Testo integrale con note e bibliografia

1. Il presente scritto è dedicato al commento della normativa dell’Organizzazione internazionale del lavoro (di seguito: OIL) in materia di tutela contro il licenziamento ingiustificato. L’argomento è centrale in ogni sistema giuslavoristico, poiché la robustezza dell’apparato di protezione contro il recesso ingiustificato del datore di lavoro si ripercuote inevitabilmente sull’effettività di ogni altra disposizione di diritto del lavoro . L’interesse dell’OIL per l’argomento è però altalenante. L’organizzazione non ha ritenuto di includere la propria legislazione in tale ambito (la Convenzione n. 158 del 1982: v. infra il par. 2) tra i diritti fondamentali della «Dichiarazione sui diritti e principi fondamentali» , approvata dalla Conferenza internazionale del lavoro il 18 giugno 1998, rendendo così vincolanti le relative previsioni per tutti gli Stati membri .
Né la tutela contro i licenziamenti illegittimi traspare dalla più recente strategia dell’organizzazione per promuovere il Decent Work (Decent Work Agenda), avviata a partire dal 1999 . All’interno dei quattro obiettivi che tutti gli Stati membri sono tenuti a perseguire simultaneamente , il tema del miglioramento delle condizioni di lavoro trova emersione specialmente nel secondo, consacrato al potenziamento e all’estensione della protezione sociale, intesa sia come sicurezza sociale, sia, per l’appunto, come tutela delle condizioni di lavoro. Qui, però, l’attenzione dell’organizzazione si focalizza principalmente sull’ambiente di lavoro («healthy and safe working conditions»), sul salario minimo («minimum living wage») e sull’orario di lavoro («hours»), mentre tutte le altre questioni, comprese quelle attinenti al recesso datoriale, passano in secondo piano («other conditions of work») (par. I.A.ii della Dichiarazione sulla giustizia sociale per una globalizzazione giusta) .
Allo scoppiare della crisi economico-finanziaria globale l’attenzione dell’OIL per la tutela contro i licenziamenti riguadagna, comprensibilmente, terreno. Nella risoluzione “Uscire dalla crisi. Un patto globale per il lavoro”, adottata dalla Conferenza internazionale del lavoro il 19 giugno 2009, l’organizzazione ribadisce l’importanza del rispetto degli international labour standards, menzionando, tra gli strumenti di rilievo accanto alle Convenzioni fondamentali (quelle che riguardano direttamente i core labour standards), anche la Convenzione e raccomandazione «concerning the termination of employment» .
Si tratta, però, di un ritorno di interesse effimero: nessun cenno alla tutela contro i licenziamenti è riscontrabile nella recentissima «Dichiarazione del centenario per il futuro del lavoro», adottata dalla Conferenza internazionale del lavoro il 21 giugno 2019. Il documento, in effetti, ribadisce l’attaccamento dell’organizzazione per l’ambiguo concetto di Decent Work e per la relativa agenda . L’OIL è dunque chiamato, certo, a «promuovere i diritti dei lavoratori come elemento portante per il conseguimento di una crescita inclusiva e sostenibile», ma l’attenzione è focalizzata sui core labour standards individuati nella dichiarazione del 1998 . D’altro canto, gli Stati membri sono spronati (anche) a «rafforzare le istituzioni del lavoro per assicurare un’adeguata protezione a tutti i lavoratori e a riaffermare la persistente rilevanza del rapporto di lavoro subordinato come mezzo per garantire la certezza del diritto e la protezione legale dei lavoratori», ma, ancora una volta, tale protezione è concretizzata con riferimento alle dimensioni chiave della Decent Work Agenda sotto questo profilo, ovvero il rispetto dei diritti fondamentali, proclamati nel 1998, un salario minimo adeguato, un limite massimo all’orario e la protezione della salute e sicurezza sul lavoro (v. il par. III.B della dichiarazione).
La crucialità della tutela contro i licenziamenti ingiustificati risalta ictu oculi nel quadro internazionale e comparato. Tuttavia, l’OIL non è in grado di accreditare i propri standard minimi in modo tale da generalizzarne l’applicazione al di là del meccanismo formale della ratifica ed esecuzione delle Convenzioni . Ma vi è di più: nel succedersi delle dichiarazioni e risoluzioni più recenti della Conferenza internazionale del lavoro sembra prevalere, con l’eccezione della risoluzione del 2009, profondamente condizionata dalla crisi globale, un sostanziale disinteresse dell’organizzazione per la tematica.

2. Il diritto internazionale del lavoro si è sviluppato in parallelo con le legislazioni nazionali sulla materia : pertanto, non desta stupore che la questione della tutela contro i licenziamenti si sia posta soltanto dopo la Seconda Guerra Mondiale. In effetti, prima di allora nel mondo occidentale il principio del libero recesso da entrambe le parti del rapporto di lavoro a tempo indeterminato era assolutamente consolidato, mitigato soltanto dalla previsione di periodi di preavviso . Le eccezioni più importanti erano costituite dalla Germania, ove il Betriebsrätegesetz del 1920 garantiva una tutela discretamente robusta a tutti i lavoratori licenziati ingiustamente nelle unità produttive in cui operassero i consigli d’azienda (i Betriebsräte, appunto) , e dalla Spagna, ove il principio della giustificazione del recesso datoriale fu sancito sin dalla Ley de Contratos de Trabajo del 1931 .
La protezione contro i licenziamenti non fa capolino né nell’art. 427 del Trattato di Versailles del 1919, che costituisce l’atto fondativo dell’OIL, né nella Dichiarazione di Filadelfia del 1944 , che ne sancisce la rinascita, né, infine, nel Preambolo della sua Costituzione (9 ottobre 1946). In tali documenti sono, invece, menzionati, pur nella varietà delle formulazioni e nell’ambito di elenchi esemplificativi, il diritto di associazione sindacale e contrattazione collettiva, il diritto a un lavoro liberamente scelto, la retribuzione adeguata e sufficiente, la limitazione dell’orario di lavoro e il diritto al riposo settimanale, l’abolizione del lavoro minorile e la tutela di quello dei giovani, la parità retributiva tra uomini e donne, il collocamento dei lavoratori, la lotta contro la disoccupazione, la protezione contro gli infortuni sul lavoro e le malattie professionali e comuni, la formazione professionale, la tutela della maternità, le pensioni di vecchiaia e di invalidità .
La situazione cominciò a cambiare nel 1950, quando la Conferenza internazionale del lavoro, rilevando l’assenza di strumenti dell’OIL in materia di licenziamenti, commissionò un rapporto sulle legislazioni nazionali e sulle prassi in tale ambito . Facendo seguito agli studi presentati, la Conferenza adottò nel 1963 la Raccomandazione n. 119 sui licenziamenti . Nella prassi dell’organizzazione l’approvazione dello strumento non vincolante della raccomandazione è l’escamotage utilizzato quando su una determinata materia non si sia raggiunto in conferenza un livello di consenso sufficiente per il varo della più impegnativa convenzione . In effetti, negli anni ’50 l’unico grande Paese dell’Europa occidentale che si era dotato di un’ambiziosa legge di tutela contro i licenziamenti, imperniata sui principi della giustificazione del recesso e sulla conseguente inefficacia dei provvedimenti espulsivi privi di essa, era stato la Germania , con il Kündigungsschutzgesetz del 1951 .
In tale contesto la Raccomandazione n. 119 rappresenta senza dubbio, per quanto riguarda le soluzioni proposte, un atto decisamente coraggioso. Nel diritto internazionale del lavoro essa costituisce il primo punto di emersione del principio della necessaria giustificazione del recesso datoriale («valid reason»), radicata nella persona o nel comportamento del lavoratore («connected with the capacity or conduct of the worker»), o in ragioni di carattere economico-organizzativo («based on the operational requirements of the undertaking, establishment or service») (par. 2). Viene altresì affermato il diritto del lavoratore di ricorrere contro il licenziamento ingiustificato (par. 4), ottenendo un adeguato ristoro («adequate compensation»), sempre che non sia già intervenuta la reintegrazione («unless reinstated») (par. 6). Non mancano, infine, disposizioni in materia di licenziamenti collettivi, volte a favorire il confronto con i rappresentanti dei lavoratori, a suggerire criteri di scelta imparziali dei dipendenti in esubero, a sancire la priorità nella riassunzione di coloro che sono stati coinvolti in tali recessi (parr. 12 ss.).
La Raccomandazione n. 119 ha avuto il pregio di avviare e accompagnare in molti Stati membri la discussione in merito alla disciplina di tutela contro i licenziamenti illegittimi . In materia non è certamente possibile stabilire relazioni di causa ad effetto, dovendosi senz’altro tener conto anche del particolare contesto economico-politico e di relazioni industriali del periodo. Almeno nel mondo occidentale, un ventennio abbondante di sostenuta espansione economica, interrotta soltanto da brevi periodi di recessione contenuta (le cd. “congiunture”), aveva lasciato il posto a una crisi economica seria e prolungata, quella degli anni ’70, durante la quale, tuttavia, «sia le relazioni politiche, sia quelle industriali rimanevano favorevoli al mondo del lavoro salariato» . Un humus dunque incredibilmente favorevole per lo sviluppo di una legislazione del lavoro protettiva del prestatore. E, in effetti, tra gli anni ’60 e ’70 normative di tutela contro i licenziamenti illegittimi furono adottate nei principali Paesi dell’Europa occidentale: in Italia, anzitutto, con la legge n. 604/1966 e l’art. 18, l. n. 300/1970, ma anche in Germania (il Kündigungsschutzgesetz del 1951 fu completamente riscritto, in senso maggiormente tutelante per i lavoratori, nel 1969), nel Regno Unito (1972 e 1975), in Francia (1973), in Svezia (1974), in Spagna (1980) . Ad ogni modo, la spinta alla creazione o al potenziamento di tutele contro il recesso datoriale ingiustificato varcò in quegli anni i confini dell’Europa capitalista per assumere un respiro mondiale, coinvolgendo i Paesi del blocco socialista e quelli in via di sviluppo .
Nell’ambito della revisione periodica dello strumento realizzata nel 1974 , il Comitato di esperti dell’OIL sull’applicazione delle raccomandazioni e convenzioni ne sottolineò il rilevante impatto sull’evoluzione legislativa degli Stati membri, e, alla luce di tali importanti sviluppi, suggerì di elaborare un nuovo provvedimento dell’organizzazione più adatto alle nuove sfide, evidenziando, in particolare, come la sicurezza dell’impiego costituisca un aspetto essenziale del diritto al lavoro. Il nuovo dispositivo fu presentato e discusso alla Conferenza internazionale del lavoro del 1981, e fu infine adottato dalla sessantottesima Conferenza internazionale del lavoro di Ginevra del 1982 . Esso è composto di una Convenzione, la n. 158, che contiene i veri e propri international labour standards in materia di licenziamenti ingiustificati, e da una Raccomandazione, la n. 166, adottata contestualmente, che completa e precisa l’impianto della Convenzione . Quest’ultima riprende le linee essenziali della Raccomandazione n. 119, ma non rinuncia a rafforzarne i livelli protettivi sotto diversi profili : il fine è dunque quello di consolidare e generalizzare gli international labour standards nella materia de qua mediante lo strumento vincolante della convenzione .
L’obiettivo è stato raggiunto soltanto in parte: il numero di ratifiche della Convenzione è deludente e il periodo successivo al suo varo segna anche l’inizio della parabola discendente di attenzione dell’OIL per la tutela contro i licenziamenti. Sulle complesse ragioni di questo insuccesso si tornerà alla fine del presente contributo: conviene invece fare immediatamente qui il punto sul tasto dolente delle ratifiche. I Paesi che si sono impegnati a trasporre nel proprio ordinamento la Convenzione n. 158 sono soltanto 36, per lo più in via di sviluppo. Si contano ben 12 Paesi africani, 4 Stati dell’America latina e dei Caraibi (ma il Brasile ha denunciato la Convenzione nel 1996), 2 Paesi asiatici e 2 dell’Oceania (tra i quali l’Australia). I Paesi europei sono 16, ma di questi solo 10 appartengono all’Unione europea: Cipro, Finlandia, Francia, Lettonia, Lussemburgo, Portogallo, Slovacchia, Slovenia, Spagna e Svezia . Non si può certo affermare che si tratti di una delle convenzioni più popolari tra quelle dell’OIL, se si pone mente alla circostanza che i Paesi membri dell’organizzazione sono ben 187.

3. A fronte della scarsa attenzione degli Stati membri, l’impianto della Convenzione appare solido e attestato su standard garantistici piuttosto elevati. Il campo di applicazione, scolpito nell’art. 2, copre tutti i settori di attività pubblici e privati («all branches of economic activity» e «all employed persons»: co. 1), e consente agli Stati firmatari di escludere automaticamente soltanto i lavoratori con contratti a termine o impiegati saltuariamente per un breve lasso di tempo, nonché quelli impegnati in un periodo di prova («period of probation») o di consolidamento del rapporto («qualifying period of employment») , purché la durata di questi ultimi sia ragionevole e determinata prima dell’inizio della relazione lavorativa (co. 2). E’ compito degli Stati membri fissare la lunghezza del patto di prova e del periodo di consolidamento del rapporto: tuttavia, il Comitato di esperti ha avuto cura di precisare che un’eccessiva estensione finirebbe per negare a un gran numero di lavoratori le tutele assicurate dalla Convenzione, con relativa violazione della stessa .
Altre esclusioni, comprese quelle legate alle particolari condizioni di impiego e alla dimensione o natura dell’impresa, devono essere preventivamente discusse con i partner sociali e comunicate all’OIL nei rapporti sull’applicazione della Convenzione, motivando le ragioni di tali eccezioni (co. 4-6) . Si può trattare, come precisato nei lavori preparatori e dal Comitato di esperti, dei pubblici dipendenti e dei lavoratori marittimi, per i quali devono comunque essere garantite tutele equivalenti a quelle della Convenzione (co. 4), dei lavoratori domestici, agricoli, di quelli nel settore delle costruzioni e dei dirigenti, nonché di coloro che sono impiegati nelle imprese più piccole .
La Convenzione estende indirettamente i propri effetti anche alla disciplina dei contratti a termine : essa infatti richiede agli Stati firmatari di predisporre misure adeguate («adequate safeguards») onde evitare che tramite rapporti a tempo determinato possano essere aggirate le tutele offerte dallo strumento internazionale (co. 3) . A tal fine la Raccomandazione n. 166 suggerisce agli Stati membri di prevedere ragioni oggettive di carattere temporaneo per l’apposizione del termine al contratto di lavoro, oppure di stabilire limiti nel rinnovo di contratti a termine per i quali le suddette ragioni non sussistano; in caso di violazione dovrebbe essere stabilita la conversione in contratto a tempo indeterminato (par. 3). Il Comitato di esperti ha richiesto agli Stati membri di prestare particolare attenzione nell’attuazione delle proprie riforme improntate alla flessibilità in entrata, in quanto normative troppo accomodanti nei confronti della reiterazione di contratti a termine o nei riguardi del ricorso alla cd. “falsa autonomia” rischiano di vanificare le tutele predisposte dalla Convenzione e di provocarne in tal modo la violazione, se non nella lettera, almeno nelle spirito .

4. La Convenzione abbraccia tutte le tipologie di licenziamenti, sia disciplinari che di carattere economico-organizzativo, sia individuali che collettivi. Il principio della necessaria giustificazione del licenziamento, vero e proprio cardine degli international labour standard in materia di recesso datoriale , è statuito nell’art. 4: il rapporto di lavoro non può essere interrotto se non in presenza di una valida ragione («valid reason») attinente al comportamento del lavoratore («conduct»), alla sua capacità di svolgere la prestazione lavorativa («capacity») o a esigenze operative dell’impresa o dello stabilimento («operational requirements of the undertaking, establishment or service»).
La tripartizione in licenziamenti disciplinari, licenziamenti inerenti alla capacità del lavoratore e recessi di carattere economico-organizzativo, non è consueta per il giurista italiano, abituato a ragionare nei termini dicotomici del giustificato motivo soggettivo e oggettivo di licenziamento . Tuttavia, essa è tradizionale per diversi ordinamenti, in primis quello tedesco , e sottrae al g.m.o. le ipotesi che sono radicate nella persona del lavoratore, ma non dipendono da un suo comportamento inadempiente . Qui va però osservato che la Convenzione si riferisce alla sola «capacity» del lavoratore, cosicché alla relativa categoria possono essere ricondotte la carenza di conoscenze o competenze necessarie per svolgere la prestazione, lo scarso rendimento non imputabile e la sopravvenuta inabilità alle mansioni conseguente a malattia o infortunio . Non vi trovano, invece, collocazione altre ipotesi che in Italia sono ricomprese nel g.m.o. e in Germania, invece, nella personenbedingte Kündigung, che, insieme alla verhaltensbedingte Kündigung e alla betriebsbedingte Kündigung, costituisce la triade: per es. la revoca di un’autorizzazione indispensabile per lo svolgimento del lavoro o la carcerazione preventiva. Con riferimento a quest’ultima, il Comitato di esperti, pur riconoscendo che in talune ipotesi anche comportamenti estranei al rapporto di lavoro, specie quando risultino in condanne penali, possono rilevare ai fini del licenziamento disciplinare, raccomanda in via generale la sospensione del rapporto per coloro che siano reclusi per periodi di tempo non eccessivamente lunghi, per favorirne il ritorno alla vita normale una volta scontata la pena .
L’assenza per malattia o infortunio e l’eccessiva morbilità, che in Italia consentono al datore di recedere al superamento del periodo di comporto ex art. 2110, c.c. e in Germania rientrano nella personenbedingte Kündigung , sono invece disciplinate dalla Convenzione all’art. 6. La Convenzione chiarisce che l’assenza temporanea per malattia o infortunio non costituisce una valida ragione per porre fine al rapporto (co. 1), peraltro consegnando agli Stati firmatari il compito di fissare la durata del periodo di comporto e le certificazioni mediche richieste (co. 2) .
L’art. 5 stila un elenco esemplificativo di ragioni non idonee a giustificare il recesso datoriale («the following, inter alia, shall not constitute valid reasons for termination»): si tratta per lo più di vere e proprie ipotesi di discriminazione o ritorsione, molte delle quali trovano specifica repressione in altri strumenti convenzionali dell’OIL (per es. la Convenzione n. 98 per il licenziamento per ragioni sindacali, la n. 111 per diversi casi di discriminazione, la n. 135 per il recesso legato alla qualità di rappresentante dei lavoratori, la n. 156 e la n. 183 per la maternità e per varie ipotesi di congedi connessi a ragioni di cura dei figli o di prossimi congiunti).

5. La Convenzione n. 158 non conosce la summa divisio tra licenziamenti per g.m.o. e licenziamenti collettivi, tanto cara al legislatore e alla giurisprudenza del nostro Paese : lungi dal suggerire una differenza ontologica tra licenziamenti individuali per motivi economico-organizzativi e recessi collettivi, il provvedimento dell’OIL non contiene nemmeno una definizione degli «operational requirements» di cui all’art. 4. Nel rapporto presentato dall’Ufficio internazionale del lavoro per la prima discussione alla Conferenza si faceva riferimento a «ragioni economiche, tecnologiche, strutturali o di natura similare», non connesse, suggerì poi il Comitato di esperti, con il comportamento o la capacità del lavoratore . Non è casuale che si tratti delle medesime ragioni al ricorrere delle quali la Convenzione predispone una specifica procedura che coinvolge i rappresentanti dei lavoratori e le pubbliche autorità (artt. 13-14). In queste ipotesi, ferme tutte le altre tutele previste dalla Convenzione, gli Stati firmatari possono subordinare l’applicazione della procedura alla presenza di un numero minimo di recessi (art. 13, co. 2). L’esegesi sistematica conferma dunque l’unitarietà dei recessi di tipo economico-organizzativo nell’ambito del diritto internazionale del lavoro : ciò che può (ma non necessariamente deve) differenziare i licenziamenti collettivi è dunque la procedura di coinvolgimento dei rappresentanti dei lavoratori, che è consentito agli Stati membri di attivare anche solo quando il datore pianifichi un numero di recessi superiore a una determinata soglia.
Ai sensi della Convenzione, la procedura si apre con l’informazione previa e «in tempo utile» («in good time») ai rappresentanti dei lavoratori, con riguardo, tra l’altro, alle ragioni del licenziamento, al numero e al profilo professionale degli esuberi, e al periodo in cui i recessi saranno intimati (art. 13, co. 1, lett. a). All’informazione deve seguire, nel più breve tempo possibile («as early as possible»), il confronto con i rappresentanti dei lavoratori («consultation») in merito alle misure da adottare per evitare i licenziamenti o minimizzare l’impatto, compresa la ricollocazione in altra posizione lavorativa (art. 13, co. 1, lett. b). La Convenzione identifica i rappresentanti dei lavoratori de quo con quelli di cui alla Workers’ Representatives Conventions n. 135 del 1971 (art. 13, co. 3) : è evidente l’obiettivo di evitare che il confronto si possa svolgere con rappresentanze create ad hoc dall’imprenditore e pertanto manipolabili, finendo dunque per non essere genuino .
I parr. 19-26 della Raccomandazione n. 166 contengono diversi suggerimenti agli Stati membri sui modi per rendere più efficace e proficua la procedura. Vengono precisati i termini della consultazione (par. 19) e suggeriti alcuni esempi di misure volte a evitare i licenziamenti o ridurne l’impatto: contingentamento delle assunzioni, scaglionamento nel tempo dei recessi, trasferimenti interni, formazione e riconversione professionale, pre-pensionamenti, taglio degli straordinari e riduzione dell’orario di lavoro (parr. 21-22). Il par. 23 raccomanda l’adozione di criteri di scelta per selezionare i lavoratori che dovranno lasciare l’azienda, pur non entrando nel dettaglio degli stessi: dovranno comunque contemperare equamente le esigenze dell’impresa con gli interessi dei lavoratori.
Dopo aver suggerito l’attribuzione di un diritto di precedenza nel reimpiego presso l’impresa che ha proceduto ai licenziamenti per ragioni economico-organizzative in favore dei lavoratori coinvolti (par. 24), gli ultimi paragrafi della Raccomandazione sono dedicati alle (altre) misure che possono attutire l’impatto sociale dei licenziamenti: la rapida ricollocazione («as soon as possible») in un altro impiego appropriato, previa formazione o riqualificazione professionale ove necessario (par. 25) ; il sostegno economico durante i periodi di training e nelle ipotesi in cui il nuovo impiego richieda un cambio di residenza (par. 26). Per lo svolgimento di questi compiti cruciali e per sostenerne le ingenti spese connesse la Raccomandazione evoca l’intervento dell’autorità pubblica competente («the competent authority»), il cui ruolo è invece lasciato piuttosto indefinito dall’art. 14 della Convenzione: questa disposizione stabilisce l’obbligo datoriale di informare detta autorità per iscritto il più presto possibile e comunque prima che i recessi siano perfezionati, senza, tuttavia, circoscriverne le prerogative .
L’esame sommario delle disposizioni della Convenzione e della Raccomandazione sui licenziamenti per ragioni economico-organizzative evidenzia il fitto dialogo intervenuto con l’ordinamento comunitario . La Raccomandazione del 1963 ha senza dubbio influenzato l’adozione della direttiva n. 75/129/CEE sui licenziamenti collettivi e questa, a sua volta, è ben presente nel diritto internazionale del lavoro pattizio successivo: e il dialogo è continuato anche nell’esegesi successiva dei testi normativi, giudiziale e non . Il linguaggio comune comprende la nozione stessa di licenziamento collettivo, la cui differenza con quello individuale per ragioni economico-organizzative è solo quantitativa, e non qualitativa; la centralità del confronto con i rappresentanti dei lavoratori , che deve essere attivato prima che i recessi diventino definitivi e con modalità tali che la consultazione possa ancora influire sul processo decisionale ; l’invito a tutti gli stakeholder coinvolti a concordare un piano di misure per ridurre i licenziamenti e mitigarne l’impatto, senza però giungere all’obbligo datoriale di predisporre un piano sociale ; il coinvolgimento dell’autorità pubblica.
Va infine osservato, sempre con riferimento ai licenziamenti economico-organizzativi, che il legislatore internazionale non si preoccupa oltremodo dell’intangibilità della libertà imprenditoriale. Se il giudice deve limitarsi a verificare la sussistenza delle ragioni addotte dal datore , il legislatore ordinario può bilanciare esigenze economiche e sociali, stabilendo se tali ragioni siano sufficienti per giustificare il recesso (art. 9, co. 3).

6. Sotto il profilo delle procedure già si è detto di quella applicabile ai licenziamenti per ragioni economico-organizzative, la cui attivazione gli Stati firmatari possono subordinare al raggiungimento di determinate soglie occupazionali. Ma la Convenzione impone una procedura anche per il caso di licenziamento disciplinare: il lavoratore deve essere previamente sentito a propria difesa , a meno che, per le circostanze del caso concreto, non sia ragionevole che il datore conceda tale possibilità (art. 7).
La Raccomandazione rafforza notevolmente i profili procedurali. Anzitutto, estende indirettamente il campo di applicazione del diritto internazionale del lavoro alle sanzioni disciplinari, suggerendo che il lavoratore riceva un richiamo scritto prima di essere licenziato, quando si sia macchiato di un comportamento che secondo la legge o la prassi nazionale giustifica il recesso soltanto se reiterato (par. 7). Un richiamo analogo dovrebbe precedere il licenziamento quando il rendimento del lavoratore sia insoddisfacente (par. 8). In questo modo la Raccomandazione accoglie il principio di proporzionalità delle sanzioni disciplinari, anche espulsive, all’infrazione commessa, stabilito nel nostro Paese sin dalla codificazione del 1942 (art. 2106, c.c.). La Raccomandazione accoglie anche il principio dell’immediatezza del licenziamento disciplinare, poiché, se il datore tergiversa, lasciando trascorrere un «reasonable period of time» dal momento in cui è venuto a conoscenza del fatto, «si dovrebbe ritenere che […] abbia rinunciato al proprio diritto di recedere dal rapporto» (par. 10). La Raccomandazione suggerisce altresì agli Stati membri di consentire che il lavoratore sia assistito da una persona di propria scelta quando espone le proprie difese al datore di lavoro nell’ambito del procedimento disciplinare (par. 9).
Quanto ai rimedi esperibili contro il recesso intimato non iure, la Convenzione attribuisce al lavoratore licenziato il diritto di ricorrere a un organismo imparziale, quale una corte, un tribunale del lavoro, un comitato arbitrale o un arbitro (art. 8) . Qualora la legge dello Stato firmatario subordini il licenziamento all’autorizzazione di un organismo competente , il predetto diritto di ricorso del lavoratore può essere conseguentemente modulato (co. 2). La Convenzione consente ai Paesi membri di stabilire un termine di decadenza per l’impugnazione dei licenziamenti (co. 3): è, tuttavia, previsto che si debba trattare di un periodo di tempo ragionevole («reasonable period of time»), cosicché non sarebbero ammesse scadenze giugulatorie .
Secondo il Comitato di esperti il diritto di ricorso a un organismo imparziale che statuisca, in particolare, sulla giustificazione del licenziamento , costituisce un principio cardine della Convenzione: per conseguenza, ogni sua esclusione, anche parziale o supplita mediante autorizzazione inappellabile di un organismo amministrativo, costituisce violazione del diritto internazionale pattizio . Nonostante l’insistenza di molti Paesi, la forma scritta del licenziamento e dei relativi motivi non è entrata a far parte della Convenzione, che ammette dunque anche la forma orale . Tuttavia, la Raccomandazione invita gli Stati membri a stabilire che il recesso sia intimato per iscritto e, su richiesta, anche le motivazioni siano comunicate nella medesima forma (parr. 12 e 13, co. 1) .
Il legislatore internazionale si occupa anche della ripartizione dell’onere della prova, per la verità in modo poco coraggioso . Per un verso, gli Stati membri possono imporre al datore di dimostrare la sussistenza dei presupposti legali del recesso, come sarebbe più logico, visto che per il lavoratore provarne l’insussistenza sarebbe una vera e propria probatio diabolica. Per altro verso, però, i Paesi firmatari sono autorizzati a non modificare i criteri legali di ripartizione dell’onere della prova vigenti nei loro ordinamenti, limitandosi ad autorizzare gli organismi giurisdizionali a raggiungere una conclusione in merito alla sussistenza delle ragioni giustificative del recesso soppesando le prove fornite da entrambe le parti. Ad ogni buon conto, si tratta di un consistente passo in avanti rispetto alla Raccomandazione del 1963, che nulla prevedeva sul punto , accettando di fatto la regola civilistica secondo la quale l’onere della prova incombe sul ricorrente.
Sotto il profilo sanzionatorio del licenziamento illegittimo l’art. 10 della Convenzione, comprensibilmente, non prende posizione nell’eterno dilemma tra reintegrazione («reinstatement») e rimedio indennitario («compensation»): qualora, però, lo Stato firmatario decida per il secondo, la somma deve essere adeguata («adequate compensation») . Qualora poi opti per un eventuale terzo rimedio («other relief»), scelta pure consentita, quest’ultimo dovrà essere appropriato («appropriate»). Il cambio di formulazione rispetto alla Raccomandazione del 1963 ha indotto il Comitato di esperti a ravvisare nella Convenzione un favor per il rimedio restitutorio : gli appigli testuali sembrano, però, decisamente deboli, ed è comunque indubbio che gli Stati firmatari siano del tutto legittimati a prevedere la sola indennità sia per i recessi ingiustificati, sia perfino per quelli discriminatori o comminati in violazione di diritti fondamentali. Per questi ultimi, il Comitato di esperti raccomanda comunque di prevedere la reintegrazione o, quanto meno, l’integrale risarcimento dei danni . Con riferimento al diritto del lavoratore a ricorrere a un organismo imparziale che verifichi la legittimità del licenziamento, sono molto interessanti i rilievi del Comitato di esperti in merito alla necessità che la procedura sia spedita e i costi contenuti : insomma, procedure di lunghezza indefinita e/o per pochi eletti potrebbero configurare una violazione della Convenzione.
L’art. 11 garantisce al lavoratore licenziato il rispetto di un «ragionevole termine di preavviso» , ovvero il pagamento di un’indennità sostitutiva, sempre che egli non abbia commesso un’infrazione disciplinare tanto grave da non consentire la prosecuzione, neppure provvisoria, del rapporto («serious misconduct»: ovvero quando il recesso datoriale sia intervenuto per giusta causa). Quanto alle competenze spettanti per la fine del rapporto, il legislatore internazionale consente agli Stati membri di scegliere tra un’indennità di fine servizio a carico del datore o di un fondo finanziato dalle contribuzioni datoriali, e un’indennità di disoccupazione o altra provvidenza di sicurezza sociale (art. 12). I Paesi firmatari possono ovviamente anche decidere di cumulare i due benefici. E’ previsto che l’indennità di fine servizio sia commisurata, tra l’altro, alla retribuzione e all’anzianità aziendale: gli Stati possono decidere che non sia corrisposta quando il recesso datoriale avvenga per giusta causa. Il Comitato di esperti ha tenuto a sottolineare, ove ve ne fosse bisogno, che le somme previste dagli artt. 11 e 12 non possono essere alternative, ma soltanto cumulative rispetto ai rimedi previsti dalla Convenzione per il recesso ingiustificato (reintegrazione o indennità) .

7. Passando a svolgere qualche considerazione in merito all’impatto della Convenzione sul diritto degli Stati firmatari, conviene, anzitutto, richiamare la vicenda francese relativa al contrat nouvelle embauche (di seguito: CNE) . Si tratta di un caso nel quale il dialogo tra l’OIL e le Corti nazionali è stato particolarmente proficuo. Il CNE è un contratto di lavoro subordinato introdotto nell’ordinamento francese nel 2005 e riservato alle piccole imprese (meno di 20 dipendenti): si caratterizzava per un periodo piuttosto lungo di consolidamento del rapporto (2 anni), durante il quale il datore poteva recedere ad libitum versando una modesta indennità. Il Comitato incaricato di esaminare i reclami presentati dalle associazioni datoriali o dalle organizzazioni sindacali ai sensi dell’art. 24 della Costituzione dell’OIL, istituito per valutare il reclamo di CGT e di Force ouvrière, decise il 6 novembre 2007 che tale disciplina contrastava con gli artt. 2 e 4 della Convenzione. Infatti, il periodo di consolidamento era di durata irragionevolmente lunga, e conseguentemente il principio di giustificazione del recesso avrebbe dovuto comunque applicarsi anche ai CNE .
La Camera sociale della Corte di Cassazione francese colse immediatamente l’assist offerto dal Comitato dell’OIL, e in una decisione del 1° luglio del 2008 applicò al CNE la disciplina di tutela dei licenziamenti di carattere generale (Cass., chambre sociale, n. F 07-44.124). Ciò fu possibile perché l’ordinamento francese è improntato al modello monistico nelle relazioni tra il diritto interno e la normativa internazionale, e il diritto internazionale, anche pattizio, può essere direttamente applicato dai giudici per escludere gli effetti delle norme di diritto interno contrastanti . In questa situazione, al legislatore transalpino non rimase che abrogare l’istituto, cosa che avvenne nel corso dello stesso 2008.
Altrettanta fortuna non arrise qualche anno più tardi, nel pieno della crisi economico-finanziaria, ai sindacati spagnoli, Comisiones obreras e Union general del trabajo, che presentarono reclamo all’OIL nel 2012, sempre ai sensi dell’art. 24, con riferimento a diversi profili della riforma del mercato del lavoro spagnolo, realizzata con il r.d.l. n. 3/2012 . In particolare, gli strali sindacali si appuntarono sul contrato de apoyo a los emprendedores, tipologia contrattuale riservata alle PMI (meno di 50 dipendenti), incentivata sotto il profilo fiscale e contributivo, e, soprattutto, presidiata da un patto di prova della durata di un anno. Il Comitato tripartito incaricato di esprimere il parere sul reclamo dei sindacati spagnoli, dopo aver più volte richiamato il precedente del contrat nouvelle embauche, si pronunciò nel senso che anche il periodo di prova di un anno risultava eccessivamente lungo . Vale la pena di notare che l’assenza di ragionevolezza fu ricollegata, in particolare, anche al rilievo che «no direct link between the facilitation of dismissals and job creation has been demonstrated» : con buona pace dei falchi della flexicurity, che in quegli anni sedevano saldamente in sella al Governo iberico.
Nonostante il pronunciamento sfavorevole dell’OIL, il contrato de apoyo a los emprendedores è rimasto in vigore fino al gennaio del 2018, quando è stato abrogato dal r.d.l. n. 28, approvato dal Governo a guida socialista. In effetti, disattendendo espressamente la presa di posizione del Comitato tripartito , la Corte costituzionale spagnola dichiarò la nuova tipologia di contratto di lavoro a tempo indeterminato conforme alla Carta fondamentale e alla Convenzione n. 158 dell’OIL, con decisione del 16 luglio 2014 . Deve essere almeno menzionata la lunga opinione dissenziente di Fernando Valdéz Dal-Ré, nella quale i riferimenti alla Convenzione n. 158, anche nell’applicazione offerta dalla Cassazione francese nel 2008, sono abbondanti e giocano un ruolo argomentativo fondamentale.
L’Italia non ha ratificato la Convenzione n. 158 sui licenziamenti ingiustificati, ma essa risulta comunque presente nel circuito ermeneutico. Anzitutto, va ricordato che l’art. 8, d.l. n. 138/2011, conv. in l. n. 148/2011, sui cd. contratti di prossimità, richiede che le clausole derogatorie di disposizioni di legge nelle materie tassativamente elencate al co. 2 siano, inter alia, rispettose dei «vincoli derivanti […] dalle convenzioni internazionali sul lavoro» (co. 2-bis). Tra le disposizioni di legge derogabili rientrano anche quelle riguardanti le «conseguenze del recesso dal rapporto di lavoro» (co. 2, lett. e), ovvero la disciplina di tutela contro i licenziamenti. In dottrina si discute vivacemente se il riferimento alle convenzioni internazionali sul lavoro debba essere confinato a quelle ratificate dal nostro Paese oppure esteso alla totalità di quelle dell’OIL tuttora vigenti . Se si aderisce al secondo orientamento , si deve ritenere che venga in gioco, come limite alla potestà derogatoria dei contratti di prossimità in materia di tutela contro il recesso datoriale, anche la Convenzione n. 158, con il relativo apparato interpretativo. Entrambe le posizioni sopra richiamate, peraltro, non sono prive di criticità: per un verso, è difficile immaginare che il legislatore abbia voluto rendere rilevanti, quasi en passant, strumenti internazionali non espressamente ratificati ; per l’altro, appare ridondante il riferimento a convenzioni già ratificate dal nostro Paese e che, pertanto, godono di una protezione rafforzata rispetto al diritto meramente interno superveniens (quale si configurerebbe l’art. 8, d.l. n. 138/2011 rispetto alle precedenti leggi di ratifica di Convenzioni OIL) .
In secondo luogo, non vanno dimenticati i profondi nessi che collegano tutti gli strumenti internazionali di tutela dei diritti sociali, e, in particolare, il legame biunivoco esistente tra quelli regionali e quelli a vocazione universalistica (come le Convenzioni dell’OIL). Tali interrelazioni sono il riflesso del rango fondamentale dei diritti sociali affermati in tali dispositivi: già si è detto delle evidenti influenze reciproche ravvisabili tra la normativa contro i licenziamenti ingiustificati che si è sviluppata in seno all’OIL e le direttive UE che si sono succedute in materia di licenziamenti collettivi (v. retro il par. 5). Va ora aggiunto che la lettura dell’art. 24 della Carta sociale europea revisionata a Torino nel 1996 (di seguito: CSE) rivela rimandi addirittura testuali alla Convenzione n. 158 . Il principio della necessaria giustificazione del recesso si appoggia sui medesimi presupposti: «valid reason […] connected with […] capacity or conduct or based on the operational requirements of the undertaking, establishment or service» [art. 24, lett. a), CSE]. Nel caso di recesso ingiustificato il lavoratore ha diritto di ricorrere a un organismo imparziale, come nella Convenzione OIL: tra i rimedi non compare, invece, la reintegrazione, essendo menzionati, peraltro, sia la «adequate compensation» che l’«other appropriate relief». Nell’appendice relativa all’art. 24 vengono ripresi, pressoché alla lettera, i casi di esclusione dalla tutela (contratti a termine, lavoratori in prova o durante il periodo di consolidamento del rapporto, lavoratori del tutto occasionali) e le ragioni di discriminazione inidonee a giustificare il recesso, di cui all’art. 2, co. 2, e, rispettivamente, agli artt. 5 e 6 della Convenzione n. 158.
La CSE, come revisionata a Torino, è stata ratificata dal nostro Paese, anche con riferimento all’art. 24, nel 1999 (l. 9 febbraio 1999, n. 30): è pertanto naturale che la Convenzione OIL n. 158 entri nel circuito interpretativo nazionale, seppur in via indiretta, tramite l’applicazione della CSE. Quest’ultima, per lungo tempo negletta dai nostri giudici, ha trovato di recente valorizzazione sempre più spinta da parte della Corte costituzionale . Da ultimo, l’art. 24, CSE ha rivestito un ruolo centrale, quale parametro interposto di costituzionalità ex art. 117, co. 1, Cost., nel giudizio con il quale il Supremo giudice delle leggi ha dichiarato illegittimo il metodo di calcolo dell’indennità cd. “rafforzata”, prevista dall’art. 3, co. 1, d. lgs. n. 23/2015 nel caso di licenziamento privo di giusta causa o giustificato motivo . In quella sede la Corte ha respinto, correttamente, il tentativo del giudice a quo di chiamare in causa direttamente la Convenzione n. 158, eccependo la sua mancata ratifica da parte del nostro Paese . D’altro canto, per l’interpretazione dell’art. 24, CSE, e segnatamente per stigmatizzare l’inadeguatezza delle modalità di calcolo dell’indennità a determinare una somma idonea a ristorare il pregiudizio subito dal lavoratore, ha utilizzato anche le pronunce del Comitato europeo dei diritti sociali, benché, a stretto rigore, tale organo non abbia natura giudiziale .
A questo proposito occorre osservare che le decisioni del Comitato europeo dei diritti sociali, quanto meno sotto il profilo della tutela contro i licenziamenti ingiustificati, sono nel complesso assai più coraggiose rispetto a quelle degli organismi di controllo dell’OIL . Tale tendenza, che riflette la più spiccata sensibilità sociale europea nel panorama mondiale, non crea particolari problemi di “convivenza” dei due dispositivi internazionali per gli Stati che li abbiano ratificati entrambi: l’interprete si orienterà, caso per caso, secondo il principio del favor laboris, che, secondo un’opinione condivisibile, nel diritto internazionale del lavoro ricopre il rango di principio fondamentale .
E’ interessante rilevare da ultimo che la Convenzione ha trovato applicazione diretta, quale fonte di equity o di buone prassi lavoristiche, o indiretta, quale ausilio interpretativo della legislazione interna, in diversi Paesi in via di sviluppo che non avevano proceduto a ratificarla . In Botswana, per es., il Supremo tribunale del lavoro ha dato applicazione all’art. 4 della Convenzione benché la legislazione interna non prevedesse alcuna valid reason per procedere al licenziamento; anche a Trinidad e Tobago il richiamo alla Convenzione è stato diretto pur in mancanza di ratifica. In Sud Africa e Zimbabwe, invece, la Convenzione e il corpus di commenti del Comitato di esperti sono stati utilizzati come ausilio esegetico della legislazione interna, anche perché quest’ultima presentava forti affinità, perfino letterali, con la Convenzione stessa .

8. In conclusione di questo contributo è opportuno ritornare al problema dello scarso successo della Convenzione n. 158 del 1982, il cui emblema è sicuramente l’esiguo numero di ratifiche da parte degli Stati membri dell’OIL (v. retro il par. 2) . Sulle ragioni la dottrina è divisa.
Secondo una prima opinione, i Paesi più industrializzati non avrebbero avuto interesse alla ratifica, in quanto i loro ordinamenti offrivano già ai lavoratori una tutela contro i licenziamenti illegittimi ben più robusta . Si tratta di un argomento poco convincente, per diversi motivi. Anzitutto, come si è avuto modo di dimostrare, lo standard minimo fissato dalla Convenzione non è particolarmente basso, nonostante i consistenti margini di flessibilità comunque consentiti agli Stati firmatari; inoltre, se i principi stabiliti dalla Convenzione fossero stati così accessibili per i Paesi ad economia più sviluppata, non si comprende perché questi non l’abbiano ratificata, visto che i loro ordinamenti erano già ad essa pienamente conformi . In secondo luogo, la Convenzione non ha certo riscosso una grande popolarità nemmeno tra i Paesi in via di sviluppo.
Infine, l’argomento è stato smentito per tabulas in occasione del General Survey sullo stato di applicazione della Convenzione n. 158, organizzato dall’OIL nel 1995. Molti dei rapporti esaminati dal Comitato di esperti, inviati dagli Stati che non hanno ratificato il dispositivo, giustificano la propria scelta con caratteristiche peculiari dei propri ordinamenti, considerate incompatibili con esso. Così, per es., la Danimarca non intende abbandonare il proprio sistema di tutela contro i licenziamenti imperniato su contratti collettivi privi di efficacia erga omnes , visto che la ratifica della Convenzione impone un meccanismo di implementazione con effetti generalizzati . Il Regno Unito, invece, intende conservare il proprio «periodo di consolidamento» («qualifying period») del rapporto di lavoro di due anni, sulla cui durata eccessiva il Comitato di esperti a buon diritto esprime velati dubbi di compatibilità con la Convenzione; il medesimo Paese non intende poi rinunciare all’applicazione dei principi civilistici in materia di ripartizione dell’onere della prova . L’Austria non vuole abbandonare il proprio sistema ancora in larga parte basato sul libero recesso, mentre la Germania eccepisce l’inesistenza nell’ordinamento interno di regole legali in merito al procedimento disciplinare . Molti Paesi extra-europei (Cile, Ecuador, Nuova Zelanda, Provincia del Québec, Singapore, Sudan, Uruguay) giustificano le difficoltà di ratifica con l’assenza o l’inadeguatezza delle proprie previsioni legali in materia di informazione e consultazione dei rappresentanti dei lavoratori nell’ambito dei licenziamenti per ragioni economico-organizzative .
Una seconda opinione indica, invece, nel carattere un po’ troppo ambizioso del testo convenzionale la principale ragione che ne avrebbe frenato le ratifiche . Questo argomento pare più vicino al vero. La Convenzione n. 158 è giunta in porto probabilmente troppo tardi: in molti Paesi a economia avanzata la pars construens della tutela contro i licenziamenti collettivi si era già compiuta nel 1982, anche grazie al positivo influsso, giova ricordarlo, della Raccomandazione n. 119 del 1963. Negli anni ’80 i principali Paesi europei (Regno Unito, Germania e Francia in primis) sono stati a lungo governati da compagini di centro-destra con programmi politici neo-liberisti, e, a partire dal decennio successivo, un po’ ovunque la tutela contro i licenziamenti si presentasse particolarmente robusta, si è cominciato a riflettere in merito al suo ridimensionamento. Non si trattava certo di un contesto favorevole alla ratifica della Convenzione, e lo stesso Comitato di esperti, nel già menzionato General Survey del 1995, ha cercato di controbattere al mantra della flessibilità e agli argomenti economicistici con cui esso veniva puntellato dai suoi propugnatori . Va dato atto al Comitato di esperti di aver strenuamente perorato la causa della stabilità del rapporto di lavoro, cercando di ridare slancio ai processi di ratifica: purtroppo, come si è osservato, questo tentativo non è stato coronato da successo.
Né un humus più fertile ha offerto il nuovo millennio, con il radicarsi in Europa del dibattito sulla flexicurity e il diffondersi dei vari progetti di “contratto unico”, nei quali il principio della giustificazione del recesso datoriale, vero e proprio cardine del diritto internazionale del lavoro, veniva minato alla radice, nella fase iniziale o addirittura per tutta la durata del rapporto, sostituito dal cd. firing cost .
Anche l’attenzione dell’OIL per la Convenzione n. 158 del 1982 è drasticamente calata nel periodo: lungi dall’essere inserito tra i core labour standards, lo strumento non compare nemmeno più tra le convenzioni up-to-date . Benché il Gruppo di lavoro sulla revisione degli international labour standards non sia riuscito a raggiungere un consenso in merito alla sorte della Convenzione, dal marzo 2001 essa non è compresa nel novero di quelle considerate attuali . Per questa ragione, nel novembre 2009 il Consiglio di amministrazione dell’OIL ha convocato un incontro tripartito per decidere il destino della Convenzione e della Raccomandazione: il meeting si è tenuto dal 18 al 21 aprile 2011 . Purtroppo, nemmeno in quella sede è stato possibile trovare un accordo trasversale. Mentre i rappresentanti dei lavoratori e degli Stati hanno difeso gli strumenti dell’OIL sulla tutela contro i licenziamenti ingiustificati, rivendicandone la persistente crucialità e invitando l’organizzazione a rinvigorire le strategie per incrementare le ratifiche della Convenzione, gli esponenti dei datori di lavoro hanno addirittura continuato a richiedere l’abrogazione di quest’ultima, riproponendo, con veemenza ancora maggiore, l’ostilità già manifestata in sede di adozione dei due dispositivi .
In questa situazione di frattura pressoché insanabile tra le parti sociali, il Consiglio di amministrazione si è limitato a raccomandare al direttore generale «di tenere conto, quando elaborerà future azioni dell’Ufficio internazionale del lavoro in argomento, delle questioni sollevate nel rapporto dell’incontro tripartito di esperti per l’esame» della Convenzione e della Raccomandazione . In fin dei conti, si è giunti a una situazione di stallo : la scelta di escludere i suddetti dispositivi dal novero di quelli attuali non incide sul loro status, cosicché essi rimangono tuttora in vigore e, in particolare, la Convenzione continua a essere aperta alle ratifiche degli Stati membri. Tuttavia, l’esclusione appare emblematica della circostanza che l’organizzazione non consideri più centrali nelle proprie strategie i due strumenti.
Scorrendo gli articoli della Convenzione resta l’amaro in bocca: a parte qualche limitata defaillance, si tratta di un testo moderno e flessibile, che ha ancora molto da offrire, specialmente nell’ottica di una piena garanzia di effettività di tutti gli altri international labour standards . Sarebbe auspicabile che l’OIL continuasse a investire su questo strumento, magari nell’ottica di un suo prudente restyling che favorisca una più ampia adesione . Non pare infatti possibile immaginare alcun Decent Work senza quel relativo equilibrio tra le parti del contratto di lavoro, che soltanto una robusta disciplina di tutela contro i licenziamenti è in grado di assicurare .

 

Questo sito utilizza cookie necessari al funzionamento e per migliorarne la fruizione.
Proseguendo nella navigazione acconsenti all’uso dei cookie.