Testo integrale con note e bibliografia
Testo della sentenza del TAR Lazio
Testo della sentenza del Consiglio di Stato
Con la sentenza che si annota, il Supremo Collegio torna ad occuparsi della questione del riparto dell’onere della prova del licenziamento che il ricorrente assuma irrogato oralmente. Una questione annosa, oggi tornata a risolversi nell’ossequio alla più ortodossa visione sistematica, e nel rispetto dei principi generali, che vogliono l’onere di provare i fatti costitutivi della pretesa a carico di chi agisca. .
La pronuncia, il cui esito interpretativo è – a nostro modo di ritenere… – opinabile, è invece indubbiamente apprezzabile per la nitida messa a fuoco del tema deciso.
Il “passato giurisprudenziale” sulla questione è stato infatti costellato oltre che da taluni fraintendimenti (come quando si è confusa la questione sull’onere della prova del fatto-licenziamento con quella sull’onere della prova della forma del medesimo ), da un serpeggiante tentativo di elusione del fondamentale nucleo problematico. Credo, infatti, sostanzialmente elusiva della questione quella giurisprudenza che ribadisce la necessità – a fronte della posizione datoriale che eccepisca le dimissioni volontarie del dipendente – che il giudice di merito indaghi approfonditamente il comportamento tenuto dalle parti da cui desumere l'intento consapevole di voler porre fine al rapporto . Non v’è dubbio che l’incidenza di tali controversie «su beni giuridici oggetto di tutela privilegiata da parte dell'ordinamento» (per usare le parole care a buona parte della giurisprudenza de qua ) implichi l’esigenza di pervenire – quanto più frequentemente possibile – ad una positiva ricostruzione storica dei fatti che eviti l’applicazione della regola di giudizio. Né che il processo del lavoro, notoriamente improntato al potenziamento dei poteri istruttori officiosi, protenda per sua “natura” a tale esito. Ciò non significa, tuttavia, che nel processo giuslavoristico non residuino ipotesi in cui la regola di giudizio desumibile dall’art. 2697 cod. civ. costituisca l’ineludibile, estremo rimedio in grado di scongiurare la pronuncia di non liquet. E che, in tali ipotesi (per quanto statisticamente minoritarie), debba esser fatta chiarezza su “chi” debba provare “cosa”.
Può accadere infatti che il giudice istruttore non abbia – legittimamente – esercitato i propri poteri officiosi, causa la totale mancanza di un avvio di prova sul fatto, essendo, come noto, l’esercizio delle prerogative officiose istruttorie del giudice del lavoro inibito dalla mancanza assoluta di una “pista probatoria” avviata ex partibus ; ovvero che quelle prerogative non siano state puramente e semplicemente attivate (pur potendo, in linea di principio, esserlo) senza che possa porsi più rimedio a tale omissione, stante che la riforma all’art. 360 n. 5 c.p.c. conduce a disapplicare quell’orientamento – pur autorevolmente avallato dalle Sezioni unite, nel 2004 – favorevole alla censurabilità del mancato ricorso ai poteri istruttori dell’ufficio , (ma) rigorosamente entro il paradigma del vizio di motivazione da avanzare a carico del diniego opposto alla richiesta di parte . Come noto, la novella ha soppresso nella disposizione citata ogni riferimento alla “motivazione” della pronuncia, per il residuare della sola censura sulla «omissione circa l’esame d[el] fatto decisivo»; ed escluderei dunque che possa ricondursi a quel parametro il mancato esercizio di un potere meramente strumentale all’accertamento del fatto, ancorché non motivato . Difetterebbero infatti alla censura: a) il riguardare la stessa, immediatamente, l’omesso esame del fatto decisivo per la causa (l’applicazione della regola di giudizio implica infatti – evidentemente – che il fatto sia stato considerato, seppur nel contesto di un accertamento “convenzionalmente” avvenuto); b) il carattere di “decisività” dell’omissione censurata (l’oggetto immediato della censura è infatti, come si è detto, l’omessa attivazione di un potere istruttorio strumentale alla prova del fatto; e porvi rimedio non comporterebbe di per sé una certa prognosi di sovversione delle risultanze già accertate) .
Del resto, il ricorso alla regola di giudizio nel processo del lavoro non può nemmeno escludersi abbia luogo, molto semplicemente, anche quando, esercitati pure che siano stati i poteri istruttori officiosi, emerga un quadro probatorio inidoneo a dar prova positiva delle circostanze di causa (e, per ciò che adesso specificamente rileva, di quelle causative dell’interruzione del rapporto di lavoro).
Ove non elusiva del problema, la giurisprudenza del passato aveva – diversamente – mostrato, in molte e ripetute occasioni, una notevole ambiguità.
Certamente non trasparente – in un corposo orientamento giurisprudenziale – può dirsi anzitutto il frequente del termine “estromissione” ad indicare il fatto di cui il lavoratore sia onerato nella prova, in ambigua contrapposizione all’idea che egli debba provare, propriamente, il “licenziamento” . Usare infatti il termine “estromissione” quale sinonimo di cessazione nella esecuzione del rapporto lavorativo, indipendentemente dalle cause che ciò abbiano determinato, equivale a sollevare il lavoratore di qualsivoglia onere probatorio sulla vicenda di recesso in sé e per sé considerata , risultando, come intuibile, normalmente pacifico fra le parti che il rapporto abbia comunque subito un arresto . Non può peraltro negarsi che alcune pronunce rappresentative di tale orientamento abbiano con chiarezza lasciato intendere che nel caso in cui il datore non riesca a dare prova delle dimissioni, il giudice dovrà valutare ogni altra circostanza utile alla qualificazione di legittimità o meno del licenziamento, dando per presupposto che, accertata l’interruzione del rapporto lavorativo, esso sia cessato per volontà datoriale secondo quanto asserito dal lavoratore . In sporadiche altre pronunce, invece, la nozione di “estromissione” (o quella, meno ambigua, di “cessazione dal rapporto” ) è stata più nettamente esplicata come sinonimo di “mancata accettazione, da parte del datore di lavoro, della prestazione lavorativa messagli a disposizione dal lavoratore” , così gravando l’attore-lavoratore, dell’onere di mettere in mora il creditore: mezzo istruttorio sufficiente per ribaltare sul datore l’onere della piena prova delle dimissioni, a pena della sua soccombenza.
Con tagliente nitore, oggi la sezione lavoro:
a) fa giustizia del termine “estromissione”, nella impropria accezione di cessazione del rapporto negoziale lavorativo per qualsivoglia ragione di recesso o risoluzione essa abbia avuto luogo: in linea con le precedenti Cass. n. 31501 del 5 dicembre 2018 e Cass. n. 12520 del 21 settembre 2000 , secondo le quali il termine «estromissione» ha da valere «quale "sinonimo" di quello di "espulsione" e, perciò, di "licenziamento"», e con frustrazione dell’«artificio verbale di chiamare estromissione ogni cessazione del rapporto di cui non sia chiara la genesi»;
b) imputa al lavoratore che impugna un licenziamento, ancorché per dedurne l’inefficacia, causa il mancato il rispetto della forma scritta, l'onere di provare (oltre che la sussistenza di un rapporto di lavoro subordinato) «il fatto costitutivo della sua domanda, rappresentato dalla manifestazione di detta volontà datoriale, anche se realizzata con comportamenti concludenti»;
c) ribadisce il configurarsi di tale onere anche per il caso di contumacia del convenuto-datore;
d) nel caso opposto di costituzione in giudizio del datore, auspicato ancora una volta l’esercizio delle potestà istruttorie d’ufficio e l’opportuno, correlato contemperamento fra principio dispositivo ed esigenza di ricerca della verità materiale, sottolinea tuttavia, conclusivamente, che «nel caso residuale in cui perduri una non superabile incertezza probatoria, opererà la regola dell'art. 2697 c.c. in base alla quale il lavoratore che non ha provato il fatto costitutivo della sua domanda la vedrà respinta, anche se non risultino provate neanche le dimissioni eccepite dal datore, in ossequio al risalente principio processuale secondo cui l'onere probatorio del convenuto in ordine alle eccezioni da lui proposte sorge in concreto solo quando l'attore abbia a sua volta fornito la prova dei fatti posti a fondamento della domanda, sicché l'insufficienza (o anche la mancanza) della prova sulle circostanze dedotte dal convenuto a confutazione dell'avversa pretesa non vale a dispensare la controparte dall'onere di dimostrare adeguatamente la fondatezza nel merito della pretesa stessa» (cfr. punto 3.5. della motivazione in diritto) .
che tipicamente si fronteggiano nel contraddittorio di tale genere di controversie
Quali le ragioni addotte dalla Corte a fondamento della scelta interpretativa adottata?
In primo luogo, ragioni di ordine sistematico.
Il licenziamento costituisce manifestamente un elemento della fattispecie costitutiva del preteso accertamento di nullità o di inefficacia del licenziamento richiesto dal lavoratore. Esso non può dunque sfuggire al novero di quei fatti che il primo comma dell’art. 2697 cod. civ. vuole provati da «chi vuol far valere un diritto in giudizio».
Del resto, soggiunge la Corte, «non ha riscontro normativo la tesi secondo la quale il lavoratore possa limitarsi a una mera allegazione della circostanza dell'intervenuto licenziamento, obbligando il datore di lavoro a fornire la dimostrazione che l'estinzione del rapporto di durata sia dovuta ad altra causa»; ne deriverebbe una inversione dell’onere della prova «non prevista dalla disciplina limitativa dei licenziamenti individuali, che pone a carico del datore di lavoro l'onere di provare che il licenziamento sia giustificato (art. 5, I. n. 604 del 1966), ma non anche che la risoluzione del rapporto sia ascrivibile ad una volontà datoriale».
Ulteriori ragioni di ordine funzionale, qualificate dalla Corte (forse non del tutto propriamente) di ordine “sistematico”, escludono la configurabilità della detta inversione dell’onere di prova: il fatto, segnatamente, che «la ricostruzione della volontà di licenziare», come «eventuali difficoltà nel fornire la prova gravante sul lavoratore, trovano adeguato contrappeso in un utilizzo appropriato anche delle presunzioni affidato al prudente apprezzamento del giudice».
Nessun rilievo può muoversi, a mio modo di vedere, all’esegesi testuale della pronuncia.
Il licenziamento è indubbiamente elemento costitutivo della pretesa avanzata dal lavoratore in ragione dell’asserita invalidità o inefficacia dello stesso; né alcuna disposizione positiva prevede espressamente l’inversione all’onere della prova di esso.
Resta, però, opinabile l’argomento funzionale, e, in ultima analisi, la considerazione dei valori sostanziali che ne risultano intimamente implicati.
Vero è – magari – che la prova del licenziamento orale non è una “prova diabolica”: sebbene essa prospetti indubbie difficoltà, specie quando la sanzione sia stata intimata in assenza di alcun testimone e senza alcuna previa contestazione scritta (come continua purtroppo ad accadere in una molteplicità di rapporti condotti all’insegna dell’informalità e dello strapotere datoriale), circostanze secondarie possono ben indiziare del fatto che sia stato il datore a determinare, con un suo atto unilaterale di volontà, il recesso dal rapporto. Né può negarsi che il lavoratore è nella condizione – in linea di principio agevole – di precostituirsi la prova dell’offerta della propria prestazione e del conseguente eventuale rifiuto del datore. Ciò tuttavia non accade quando la conflittualità della vicenda, l’emotività o anche la semplice superficialità inducono irrazionalmente il lavoratore ad astenersi – dopo il conflitto – da qualsivoglia rapporto con la parte datoriale.
Specularmente vale per la prova delle dimissioni volontarie: in assenza di una inequivoca manifestazione scritta del lavoratore, anche il datore potrà servirsi di circostanze indiziarie che conducano inferenzialmente il giudice a ricavarne l’accadimento.
Con riferimento ad entrambe le parti, la mancanza di una chiara manifestazione della volontà di recesso potrebbe essere spia di una condotta maliziosa, la cui considerazione deve guidare nella soluzione della questione oggetto della presente analisi. Da parte datoriale potrebbe trattarsi della condotta di chi, comminando nascostamente il licenziamento, della cui prova presuma poi gravato il lavoratore, persegua proprio una patente di immunità nel comminarlo contra legem; da parte del lavoratore, invece, la domanda di tutela avverso un licenziamento “occulto” potrebbe maliziosamente tendere a mascherare una pregressa propria condotta lato sensu recessiva, adottata in via di mero fatto.
In linea di principio, credo possa ritenersi che l’ipotizzata condotta maliziosa del lavoratore non costituisca la premessa per dover addossare a lui la prova del licenziamento, segnatamente quando la condotta recessiva di cui s’è detto sia data da dimissioni volontarie. Le dimissioni, infatti, sono un atto pienamente discrezionale che il lavoratore non ha interesse ad esprimere ambiguamente, neppure quando la legge non ne richieda una precisa ed inequivoca modalità di manifestazione a pena di inefficacia, coma da diversi anni, peraltro, come noto, accade per la stragrande maggioranza dei rapporti di lavoro . Non è ragionevole, in altri termini, pensare ad una precostituzione fraudolenta fra la manifestazione orale delle dimissioni e la domanda di tutela avverso il licenziamento per ipotesi poi successivamente avanzata in funzione di superamento delle prime. Chi voglia ottenere gli effetti di un atto negoziale pienamente libero, adottato nel proprio stesso interesse, non ha infatti alcuna ragione per esprimerlo ambiguamente o con forme che lo espongano addirittura alla sanzione di inefficacia... Nella normalità dei casi, insomma, a fronte di una (ipotizzata) effettiva volontà di dimissioni della controparte, il datore potrà disporre agevolmente della relativa prova.
Qualora, peraltro, la domanda maliziosa di tutela avverso il licenziamento “occulto” (perché asseritamente intimato in forma orale), piuttosto che frustrare gli effetti di una pregressa volontà di dimissioni, intendesse mascherare precedenti condotte di allontanamento arbitrario dal lavoro da parte del dipendente, è ragionevole ritenere che quest’ultime sapranno comunque ben emergere documentalmente, considerata la reazione di contestazione che ne deriverà da parte del datore, se del caso anche nel contesto di iniziative sanzionatorie. Una naturale “evoluzione documentale” della vicenda di interruzione arbitraria del rapporto lavorativo per condotta del lavoratore dovrebbe dunque, ancora una volta, di regola consentire alla parte datoriale una agevole prova documentale indiretta di tale circostanza.
Diverso è il caso di maliziosa “condotta orale” del datore.
In particolare quando si tratti di licenziamento che l’ordinamento impone irrogarsi per iscritto, come vale per la stragrande maggioranza dei rapporti di lavoro subordinato, oltre che nei rapporti di dirigenza , va considerato che gravando il lavoratore della prova del licenziamento si finisce con il potenziare, oltre che le chances di elusione dell’obbligo di forma imposta dall’ordinamento, altresì, grazie proprio a tale immediata violazione formale, l’aggiramento di ogni altro obbligo sostanziale sulla intrinseca legittimità della sanzione . Mancare la prova del fatto/licenziamento comporta infatti il rischio che – impregiudicato l’accertamento sulle ragioni della cessazione del rapporto: unico dato certo fra le parti – l’istanza di tutela del lavoratore venga respinta in assenza di qualsivoglia indagine sulla meritevolezza sostanziale della sanzione che la regola di giudizio applicata in danno del lavoratore ha escluso potersi accertare. L’onere della prova sul licenziamento (posta a carico del lavoratore) può rischiare, insomma, di offrire al datore una patente di immunità rispetto a licenziamenti illegittimi anche per ragioni sostanziali, che la violazione preliminare all’obbligo di forma ha finito col sottrarre ad ogni controllo di merito. A tal riguardo, pur non potendosi nulla formalmente obiettare al rilievo della Corte, secondo cui dalla disciplina positiva che grava il datore di lavoro dell’onere di provare che il licenziamento sia giustificato non può inferirsene con deterministica necessità logica un analogo onere sul fatto-licenziamento in sé e per sé, resta da chiedersi se sia ragionevole che la prova del fatto preliminare che l’ordinamento vincola ad una forma inequivoca, gravi su un soggetto diverso da chi – rispettata che fosse stata la forma, o comunque garantitane la nitida percezione – dovrebbe provarne la legittimità sostanziale.
Vi è – in altri termini – uno iato funzionale, se non logico-formale, nella differenziazione di trattamento fra i due fatti: la forma scritta costituisce infatti un presidio funzionalmente strumentale alla verifica di meritevolezza sostanziale della sanzione, sì da potersi ritenere che – ferma l’autonomia concettuale fra i due fatti, e riconosciuta pure la rilevanza del secondo sul solo presupposto del(l’esistenza del) primo – sarebbe più coerente, teleologicamente, che la prova di entrambi venisse addossate proprio al soggetto gravato della dimostrazione dei secondi.
Non nascondiamo che siffatta proposta ricostruttiva risente fortemente della considerazione dei valori sostanziali immediatamente sottesi (more solito) alle politiche processuali sulla prova. Essa, però, forse più di quanto non avesse saputo esprimere la tralatizia e forse un po’ fumosa formula giustificativa dell’orientamento parimenti favorevole a realizzare un’inversione dell’onere della prova sul fatto costitutivo del licenziamento (inaugurata, come detto, nel 1985 e da allora supinamente riproposta dalla giurisprudenza conforme) mostra con trasparenza la sua genesi sistematico-funzionale, contrapponendo schiettezza – per così dire – “politica” alla lucida geometria sistematico-argomentativa della giurisprudenza che si commenta. La quale, nei giorni in cui stendiamo queste brevi note, ha peraltro ricevuto un ribadimento pressoché letterale in altra pronuncia della stessa sezione lavoro della Cassazione (la sent. n. 13195) dello scorso 16 maggio , con riguardo alla quale valgono, evidentemente, i medesimi rilievi qui formulati.