato, sul piano formale, dalla contestazione dell’addebito e, dall’altro, in concreto, siano poi accertati o la simulazione della malattia volta ad eludere l’obbligo di svolgere la prestazione lavorativa ovvero il colpevole aggravamento della propria condizione patologica.
Tali contestazioni, conclude la Corte, nel caso specifico non erano neppure state proposte.
All’esito dell’istruttoria, dunque, era emerso solamente che, in un giorno di assenza per malattia e fuori dall’orario di reperibilità, il dipendente si trovava all’interno del proprio negozio di calzoleria, sito sotto casa, da solo, seduto dietro al bancone. Questa permanenza nel negozio, in assenza di ulteriori circostanze, non poteva essere ritenuta idonea di per sé né a dimostrare la frode né a pregiudicare la guarigione dalla lombo-sciatalgia, atteso che il soggetto non veniva visto fare alcun tipo di sforzo né piegarsi o sollevare pesi.
In conclusione, la presenza del dipendente in negozio, non poteva rivestire alcun rilievo disciplinare.
La sola serata in discoteca, dunque, non è risultata idonea a ledere – nel contesto specifico del rapporto di lavoro – in modo irreparabile la fiducia del datore di lavoro, essendosi trattato di un singolo episodio, durato poche ore e caratterizzato più da superficialità, imprudenza o negligenza che da una volontà dolosa, anche tenuto conto dell’assenza di precedenti disciplinari.