Testo integrale con note e bibliografia

Testo della sentenza

1. La conferma del passaggio dalla property rule alla liability rule nella nuova disciplina dei licenziamenti

Tutti i primi commenti hanno sottolineato l’inversione di tendenza che questa sentenza costituzionale segna, rispetto al contenuto delle riforme del 2012 e del 2015, in materia di disciplina dei licenziamenti: su questo effetto della sentenza torniamo nei paragrafi successivi. Quasi nessuno invece ha rilevato che, per altro verso, la stessa sentenza conferma – e così facendo in qualche misura consolida - il contenuto essenziale delle riforme del 2012 e 2015, consistente nel passaggio da un sistema centrato sulla sanzione reintegratoria, e in particolare su un apparato sanzionatorio che per i suoi effetti sostanziali la teoria generale classifica come una property rule, a un sistema centrato su una sanzione indennitaria di entità predeterminata nel massimo, cioè una liability rule (è la parte della motivazione della sentenza qui riassunta nella prima massima redazionale).
Vero è che la sentenza, per questo aspetto, si colloca nel solco di una giurisprudenza costante della stessa Corte, puntualmente richiamata nella motivazione. È anche vero, però, che le sentenze precedenti si erano limitate a riconoscere la libertà di cui il legislatore ordinario dispone nella scelta tra la sanzione reintegratoria e quella risarcitoria o indennitaria; qui, invece, la Corte si spinge anche (§ 12.1) a discutere la questione della legittimità del limite massimo dell’indennizzo stabilito dalla riforma del 2015 per il caso del licenziamento ritenuto dal giudice ingiustificato, per giungere a una conclusione positiva in riferimento al “tetto” delle 24 mensilità posto dal d.lgs n. 23/2015, art. 3, c. 1, e a maggior ragione in riferimento a quello aumentato del 50 per cento dal d.-l. n. 87/2018.

2. Il riconoscimento dell’adeguatezza del limite massimo dell’indennizzo

Il punto della sentenza testé menzionato, qui riassunto nella seconda massima redazionale, ha un rilievo niente affatto marginale: se, infatti, la Corte avesse dichiarato costituzionalmente illegittimo il limite massimo dell’indennizzo, riconoscendo al giudice di merito la facoltà di condannare il datore al pagamento di un indennizzo anche notevolmente superiore, sulla base di una libera valutazione delle circostanze concrete, il risultato sarebbe stato di fatto molto simile a quello di un ritorno alla property rule.
Basti, per convincersene, considerare che se la sentenza della Corte avesse eliminato il limite massimo, consentendo che l’indennizzo venisse liquidato in misura pari all’entità del danno causato dal licenziamento secondo la valutazione del giudice, quest’ultimo avrebbe potuto spingersi – in considerazione delle condizioni del mercato del lavoro locale e/o di altre circostanze – a condannare il datore al pagamento di un importo pari alla somma di tutte le retribuzioni destinate a maturare fino all’età del pensionamento della persona licenziata, più i relativi contributi previdenziali. E, stante la notoriamente scarsa prevedibilità dell’esito di qualsiasi giudizio in materia di giustificato motivo di licenziamento, sarebbe bastata la possibilità di una sentenza di questo genere per porre la persona stessa nella condizione di stabilire il prezzo della rinuncia al proprio posto di lavoro o all’impugnazione del licenziamento. Che è appunto il contenuto pratico tipico della property rule, quando è riferita a rapporti di natura contrattuale.
La Corte ribadisce invece, a questo proposito, la propria giurisprudenza secondo la quale “la regola generale di integralità della riparazione e di equivalenza della stessa al pregiudizio cagionato al danneggiato non ha copertura costituzionale” (§ 12.1, secondo capoverso): è sufficiente che essa realizzi “un adeguato contemperamento degli interessi in conflitto” (terzo capoverso). E “non contrasta con tale nozione di adeguatezza il limite di ventiquattro mensilità fissato dal legislatore quale soglia massima del risarcimento” (quarto capoverso).

3. I giudizi costituzionali contrastanti, italiano e francese, circa la legittimità dell’aggancio dell’indennizzo all’anzianità di servizio

La Corte costituzionale ha invece fatto propria la censura, mossa dal giudice remittente al d.lgs n. 23/2015, art. 3, c. 1, consistente nella denuncia dell’irragionevolezza del criterio rigido ivi stabilito per la commisurazione dell’indennizzo all’anzianità di servizio del lavoratore licenziato (è il punto della sentenza qui riassunto nella terza massima). Questo criterio – afferma la sentenza – fa sì che vengano trattate in modo uguale “situazioni che possono essere – e sono, nell’esperienza concreta – diverse” (§ 11); si tradisce così “la finalità primaria della tutela risarcitoria, che consiste nel prevedere una compensazione adeguata del pregiudizio subito dal lavoratore ingiustamente licenziato” (§ 12.3: sia questo sia il § 11 sono qui riassunti nella terza massima redazionale in coda al presente Saggio).
Su una questione sostanzialmente identica, il Conseil Constitutionnel, organo d’oltralpe omologo rispetto alla nostra Corte costituzionale, il 5 agosto 2015 si è pronunciato in modo opposto: ha riconosciuto, cioè, come pienamente ragionevole e compatibile con i principi di uguaglianza e di protezione del lavoro la norma francese che stabilisce i limiti minimi e massimi per l’indennizzo collegandoli esclusivamente all’anzianità di servizio della persona licenziata (la stessa norma, invero, li collegava anche alle dimensioni dell’impresa; ma il Conseil constitutionnel ha ritenuto questa parte della norma – e solo questa – incompatibile con il principio di parità di trattamento fra i lavoratori). Nulla ha eccepito il Conseil constitutionnel né circa il limite massimo assoluto di 20 mensilità, posto dalla norma per l’indennizzo conseguente a licenziamento ritenuto dal giudice ingiustificato, né circa il limite minimo assoluto di una mensilità. Ma questo precedente costituzionale d’oltralpe è stato del tutto ignorato dalla nostra Corte.

4. L’inedito obbligo per il giudice di commisurare l’indennizzo al pregiudizio effettivo sofferto dal lavoratore nel caso concreto

“L’anzianità nel lavoro” – si legge nella motivazione della sentenza della nostra Corte (ancora § 11) – “è solo uno dei tanti fattori” dai quali dipende l’entità del pregiudizio patito in concreto dal lavoratore (è il punto qui riassunto nella terza massima redazionale). Poi, però, nella stessa motivazione nessuno di questi altri fattori dai quali dipende l’entità del danno individualmente sofferto viene menzionato in modo specifico.
Nello stesso § 11 la Corte richiama i criteri indicati dall’art. 8 della legge n. 604/604 per la determinazione dell’indennizzo: “numero dei dipendenti occupati, … dimensioni dell’impresa, … comportamento e … condizioni delle parti”; ma nessuna di queste circostanze, a ben vedere, influisce sull’entità del danno patito dal dipendente nel caso concreto. Esse influiscono, semmai, sulla capacità economica del datore, oppure possono fornire argomenti a sostegno del maggiore o minore grado della colpa contrattuale dell’una o dell’altra parte, che ha causato il licenziamento. Si può osservare, paradossalmente, che una disparità di trattamento tra fattispecie di danno di pari entità si verifica proprio quando l’indennizzo viene differenziato in relazione al numero dei dipendenti occupati, oppure alle dimensioni dell’azienda altrimenti determinate: infatti, come si è visto, proprio questo è il motivo che ha indotto il Conseil constitutionnel francese a sopprimere la differenziazione dell’indennizzo in relazione al numero dei dipendenti.
Salvo il riferimento all’anzianità di servizio, l’entità del danno che dall’interruzione del rapporto può derivare in concreto dipende da circostanze diverse rispetto a quelle menzionate nell’art. 8 della legge n. 604/1966 e richiamate nella sentenza della Corte: precisamente dalle condizioni del mercato del lavoro entro il raggio di mobilità della persona interessata, dal livello e il tipo di professionalità di questa, dalla sua età e dai suoi carichi di famiglia, dall’intensità dell’impegno che essa profonde nella ricerca della nuova occupazione, dall’ampiezza della sua disponibilità ad accettare occasioni di lavoro diverse rispetto a quella perduta, dalla quantità e qualità dell’assistenza di cui essa può disporre nella ricerca della nuova occupazione, dall’entità del sostegno del reddito che le è assicurato durante il periodo di disoccupazione.
Ora, non è un caso che nella maggior parte degli ordinamenti europei oggi l’entità dell’indennizzo per il licenziamento ingiustificato sia determinata secondo criteri che fanno riferimento alla sola anzianità di servizio, ma non a questi altri fattori testé elencati, rilevanti per l’entità del danno sofferto in concreto dal singolo lavoratore. Né, a ben vedere, è un caso che la motivazione della sentenza della nostra Corte non menzioni specificamente neppure una di queste circostanze: per ciascuna di esse, infatti, la letteratura giuslavoristica e di economia del lavoro ha da tempo individuato ragioni precise che sconsigliano di assumerle come fattori cui correlare la determinazione dell’indennizzo.
Quanto al primo fattore determinante dell’entità del danno prodottosi nel caso concreto, cioè l’abbondanza o scarsità delle opportunità occupazionali offerte dal mercato del lavoro locale o regionale, i giudici della Corte non possono certo ignorare gli effetti macroeconomici paradossali conseguenti a un apparato sanzionatorio che aumentasse il severance cost (ovvero il costo di separazione tra impresa e dipendente) nelle regioni dove le condizioni del mercato del lavoro sono peggiori e lo diminuisse dove le condizioni del mercato sono migliori: il risultato sarebbe quello di una maggiore vischiosità del tessuto produttivo proprio là dove occorrerebbe una sua maggiore fluidità, e viceversa.
Un discorso analogo vale, questa volta sul piano microeconomico, per l’età e i carichi di famiglia della persona licenziata: se la regola fosse quella per cui il severance cost è più alto per chi è più avanti cogli anni, o per chi ha più figli da mantenere, nel mercato del lavoro essa si ritorcerebbe contro le persone che si trovano in queste condizioni, costituendo per loro un handicap negativo rispetto ai più giovani e a chi ha meno figli a carico o non ne ha del tutto.
Quanto al fatto che nella motivazione della sentenza non vengano menzionati l’impegno profuso dalla persona licenziata nella ricerca della nuova occupazione e la sua disponibilità e adattabilità, la ragione è evidente: si tratta di due dati che nella quasi totalità dei casi sono del tutto inconoscibili o comunque non dimostrabili in sede giudiziale, anche perché sono soggetti a quello che gli economisti chiamano moral hazard, cioè al rischio connesso al comportamento opportunistico dell’interessato.
Restano gli ultimi due fattori determinanti dell’entità del danno prodottosi in concreto: il livello del sostegno del reddito di cui la persona licenziata dispone e l’assistenza di cui essa può avvalersi nella ricerca del nuovo lavoro. Senonché il primo di questi dipende da una disciplina legislativa uguale su tutto il territorio nazionale, e i “livelli essenziali delle prestazioni” (LEP) di assistenza nel mercato del lavoro sono per legge fissati in modo uniforme per tutto il territorio nazionale: è dunque del tutto ragionevole che di entrambi questi dati sia il legislatore a tenere conto nella determinazione dell’indennizzo, non lasciando che i dati stessi siano oggetto di istruttoria e di valutazione in ciascun procedimento giudiziale.
I motivi che presumibilmente hanno indotto la Corte a non menzionare, nella motivazione della sentenza, neppure uno di questi possibili fattori determinanti del pregiudizio subìto in concreto dal lavoratore licenziato sono gli stessi che hanno indotto il legislatore italiano del 2014 e 2015 – al pari di quello francese e di quello spagnolo – a optare per un meccanismo di determinazione dell’indennizzo che facesse riferimento all’unico criterio restante: quello dell’anzianità di servizio. Ma di questi motivi ragionevolissimi la Corte non ha tenuto alcun conto quando ha concluso nel senso che, invece, il giudice deve determinare l’indennizzo in modo che esso risarcisca il danno patito dalla persona licenziata in ciascun caso concreto.
Manca, comunque, nella sentenza, un sia pur minimo accenno al motivo per cui sarebbe irragionevole la scelta del legislatore italiano, e di tanti altri legislatori nazionali anche di Paesi a noi vicinissimi, di tener conto dei molteplici argomenti di ordine macro e micro-economico che militano in senso contrario all’idea della “personalizzazione del danno” e dell’indennizzo come “risarcimento su misura” per il danno stesso.
Proprio quegli argomenti inducono, invece, a considerare molto ragionevole la norma che disponga un’indennizzo-standard, determinato secondo un criterio generale che tenga conto dell’id quod plerumque accidit e non commisurato al pregiudizio patito dalla persona licenziata in ciascun caso concreto: pregiudizio che oltretutto, come si è visto, non è mai suscettibile di accertamento preciso in giudizio e neppure di una valutazione attendibile da parte del giudice. Irragionevole appare, semmai, vietare al legislatore ordinario di allineare per questo aspetto la legislazione italiana a quella degli altri Paesi europei.

5. L’inadeguatezza del limite minimo dell’indennizzo, affermata nella motivazione della sentenza ma non confermata nel dispositivo

Nel paragrafo successivo della motivazione della sentenza (qui riassunto nella quarta massima redazionale) si legge che l’art. 3, comma 1, del d.lgs. n. 23/2015 è contrario al principio costituzionale di protezione del lavoro anche nella parte in cui stabilisce un indennizzo minimo di quattro mensilità (ora di sei), perché questa misura, “soprattutto nei casi di anzianità di servizio non elevata” (§ 12.1), “è suscettibile di minare, in tutta evidenza, anche la funzione dissuasiva della stessa nei confronti del datore di lavoro” (§ 12.2), “non realizza un equilibrato componimento degli interessi in gioco […] finisce così per tradire la finalità primaria della tutela risarcitoria, che consiste nel prevedere una compensazione adeguata del pregiudizio subito dal lavoratore ingiustamente licenziato” (§ 12.3).
Questa parte della motivazione non è del tutto congruente con il dispositivo della stessa sentenza, il quale si limita a sopprimere nel primo comma dell’art. 3 le parole “di importo pari a due mensilità dell’ultima retribuzione […] per ogni anno di servizio”, lasciando in vita, nel testo della norma, le parole “in misura comunque non inferiore a quattro [ora sei] e non superiore a ventiquattro [ora trentasei]”. La disposizione risultante dalla manipolazione operata dalla Corte consente, dunque, tuttora al giudice di condannare il datore, in conseguenza del difetto del giustificato motivo del licenziamento, al pagamento di un indennizzo nella misura minima indicata nella norma. E, si osservi, dal momento che è stata soppressa la regola del rigido proporzionamento dell’indennizzo all’anzianità di servizio, ora il giudice è abilitato a condannare il datore nella misura minima anche in favore di un lavoratore che abbia maturato cinque, dieci o vent’anni di anzianità di servizio. Questo potrebbe accadere, per esempio, nel caso del licenziamento disciplinare, quando una colpa del dipendente sia stata accertata, non lieve ma ritenuta dal giudice non ancora sufficiente a giustificare pienamente la sanzione disciplinare massima. Oppure nel caso del licenziamento per motivo oggettivo, quando il datore si sia attivato immediatamente per offrire alla persona licenziata un’opportunità di lavoro equivalente o addirittura migliore alle dipendenze di un’altra impresa.
Stante il contenuto del dispositivo della sentenza, questa parte della motivazione deve intendersi come un’indicazione fornita dalla Corte al giudice di merito, nel senso dell’insufficienza in linea generale dell’indennizzo determinato nella misura minima, anche nel caso di anzianità di servizio minima della persona licenziata, salvo che circostanze particolari – quali il comportamento datoriale efficacemente mirato a minimizzare il danno, o un “concorso di colpa” del licenziato – giustifichino la riduzione al livello minimo dell’indennizzo, che di norma dovrebbe essere di entità più elevata.
In questa parte della motivazione della sentenza la Corte non considera degno neppure di un accenno il motivo che ha mosso il legislatore del 2015 a determinare l’indennizzo minimo in 4 mensilità, e non in misura superiore, come pure era richiesto da una parte dei parlamentari della stessa maggioranza: in un ordinamento che consente all’impresa di utilizzare il contratto a termine e le relative proroghe per assicurarsi una notevole flessibilità dell’organico entro i limiti di 36 (ora 24) mesi complessivi di durata dei rapporti, se l’assunzione a tempo indeterminato viene gravata del rischio di un severance cost pari a una annualità di retribuzione o anche più fin dai primi mesi di svolgimento del rapporto, questo fa sì che l’assunzione a termine, almeno per la fase iniziale del rapporto, diventi di fatto la forma normale di ingaggio. Si consideri, a questo proposito, che nel nostro ordinamento il severance cost è aumentato anche dal cospicuo contributo una tantum per il finanziamento del trattamento di disoccupazione, che l’imprenditore è tenuto a pagare all’Inps: una vera e propria tassa sui licenziamenti, che fa da contrappeso alla maggiorazione contributiva gravante sulle retribuzioni dei lavoratori assunti a termine.
Consideriamo, del resto, il caso specifico da cui l’ordinanza di rimessione alla Corte costituzionale traeva origine: la signora SF, licenziata dopo sette mesi di lavoro, a norma del d.lgs. n. 23/2015 avrebbe avuto diritto – oltre che al trattamento di disoccupazione – a un indennizzo pari a quattro mensilità di retribuzione, che avrebbe costituito per lei un aumento della retribuzione complessiva pari all’incirca al 57 per cento, cui si aggiungeva il costo del preavviso. Se all’atto dell’assunzione l’imprenditore avesse avuto la prospettiva di un severance cost di entità doppia, tripla, o quadrupla rispetto a questa, molto probabilmente la signora SF sarebbe stata assunta con un contratto a termine di sei mesi rinnovabile. E, certo, il principio di protezione del lavoro di cui agli artt. 1, 4 e 35 Cost. non ne sarebbe risultato meglio rispettato.

6. La differenziazione della disciplina ratione temporis, di segno inverso rispetto alla situazione precedente alla sentenza, ma ora priva della giustificazione indicata nella stessa sentenza

La sentenza, richiamando la giurisprudenza costante della Corte sul punto, respinge le censure di incostituzionalità mosse dal giudice remittente alla riforma del 2015, riferite alla differenza di trattamento che ne consegue tra persone assunte prima e dopo l’entrata in vigore della nuova norma (§ 6, qui riassunto nella quinta massima redazionale in coda al presente Saggio). Nella motivazione si legge in proposito che “la ragione giustificatrice” di questa disparità di trattamento è “costituita dallo ‘scopo’, dichiaratamente perseguito dal legislatore, ‘di rafforzare le opportunità di ingresso nel mondo del lavoro da parte di colore che sono in cerca di occupazione’ (alinea dell’art. 1, comma 7, della legge n. 183 del 2014)”.
Senonché ora, per effetto di questa stessa sentenza, è venuta a determinarsi una situazione nella quale, in caso di licenziamento ritenuto dal giudice ingiustificato, chi è stato assunto dal 7 marzo 2015 in poi può vedersi liquidato un indennizzo di molto superiore (fino a un massimo di 36 mensilità) rispetto a quello previsto per gli assunti prima del 7 marzo 2015 dalla norma previgente, cioè dall’art. 18 St. lav. come modificato dalla legge n. 92/2012 (che commina un indennizzo da 12 a 24 mensilità). E questa disparità di trattamento non può più essere giustificata da un legittimo esercizio da parte del legislatore ordinario della propria discrezionalità nello scegliere e perseguire obiettivi determinati di politica del lavoro: ora essa è soltanto il risultato gravemente imperfetto dell’intervento di una Corte cui è dato manipolare la norma esistente mediante l’uso delle sole forbici e non della penna.

7. Una considerazione conclusiva e di prospettiva

Il nostro diritto del lavoro soffre cronicamente di un eccesso di volatilità delle norme, prodotto da mutamenti legislativi troppo sovente disordinati, improvvisati, dettati più da esigenze politiche contingenti e dalla cronaca quotidiana che da un disegno approfondito di riforma. Per questo, nella congiuntura attuale, nonostante la gravità delle incongruenze determinatesi in conseguenza della sentenza n. 194/2018, sopra evidenziate, il rischio che qualsiasi nuovo intervento legislativo in materia di disciplina dei licenziamenti abbia quel carattere deteriore sconsiglia di promuovere interventi ulteriori di qualsiasi genere sulla disciplina stessa.
In un futuro oggi non prevedibile, nel quale ci si potesse invece attendere dal legislatore ordinario un’iniziativa meditata e debitamente sorretta dalle competenze necessarie, si potrebbe forse pensare a un intervento di razionalizzazione e semplificazione basato su di un compromesso politico-culturale tra i fautori di una ripresa robusta del cammino verso un modello ispirato al principio della flexsecurity e i fautori di un ritorno al modello della job property anni ’70: i primi dovrebbero accettare che si consolidino i nuovi limiti dell’indennizzo recati dal d.-l. n. 87/2018, col conseguente netto disallineamento dell’Italia per questo aspetto rispetto agli altri Paesi europei, e che entro questi limiti vengano riconosciuti ai giudici degli spazi ragionevoli di discrezionalità nella determinazione dell’indennizzo caso per caso; i secondi dovrebbero accettare l’irreversibilità del tramonto del regime centrato sulla job property e una correzione dell’eccesso di discrezionalità del giudice derivante dal dispositivo della sentenza costituzionale n. 194/2018, pur nel rispetto dei principi enunciati nella sentenza stessa.
Sulla base di questo compromesso, si potrebbe pensare a una riscrittura dell’art. 18 St. lav. (per i rapporti costituiti prima del 7 marzo 2015) e del primo comma dell’articolo 3 del d.lgs. n. 23/2015 (per i rapporti costituiti da quella data in poi) che, sul modello della legge francese, preveda un limite minimo e uno massimo dell’indennizzo, via via crescenti in relazione a una serie di scaglioni di anzianità del lavoratore licenziato, fermi il minimo assoluto di sei mensilità e il massimo assoluto di trentasei. Si consentirebbe in questo modo al giudice di variare l’indennizzo per tenere conto delle circostanze particolari del caso concreto, ma si eviterebbe che, a seconda dell’orientamento personale del giudice, per casi identici possa essere disposto un indennizzo minimo pari a sei mensilità, oppure un indennizzo di sei volte superiore. E si supererebbe la disparità irragionevole – questa sì, a seguito della sentenza costituzionale qui in commento – dell’entità dell’indennizzo a seconda della data di inizio del rapporto.

 

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