Testo Integrale con note e bibliografia
Sulla sentenza della Corte Costituzione n. 194 del 2018, che ha dichiarato la illegittimità dell’art. 3, comma 1, del decreto legislativo 4 marzo 2015 n. 23 (contratto a tempo indeterminato a Tutele Crescenti), i primi commenti sono pressoché tutti favorevoli, nonostante che (per lo più) la maggior parte degli autori avessero appuntato la loro attenzione non tanto sul criterio unico di valutazione dell’indennità (in caso di licenziamento illegittimo) quanto sulla modestia dello stesso. Tanto vero che lo stesso legislatore (seppur di legislatura successiva rispetto a quella dell’emanazione) aveva soddisfatto tali appunti aumentando in modo consistente i paletti iniziali e finali dell’indennità (col cosidetto decreto sulla Dignità dei lavoratori). La Corte, pur prendendo atto di tale intercorsa modifica, non si è fermata ed ha dichiarato illegittima la formulazione, seppur incrementata dal Decreto di Dignità, del criterio della misura indennitaria. A nostro parere la sentenza genera alcune perplessità soprattutto per profili di coerenze sistematica. Il primo dubbio emerge sulla decisione della eccezione secondo cui il regime di tutela dell’art. 3, comma 1, del d.lgs. n. 23/2015 è meno favorevole di quello dell’art. 18 della legge 300/1970 applicabile ai lavoratori assunti prima di tale data. Come noto l’art. 3, comma 1, prevede, in ogni caso, la tutela solo economica; l’art. 18 prevede, per certi casi (insussistenza del fatto o sanzione conservativa) anche la reintegrazione oltre al risarcimento. Qui la Corte se la sbriga sostenendo che il giudice rimettente non avrebbe censurato la disciplina sostanziale differenziata bensì il criterio di applicazione temporale. Una rilettura puntuale dell’ordinanza rimettente non pare consentire tale separazione concettuale che rimane un po’ criptica in sé. Prosegue la Corte con quella che sembrerebbe la difesa più efficace della norma, ovvero “il passare del tempo” (con ciò richiamando precedenti della Corte stessa “………. il fluire del tempo può costituire un valido elemento di diversificazione delle situazioni giuridiche”. (Corte Cost. ordinanza n. 25 del 2012 fra le varie). Il criterio temporale (a difesa della differenziazione tra i lavoratori ante e post 7 marzo 2015) viene poi rafforzato dal criterio dello “scopo”. 2 La modulazione temporale del d. lgs. N. 23/2015 non contrasterebbe col canone di ragionevolezza se ad essa si guarda “alla luce della ragione giustificatrice” costituita dallo “scopo” dichiaratamente perseguito dal legislatore di “rafforzare le opportunità di ingresso nel mondo del lavoro da parte di coloro che sono in cerca di occupazione (art. 1, comma 7, legge n. 183/2014)”. E, qui, evidenziamo la prima incoerenza (rispetto a quello che diremo dopo). La Corte, infatti, sostiene: “Lo scopo dell’intervento, così esplicativo, mostra come la predeterminazione e l’alleggerimento delle conseguenze del licenziamento illegittimo siano misure dirette a favorire l’instaurazione di rapporti di lavoro……. il regime temporale si rileva “coerente” con tale scopo…… poiché l’introduzione di tutele certe (non anche nella misura n.d.r. ?) e più attenuate (non anche nella misura n.d.r.?) in caso di licenziamento illegittimo è diretta ad incentivare le assunzioni…… di conseguenza il deteriore trattamento di tali lavoratori rispetto a quelli assunti prima non viola il principio di uguaglianza”. La palese, ictu oculi, differenziazione, che alla più parte dei commentatori era risultata di ardua giuridica comprensione, viene risolta alla luce del “tempo” e dello “scopo”. Sul tempo c’è da dir che fra la legge (cosidetta Fornero) e il decreto 23/2015 sono passati poco più di 2 anni, e già il decreto Fornero aveva ampiamente modificato la disciplina dei licenziamenti rendendola più “morbida” per il datore e quindi, altrettanto ampiamente incentivante le assunzioni (si sostiene da molti che al regime della reintegrazione si sia radicalmente sostituito quello risarcitorio). Pertanto trovare nel tempo (sì breve) e nella precedente disciplina applicativa (sì innovativa) la giustificazione della nuova differenziazione lascia assai dubbiosi. Altrettanto si può congiuntamente interpretare lo “scopo”. Sostenere che si rendono più facili le assunzioni perché si rendono più facili i licenziamenti suona contraddittorio. Sono e rimarranno assunzioni precarie e quindi lo scopo del legislatore sarebbe illusorio: la pubblicistica attuale lo definirebbe diretto a “sondaggi propagandistici” . La stessa parte ricorrente nel costituirsi aveva infatti sollevato al riguardo, la irragionevolezza della norma (se lo scopo perseguito fosse stato effettivamente quello), nel senso che “risulterebbe evidente l’intrinseca 3 irragionevolezza della normativa denunciata rispetto al fine di affermare le opportunità di ingresso nel mondo del lavoro. Essa, infatti, lungi dal fornire l’ingresso in una realtà aziendale, incentiva, viceversa, l’estromissione del lavoratore assunto dopo il 7 marzo 2015”. La Corte non ha considerato tale argomentazione, anzi ha esattamente ritenuto il contrario senza affrontare la questione. In tal modo in forza dei concetti di “tempo” e “scopo” si è ritenuta legittima la differenziazione, salvando (sul punto) l’impianto del Decreto 23, consapevole (forse) che lo scossone al decreto sarebbe stato inferto successivamente. La Corte arriva infatti a valutare la censura dell’art. 3, comma 1, del Decreto sul meccanismo delineato di quantificazione “non graduabile in relazione a parametri diversi dell’anzianità di servizio”. E qui la Corte fa il primo inciampo enunciando che “una tale predeterminazione forfettizzata del risarcimento del danno da licenziamento illegittimo non risulta incrementabile, pur volendone fornire la relativa prova ……. e’ in effetti palese la volontà del legislatore di predeterminare compiutamente le conseguenze del licenziamento illegittimo, in conformità al principio e criterio direttivo dettato dalla legge di delegazione di prevedere un indennizzo economico certo”. Tale premessa a quella che poi sarà la decisione di incostituzionalità per violazione del principio di uguaglianza lascia perplessi, in quanto da una parte si riconosce che il danno è prefissato e non dimostrabile nella sua interezza (“pur volendone fornire la prova”: ma la prova ha un senso se la si lascia affidata ai principi di responsabilità del diritto comune; e perché allora citarne la sussistenza ben nota al civilista); dall’altra riconosce la concreta applicazione della legge delega di prevedere un “indennizzo economico certo” (ovvero la circostanza che il datore conosca in anticipo le conseguenze della sua inadempienza). Questo criterio di certezza della misura del danno rientra nello “scopo” già riconosciuto dalla Corte per salvare la differenziazione ante – post 7 marzo 2015. Se il decreto 23 ha lo scopo di creare occupazione facilitando i licenziamenti; ciò si verifica giustappunto perché il licenziamento illegittimo viene sanzionato con misura predefinita e quindi certa. Tale scelta legislativa “dettare una disciplina diretta a favorire l’occupazione grazie a più facili procedure di cessazione del rapporto”, si 4 concretizza nella misura già nota delle conseguenze dell’eventuale illegittimità del licenziamento. Singolarmente lo “scopo” del legislatore viene “assolto” parzialmente dalla Corte e non nella sua interezza: né, invero, vediamo come si possa scindere se non al prezzo di inficiare lo scopo stesso. Ed in questo pare peccare di incoerenza sistematica la Corte, negando l’intera “filosofia occupazionale” che è la ratio del Decreto. Una volta dimenticatasi dello “scopo” nella quantificazione, la Corte ripercorre la precedente legislazione (quella sì lontana nel tempo; ad es. la 604/1966) sostenendone il valore di precedente storico-legislativo nell’evidenziare “la molteplicità dei fattori che incidono sull’entità del pregiudizio e conseguentemente sulla misura del risarcimento”. La conclusione della Corte finisce così coll’essere molto lontana dal rigetto della prima eccezione, arrivando ad ipotizzare la “personalizzazione” del danno come la più rispondente al nostro ordinamento giuridico. Questo assunto, della personalizzazione, apprezzabile di per sé (del resto principio di diritto comune), contrasta, comunque, con i paletti che rimangono fissati e riconosciuti come accettabili dalla Corte “….. tale discrezionalità (del giudice) si esercita, comunque, entro confini tracciati dal legislatore per garantire una calibrata modulazione del risarcimento dovuto, entro una soglia minima e una massima”. Questo stop and go della Corte, che da una parte sembra superare la predeterminazione di un quantum evocando la personalizzazione del danno e dall’altra, timorosa forse dell’eccessiva enunciazione, riconfinandosi entro soglie minime e massime, conferma una certa contraddittorietà argomentativa che culmina nel paragrafo finale dove si enuncia, come “direttiva” al giudice, che “ nel rispetto dei limiti, minimo e massimo dell’intervallo in cui va quantificata l’indennità spettante al lavoratore illegittimamente licenziato, il giudice terrà conto innanzitutto dell’anzianità di servizio. Criterio che è prescritto dall’art. 1 comma 7 lett. c) della legge n. 184 del 2013 e che ispira il disegno riformatore del d.lgs. n. 23/2015, nonché degli altri criteri, desumibili in chiave sistematica dalla evoluzione della disciplina limitativa dei licenziamenti (numero dei dipendenti, dimensioni dell’attività economica, comportamento e condizioni delle parti)”. 5 Dove quell’”innanzitutto” e quell’”ispirazione del disegno riformatore”, cui si deve adeguare il giudice, conferma la legittimità dello “scopo” della disciplina legislativa soffocata, però, nella sua applicazione. Ancora contraddittoria, in generale, ed alla luce delle considerazioni finali di costituzionalità dell’art. 3 co. 1 è l’affermazione di cui al paragrafo 9.2 della sentenza in cui la Corte riconosce di aver sempre “valorizzato la discrezionalità del legislatore in tema di licenziamento illegittimo” richiamando esplicitamente il suo precedente (sentenza n. 174 del 1970) in cui precisava “…….l’attuazione di questi principi (il bilanciamento dei contrapposti interessi) resta tuttavia affidato alla discrezionalità del legislatore ordinario, quanto alla scelta dei tempi e dei modi, in rapporto ovviamente alla situazione economica generale”. Nonostante questa petizione di principio, la Corte se ne dimentica per arrivare a sindacare pesantemente la scelta legislativa sui “tempi e modi” e senza per di più la considerazione di quella situazione economica generale, giustappunto alla base del Job Act, trascurando, in primis, lo “scopo” del legislatore, così singolarmente e tenacemente difeso per evitare la censura di illegittimità della prima (eventualmente assorbente) censura.
Le riflessioni precedenti ci consentono ulteriori considerazioni nell’applicazione concreta, che poi è quella che interessa i cosiddetti operatori sul campo, avvocati e giudici. La prima domanda che si fanno, molto semplicemente, gli addetti ai lavoratori: ma se il minimo previsto dal Decreto 23 fosse stato (diciamo) otto mensilità e poi due mensilità annue fino ad un massimo di 24, il criterio dell’anzianità sarebbe sopravvissuto? Probabilmente non si sarebbe arrivati nemmeno a scomodare la Corte, anche se la considerazione di cui sopra sembra inficiata dal successivo correttivo del Decreto Dignità, che ha alzato i limiti e che non è bastato alla Corte, tutta tesa a demolire il criterio con la conseguenza che la legge Fornero è oggi meno favorevole del Job Act nonostante i plurimi criteri su cui si basa “l’indennità Fornero”. Paradossalmente non si sarebbe arrivati alla incostituzionalità se, mantenendo i limiti bassi decisi dal legislatore, si fossero stabiliti, anche nel Job Act, i criteri della Fornero. 6 Mettendo, altresì, al confronto Decreto 23 e Decreto Dignità si vede come in entrambi il criterio di valutazione fosse quello dell’anzianità: il che ci consente di dire che la discrezionalità del legislatore si era espressa due volte ribadendo lo stesso criterio (seppur incrementato). Insomma, due legislatori, ben diversi come composizione e maggioranza politica, in due momenti storici diversi, hanno votato come criterio unico l’anzianità di servizio: c’è da chiedersi se la Corte non abbia invaso la riaffermata (uguale sul punto) volontà popolare e, conseguente, discrezionalità del legislatore. Ma torniamo alle ipotetiche applicazioni future. Se il numero dei dipendenti fosse modesto (diciamo 16), il che è di fatto prevalente nel panorama di imprese “nane” che contraddistinguono la nostra economia d’impresa, e le dimensioni dell’azienda fossero altrettanto modeste (diciamo pure con bilancio in rosso) ed il dipendente avesse tre figli a carico e moglie disoccupata, potrebbe rischiarare un’indennità inferiore rispetto ad altro collega con stessa anzianità e stesso carico di famiglia ma di impresa di 100 dipendenti ed in ottima salute aziendale. Insomma non è detto che gli altri criteri possono favorire una maggiore tutela economica: anzi. Paradossalmente, l’automatismo dell’anzianità rendeva tutti uguali: oggi può accadere che la valutazione discrezionale possa favorire l’applicazione di risarcimenti differenziati in relazione a situazioni del tutto uguali sul piano sostanziale. Ed ancor qui la Corte si è dimenticata della talora eccessiva divaricazione nelle interpretazioni dei giudici di merito con la conseguenza che un giudice più contenuto potrà concedere una somma inferiore rispetto al calcolo legato al mero e superato criterio di anzianità ed un giudice più generoso l’opposto: in spregio a quella certezza del danno che era fra gli scopi del Decreto 23. L’impatto sul processo : oggi il giudice della legge Fornero non fa (anche perché più spesso non richiesto con specifica istruttoria dall’avvocato) un approfondimento particolare per valutare l’indennità. Nello stabilire l’indennità risarcitoria utilizza un criterio per lo più equitativo dove l’anzianità (per esperienza processuale) ha sempre rivestito il criterio principale. La bocciatura del legislatore del Job Act di rendere ancor più semplice ed “egualitario” il criterio, anche per dare la certezza del quantum risarcitorio al datore, potrà complicare il provvedimento giudiziario con istruttoria più impegnativa (viste le somme in gioco) e con possibili impugnazioni anche 7 solo per il quantum. D’altronde con le somme stabilite dal Decreto Dignità l’Italia arriva ad avere le indennità risarcitorie fra le più alte nell’Unione Europea. A questo riguardo per dare uno sguardo all’ordinamento a noi più vicino, quello francese, che ha una legislazione lavoristica protettiva non inferiore alla nostra, risulta interessante la decisione del Conseil Constitutionnel n. 20 2015-715 del 5 agosto 2015. In quella decisione la Corte Costituzionale francese ha deciso sulla costituzionalità dell’art. 266 de la Loi pour la croissance, l’activité et l’égalité des chance économiques che modificava l’art. L. 1235-3 del Codice del lavoro francese. Tale modifica stabiliva che l’indennità risarcitoria in caso di licenziamento “sans cause réelle et sérieuse” fosse entro un limite minimo e massimo (in mese di salario); la stessa si basava, da una parte, sull’anzianità di servizio del lavoratore e, dall’altra, sulle dimensioni dell’impresa (da meno venti dipendenti ed oltre trecento dipendenti). Ma le Conseil Constitutionnel ha dichiarato l’incostituzionalità della norma sostenendo che “la differenziazione del trattamento a seconda delle dimensioni dell’impresa inficia “le principe d’égalité devant la loi”. Ovvero la conclusione opposta della nostra Corte Costituzionale a cui non basta l’anzianità di servizio ma pretende anche il criterio delle dimensioni dell’impresa. A questo punto ci sovviene una conclusione meramente linguistica: appellare la legge “Tutele crescenti” ormai è un fuori luogo. Forse è la prima volta che la decisione della Corte incide definitivamente anche sul titolo letterale della legge.