Testo integrale con note e bibliografia
Art. 3 del Decreto legislativo del 04/03/2015 - N. 23
I. Osservazioni preliminari. Quasi un trentennio fa, in termini laconici e al tempo stesso premonitori, Gustavo Zagrebelsky affermava che “la legge un tempo misura esclusiva di tutte le cose nel campo del diritto cede il passo alla Costituzione e diventa essa stesse oggetto di misurazione” .
Oltre un decennio dopo, l’assunto, sempre più condiviso quale cardine di travagliate riflessioni, oscillanti fra “la metamorfosi" o “l’eclisse” del diritto, affluiva nella giurisprudenza di legittimità che, all’avvertita dequotazione della fonte-legge nella nuova struttura “semiaperta” del “nostro ordinamento”, ricollegava una nuova “funzione interpretativa del giudice in ordine alla formazione della giurisprudenza normativa, quale autonoma fonte di diritto” .
Scagliato il sasso, gli anelli concentrici si sono lentamente propagati, senza che a impedirlo bastasse ritrarre la mano e, fra più o meno marcate ammissioni e timidi ondeggiamenti, si è andata infine imponendo, sempre più netta, una nuova figura di giudice civile, in diretta correlazione con lo spostamento dell’asse portante dell’ordinamento: dalla legge al giudizio .
L’apparente impalpabilità dei concetti, come avvertito dalla sempre più estesa letteratura, si disvela oggi in impronte tangibili disseminate da una giurisprudenza che dispiega la propria vocazione “creativa” nei più diversi settori del diritto: dai diritti della personalità, alla contrattualistica, come attestato, fra le alte, dalle pronunce in tema di abuso del diritto, di rilevabilità d’ufficio della nullità per contrasto con i doveri inderogabili di solidarietà di cui all’art. 2 Cost. (Cass. Civ., sez. un. 4 settembre 2012, n. 14828, Corte cost. n.248/2013 e n.77/2014) e di diritto del figlio adottato di “conoscere le proprie origini” (Cass. Civ., 09/11/2016, n.22838).
Con specifico riferimento al diritto del lavoro, a riprova peraltro di una fisiologica attitudine inventiva risalente alla fine degli anni ‘70, è sufficiente segnalare la recente giurisprudenza in tema di licenziamento per motivo oggettivo e obbligo di repechage (Cass. Civ. n. 5592 del 22.03.2016) e in particolare la nota pronuncia in materia di abuso dei contratti a termine nelle pubbliche amministrazioni (Cass. Civ. 15 marzo 2016, n. 5072): caso in cui la giurisprudenza è stata indotta dalla Corte di Giustizia ad uno sforzo ermeneutico nuovo, volto a rinvenire , all’interno della rete delle fonti interne e sovranazionali, la regola da applicare al caso concreto.
In questa eterogenea e variegata congerie, sembra volersi inserire, con le peculiarità del caso, la recente -e per certi versi attesa- sentenza n.12174 del 08.05.2019, con cui la Corte di Cassazione ha esteso alla disciplina di cui all’art. 3 del D.Lgs n.23 del 2015 e a dispetto della formulazione lessicale della norma, un principio ermeneutico affermatosi in relazione all’art. 18 della legge n.300/1970, versione Fornero e attestante la sostanziale equipollenza, ai fini sanzionatori, fra “fatto materiale” insussistente e contestazione giuridicamente irrilevante (cfr. Cass. Civ. 13.10.2015 n. 20540, Cass. Civ. 20.9.2016 n. 18418 e Cass. Civ. 12.5.2016 n.10019).
Secondo la pronuncia, in particolare, ai fini della tutela di cui al d.lgs. n. 23 del 2015, art. 3, comma 2, l'insussistenza del fatto materiale contestato al lavoratore, rispetto alla quale resta estranea ogni valutazione circa la sproporzione del licenziamento, comprenderebbe non soltanto i casi in cui il fatto non si sia verificato nella sua materialità ma anche tutte le ipotesi in cui il fatto, materialmente accaduto, non assuma rilievo disciplinare.
L’enunciato, compendiato in una regula al momento indiscussa, costituisce, come agevolmente evincibile dall’esame delle motivazioni, il prodotto di una interpretazione “creativa” della norma di legge primaria, operata dalla Cassazione alla luce di principi costituzionali e di premesse esegetiche eteronome rispetto alla disciplina applicata e ricavate da un contesto normativo più ampio rispetto a quello disegnato dal legislatore del Jobs act.
II. I termini della questione. Per comprendere la portata della soluzione ermeneutica adottata dalla Corte, occorre ricordare che la comunità interpretativa si è a lungo interrogata , in sede di prima applicazione, in merito alla valenza semantica del concetto di “insussistenza del fatto contestato”, introdotto per la prima volta dal legislatore tecnico del 2012, in relazione ai licenziamenti per giusta causa e giustificato motivo soggettivo.
Il quesito era infatti decisivo, nella sistematica della riforma dell’articolo 18 dello Statuto, ai fini dell’applicazione delle differenti tutele, reintegratoria o meramente indennitaria, di cui ai commi 4 e 5 del “nuovo” articolo 18.
Secondo una prima lettura della disposizione, l'articolo 18 della legge 20 maggio 1970, n. 300, come modificato dall'art. 1, della legge n.92/2012, avrebbe nettamente distinto, ai fini delle tutele, fra ipotesi di radicale insussistenza del fatto materiale contestato e qualificazione dello stesso in termini di giusta causa o di giustificato motivo soggettivo: accordando la tutela reintegratoria nei soli casi di inconsistenza, sul piano fenomenologico, dell’addebito contestato.
In particolare, come affermato nella prima pronunzia di legittimità in materia , la tutela reintegratoria troverebbe ingresso solo in relazione alla verifica della sussistenza/insussistenza del fatto “da intendersi quale fatto materiale”, posto a fondamento del licenziamento: verifica che “si risolve e si esaurisce nell'accertamento, positivo o negativo, dello stesso fatto, che dovrà essere condotto senza margini per valutazioni discrezionali, con riguardo alla individuazione della sussistenza o meno del fatto della cui esistenza si tratta…” .
La conclusione, come giustamente segnalato dai commentatori, trovava radice e conforto in quel filone dottrinale favorevole a ritenere, in coerenza con il giudizio bifasico richiesto dalla nuova disciplina, che il “fatto contestato”, indicato nell’art. 1 della l. n.92/2012 ed oggetto del giudizio di sussistenza/insussistenza, fosse il solo fatto materiale, del tutto avulso da ogni valutazione in ordine al profilo soggettivo o giuridico della condotta.
Per quanto irreprensibile sul piano letterale, la tesi proposta è stata fortemente dibattuta in dottrina e infine rimeditata dalla giurisprudenza di legittimità che, con sentenza n.20540 del 13.10.2015, all’esito di una valutazione più ampia, ha evidenziato l’assoluta necessità, sotto il profilo sistematico, di verificare il carattere illecito del fatto contestato: trattandosi pur sempre di un inadempimento contrattuale suscettibile di ponderazione.
Tale soluzione è poi stata recepita dalla successiva giurisprudenza di legittimità (Cass. n.16896 del 10/08/2016, Cass. n.10019 del 12.05.2016; Cass. n.18418 del 20.09.2016) e confortata, con l’ausilio del ragionamento apagogico, da Cassazione civile sez. lav., 26/05/2017, n.13383 secondo cui risulterebbe “non… plausibile che il legislatore, parlando di "insussistenza del fatto contestato", abbia voluto negarla nel caso di fatto sussistente, ma privo del carattere di illiceità, ossia non suscettibile di alcuna sanzione”.
L’itinerario giurisprudenziale è proseguito pressoché invariato sino alla recente pronuncia n.3655 del 07.02.2019, in cui la Corte, convogliando le precedenti pronunzie, ha concisamente ribadito la piena assimilazione quoad effecta fra insussistenza ontologica del fatto contestato e carenza di tratti di illiceità dello stesso.
In questa sentenza, in particolare, senza diffondersi in particolari dissertazioni, la Cassazione ha data piena continuità (attribuendone valenza di “orientamento consolidato”), alla tesi espressa nei precedenti arresti e ha stabilito in termini inequivoci che: “l'insussistenza del fatto contestato, di cui alla L. n. 300 del 1970, art. 18, come modificato dalla L. n. 92 del 2012, art. 1, comma 42, comprende anche l'ipotesi del fatto sussistente ma privo del carattere di illiceità, sicchè in tale ipotesi si applica la tutela reintegratoria di cui dell'art. 18, comma 4, senza che rilevi la diversa questione della proporzionalità tra sanzione espulsiva e fatto di modesta illiceità.”
La parabola tracciata, per quanto limpida e pervasiva, con riferimento alla fattispecie della legge Fornero, sembrava tuttavia destinata a ritrarsi dinanzi alle invalicabili inferriate erette dalla disciplina dei contratti a tutele crescenti, connotati come noto da una puntuale – e apparentemente insormontabile- precisazione letterale, volta ad arginare inopinati sconfinamenti del giudice inventore.
Infatti, quasi a reprimere ab origine le possibili aporie conseguenti alla portata lessicale dell’analogo comma 4 dell’art. 18 riformato, l’articolo 3 comma 2 del D.Lgs n.23 del 2015 aggiungeva al sintagma “fatto contestato” un tassello linguistico (l’aggettivo “materiale”) teso a circoscrivere la tutela reintegratoria ai soli casi di insussistenza fenomenica della condotta tenuta dal lavoratore.
Secondo il dato normativo, infatti, il giudice annulla il licenziamento e condanna il datore di lavoro alla reintegrazione del lavoratore nel posto di lavoro, “Esclusivamente nelle ipotesi di licenziamento per giustificato motivo soggettivo o per giusta causa in cui sia direttamente dimostrata in giudizio l’insussistenza del fatto materiale contestato al lavoratore, rispetto alla quale resta estranea ogni valutazione circa la sproporzione del licenziamento…”.
A rigor di logica ermeneutica (art. 12 preleggi c.c.), sembrava quindi consegnarsi agli interpreti del Jobs act un’unica e obbligata interpretazione volta ad escludere, in discontinuità rispetto al richiamato orientamento e ai fini del riconoscimento della tutela reale, ogni forma di apprezzamento circa l’effettiva illiceità disciplinare del fatto.
La strada ermeneutica indicata, tuttavia, in considerazione di profonde ed ulteriori disparità di trattamento tra lavoratori assunti prima e lavoratori assunti dopo la data spartiacque del 07.03.2015, veniva attentamente vagliata e criticata in dottrina, anche alla luce dei principi tratti dalla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea .
È stata solo questione di tempo e da ultimo, seguendo le tracce di un sentiero già battuto, la Corte di Cassazione con la pronuncia n.12174 del 08.05.2019, ha inteso ricomporre il quadro, riconducendo ad unità le confliggenti letture.
III. Il percorso argomentativo della pronuncia. Risolta una preliminare questione processuale, la sentenza appare tutta incentrata sulla soluzione della questione interpretativa in esame, soffermandosi dunque sull’esatta portata semantica del testo dell’art. 3 del D.Lgs n.23 del 2015.
Prestando apparente ossequio al metodo sillogistico classico, il Collegio intraprende la riflessione richiamando la fonte primaria applicabile alla fattispecie, con l’accortezza di farne precedere il testo da un puntuale richiamo alla legge delega, ed in particolare all’art. 1 comma 7 della legge n.183/2014.
Rievocata in tal modo la voluntas del legislatore storico, la Corte traccia un primo parallelo con la disciplina applicabile ai licenziamenti di cui alla legge n.92/2012, per ribadire, quale tratto comune ad entrambe le normative, la regola della residualità della tutela reintegratoria, in ragione della “valenza di carattere generale” alla c.d. tutela indennitaria.
Proseguendo la comparazione e concentrandosi sui casi di carenza del giustificato motivo soggettivo o della giusta causa “per insussistenza del fatto”, essa rileva come a base del problema ci sia l’esistenza fra le due discipline di una evidente difformità terminologica costituita dall’aggiunta, nell’art. 3 comma 2 del D.Lgs n.23 del 2015, dell’aggettivo “materiale” in relazione al “fatto” contestato.
Viene così messa al centro dell’indagine la questione esegetica controversa e l’analisi, a questo punto, prende una direzione inattesa.
In effetti, anziché procedere, ai sensi e per gli effetti dell’art. 12 disp. prel. c.c., ad una interpretazione letterale della norma di legge applicabile ratione temporis, coerente con gli obiettivi della legge-delega, la Corte volge lo sguardo al passato, soffermandosi sull’interpretazione attribuita dalla giurisprudenza all’omologa fattispecie di cui alla legge n.92 del 2012.
Il richiamo infatti è all’ipotesi di cui all’art. 18 comma 4 e alla lettura del sintagma “insussistenza del fatto” operata negli ultimi anni dalla giurisprudenza di legittimità, circa la sostanziale coincidenza con l’ipotesi del fatto sussistente ma privo del carattere di illiceità.
Operate tali premesse e richiamate numerose pronunce relative alla previgente disciplina (Cass. n.23669 del 06.12.2014, Cass. n. 20540 del 13.10.2015 e da Cass. n.10019 del 12.05.2016), la Corte si chiede a questo punto se “le medesime conclusioni possano conformarsi anche in relazione alla disciplina dettata dal D.Lgs n.23 del 2015”.
E’ questo il passaggio nodale della pronuncia, allorquando, nel preannunciare con artificio retorico la risposta affermativa alla domanda, la Corte afferma, senza mezzi termini, che la formula (“fatto materiale contestato”) dell’articolo 3 del D.Lgs n.23 del 2015 deve essere interpretata e intesa alla luce della nozione di “fatto contestato” elaborata dalla giurisprudenza in relazione all’art. 18 comma 4 e che allo stato costituisce “diritto vivente”.
Ciò detto, la conclusione viene poi supportata da una sequela di robusti argomenti, preceduti da un giudizio di irragionevolezza dell’opposta interpretazione letterale e incentrati sulla compatibilità costituzionale dell’impostazione proposta rispetto ai principi richiamati proprio di recente dal Giudice delle leggi con la sentenza n.194 del 2018.
Seguendo la scansione logica tracciata, il giudice di legittimità invoca innanzitutto l’argomento ab absurdo già richiamato da Cass n.20540 del 2015, asserendo che l’inversa interpretazione letterale -volta a differenziare sul piano rimediale l’ipotesi di un fatto irrilevante rispetto a quello insussistente- risulterebbe assolutamente “non plausibile” sul piano logico-giuridico, non potendosi riservare alle due fattispecie un trattamento sanzionatorio diverso.
La pars destruens si volge subito in positivo con l’invocazione, a fondamento dell’assunto, di un principio costituzionale tipico di tutti “i giudizi di responsabilità” che richiederebbe, secondo una regola valevole per ogni campo del diritto punitivo, “la riferibilità del fatto materiale all’agente” –piano soggettivo- oltreché “la riconducibilità dello stesso nell’ambito delle azioni apprezzabili come fonte di responsabilità” –piano oggettivo-.
La disciplina inoltre deve potersi coniugare con il diritto fondamentale del lavoratore, garantito dall'art. 4 Cost., a non essere estromesso dal lavoro ingiustamente o irragionevolmente.
Il richiamo alla Carta costituzionale, in particolare, si traduce nella enunciazione di un catalogo di diritti estrapolati da vari arresti del Giudice delle leggi e rievocati da ultimo nella sentenza n.194 del 2018, che ha dichiarato, come noto, l’illegittimità costituzionale dell’art. 4 del D.Lgs n.23 del 2015.
Vengono in particolare richiamati: a) il diritto al lavoro come "fondamentale diritto di libertà della persona umana" che esige che il legislatore adegui la disciplina dei rapporti di lavoro a tempo indeterminato al fine ultimo di assicurare a tutti la continuità del lavoro (sentenza n. 45 del 1965); b) il "diritto (garantito dall'art. 4 Cost.) a non essere estromesso dal lavoro ingiustamente o irragionevolmente" (sentenza n. 60 del 1991); c) “diritto di non subire un licenziamento arbitrario” inteso come "garanzia costituzionale (sentenza n. 541 del 2000 e ordinanza n. 56 del 2006)”; d) il diritto del lavoratore, mutuato dall’art. 24 della Carta sociale Europea, a non essere licenziato “senza un valido motivo" (sentenza nr 46 del 2000); e) il principio della necessaria giustificazione del recesso alla luce degli artt. 4 e 35 Cost., (sentenza n. 41 del 2003).
Tanto premesso e consapevole del valore dirimente della schierata rassegna di principi, il collegio si affretta a statuire, a supporto della propria tesi che, così come per l’art. 18 comma 4 della l. n.92/2012, anche per l’articolo 3 del D.Lgs n.23/2015 il “fatto contestato” non può che fare riferimento alla “contestazione” disciplinare: dovendosi ricomprendere nell’alveo del sintagma soltanto quei fatti che, oltre ad essere materialmente avvenuti, non appaiano privi di “rilievo disciplinare”.
In ragione di tanto, appare chiaro che la specificazione testuale introdotta dal legislatore del Jobs act, anziché costituire (secondo la pur citata mens legis) il tratto scriminante fra le due fattispecie, finisce con il perdere notevolmente di consistenza, al punto da indurre la Corte a concludere che, in fondo, l’aggiunta “dell’aggettivo materiale” alla formula legislativa previgente sarebbe del tutto ininfluente, giacché riconducibile all’esigenza di neutralizzare dubbi interpretativi insorti “all’epoca” nel dibattito giurisprudenziale e dottrinale e ormai diradati.
Nel nuovo contesto storico, per converso, non ci sarebbe spazio per differenziazioni di discipline, tant’è che il vulnus della sentenza del giudice di gravame si anniderebbe proprio nella parte in cui la stessa si sarebbe pedissequamente attenuta alla formulazione letterale della disposizione.
Una valutazione eseguita solo sul piano storico-fenomenico, senza soppesare l’apprezzabilità della condotta contestata anche sul piano disciplinare, significherebbe in conclusione travisare il senso complessivo della fattispecie, fondata pur sempre su una nozione di illecito disciplinare unitaria e consolidata.
IV. Osservazioni conclusive. La pronuncia commentata sembra lanciare agli interpreti un monito chiaro e inequivoco: nessun enunciato legislativo, qualora isolato dal contesto di riferimento, può dirsi vincolante per l’interprete e ogni interpretazione strettamente rispettosa dei criteri dell’articolo 12 delle preleggi va intesa oggi come insufficiente e inadeguata .
L’assunto, seppur non espressamente formulato, può agevolmente ricavarsi, scrutando in filigrana, dalla scelta del percorso argomentativo seguito dalla Corte che, dopo aver prestato solo formale ossequio agli obiettivi del legislatore del Jobs act, ripone a base del discorso, l’interpretazione giurisprudenziale consolidatosi intorno al comma 4 dell’art. 18, come modificato dalla legge Monti-Fornero del 2012.
In questo modo, anziché rischiarare l’ambiguità della clausola alla luce ed in coerenza con gli obiettivi della riforma, il Collegio si ricollega ad una fonte giurisprudenziale eterogenea: ricercando la soluzione della quaestio tramite l’innesto, nell’ambito del D.Lgs n. 23 del 2015, di un principio apparentemente lontano dal microcosmo immaginato dal legislatore del Jobs Act.
Ricondurre infatti il sintagma “fatto materiale contestato” alla “stessa nozione di fatto contestato come elaborata dalla giurisprudenza in relazione all’art.18 comma 4” vuol dire di fatto sostituire la premessa maggiore che dovrebbe essere costituita dal dato legislativo, con una premessa di tipo giurisprudenziale, enucleata da un contesto normativo più ampio.
Se il passaggio logico appare ardito -e prevedibilmente inviso ai sostenitori della “calcolabilità” weberiana-, del tutto condivisibili risultano tuttavia gli effetti giuridici prodotti, tanto più se considerati alla luce dei canoni argomentativi seguiti dalla Corte per completare l'indagine.
In primis, spicca per evidenza sistematica, il principio di coerenza e costanza terminologica fra le norme richiamate, in ragione del quale ogni fonte legislativa deve essere letta e interpretata nell’ottica di un sistema normativo coerente e rispettoso del principio di non contraddizione (corollario del principio di uguaglianza di cui all’art. 3 Cost.).
In nome di tale canone, dunque, la variazione letterale del dato normativo voluta dal legislatore storico (con l’aggiunta dell’aggettivo“materiale”) non sarebbe sufficiente, secondo la Corte, a sviare la fattispecie dalla più ampia e generale nozione di “fatto contestato” elaborata dalla giurisprudenza, trattandosi di concetto giuridico unitario che non potrebbe contemplare due definizioni confliggenti nell’ambito dello stesso settore normativo.
La tesi trova poi sintetica conferma nella considerazione, posposta al p.to 5.7 delle motivazioni e anch’essa solo accennata, dell’indubbia riferibilità del sintagma “fatto materiale” di cui al nuovo articolo 3 al generale concetto di “contestazione”, e dunque ad un “fatto” che, per definizione, non può che avere un effettivo “rilievo disciplinare”.
Richiamando il principio di coerenza, quindi, la Corte rivendica il potere nomofilattico di ricondurre ad unità il sistema agendo in via interpretativa e lo fa in nome di un criterio giuridico ritenuto a tal punto “fondamentale” dalla giurisprudenza costituzionale da indurla plasticamente ad affermare che, in sua carenza, (verbatim “nel dispregio del quale”), “le norme” dell’ordinamento degraderebbero “al livello di gregge privo di pastore”.
Tanto premesso sul piano logico-sistematico, la pronuncia mira poi a confortare la tesi argomentando per exempla ed elenca, a sostegno dell’assunto, una serie di principi enucleati da diverse sentenze costituzionali che fanno da sfondo all’interpretazione accolta.
Trattasi, a ben vedere, di un catalogo di principi ormai consolidati nella giurisprudenza che non possono restare relegati, sembra sottintendere a Corte, in guisa di anticaglie di una passata stagione: rappresentando, come da ultimo confermato nella sentenza Cost. n.198 del 2018, di stelle polari dell’attuale pratica interpretativa.
La rassegna tratteggia dunque un paradigma assiologico consolidato che, pur costituendo l’approdo valoriale dell’interpretazione proposta, cede tuttavia il passo, nell’economia complessiva della pronuncia, alla successiva deduzione esposta al punto 6 delle motivazioni.
E’ in questo passaggio difatti che si scioglie, sul piano sistematico, il nodo interpretativo sottoposto al vaglio della Corte: allorquando il collegio, dimostrata la fallacia logica in cui sarebbe incorsa la pronuncia gravata, ammonisce il giudice sulla necessità di operare sempre, rispetto al “fatto contestato”, una doppia valutazione di merito.
Ed invero, secondo la statuizione consegnata al giudice di rinvio, una volta accertata “sul piano fenomenologico” la sussistenza del fatto materiale, si dovrà in ogni caso procedere ad una ulteriore valutazione di apprezzabilità disciplinare della condotta addebitata, in carenza della quale non si potrebbe mai pervenire al diniego della tutela reintegratoria.
Diversamente, si incorrerebbe, come avvenuto nel caso di specie, in una interpretazione errata poiché resa in violazione del principio secondo cui l’insussistenza del fatto materiale deve sempre comprendere anche l’ipotesi del fatto accaduto ma privo di rilievo disciplinare.
Letta dalle menzionate conclusioni, la sentenza n.12174 sembrerebbe esporsi ai rilievi critici di quella dottrina che ne ha sottolineato il “disallineamento rispetto alla legge vigente”, in ossequio ad un “orientamento giurisprudenziale che il legislatore del 2015 ha inteso esplicitamente e inequivocabilmente contrastare”.
Tuttavia, ampliando la focale del campo all’intera disciplina dei licenziamenti, deve giungersi a conclusioni diverse.
Per quanto possa apparire scontato, va innanzitutto rimarcato che l’articolo 3 del D.lgs n.23/2015, non è -e non può mai essere considerato-, come postulato da certe prospettazioni, una monade avulsa dall’ambito normativo di riferimento.
La disposizione legislativa, al contrario, va inserita, secondo il fondamentale principio di coerenza giuridica, nel proprio contesto normativo e nello specifico, nell’alveo delle disposizioni che costituiscono il nucleo essenziale della disciplina dei licenziamenti.
Muovendo da questa premessa, vediamo che l’ordito normativo in materia si presenta come una architettura solida, che trova fondamento nel principio di necessaria e non irragionevole giustificazione del recesso ricavabile dagli articoli 3, 4 e 24 Cost., nell’articolo 30 della Carta dei Diritti fondamentali dell’Unione europea e nell’articolo 24 della Carta sociale Europea.
Sul piano della legislazione primaria poi il principio si invera negli articoli 3 della legge n.604/1966 e 2119 c.c. secondo cui, in ambito disciplinare, lo ius poenitendi datoriale è ammissibile solo a fronte di un “notevole inadempimento degli obblighi contrattuali” ovvero di una condotta del lavoratore, di gravità tale da non consentire “la prosecuzione, anche provvisoria, del rapporto”.
E’ solo in questi limitati casi, infatti, che il nostro ordinamento ammette il licenziamento: restando per converso inaccettabile (salvo particolarissime ipotesi speciali) ogni forma di recesso irragionevole o ad nutum.
Aggiungasi poi che, il “fatto materiale” richiamato dall’articolo 3 deve pur sempre appartenere al novero di quelle “infrazioni disciplinari” che, ai sensi dell’articolo 7 della legge n.300/1970, devono essere tipizzate e portate “a conoscenza dei lavoratori mediante affissione in luogo accessibile” e la cui “gravità” rileva, secondo l’art. 2106 c.c., ai fini della sanzione disciplinare comminata.
Rispetto a tale rassegna omogenea e convergente di disposizioni, dunque, la disciplina delle tutele dei licenziamenti illegittimi, in cui si inscrive l’art. 3 del D.Lgs n.23 del 2015, si colloca in posizione ancillare: rappresentando il riflesso, sul piano rimediale, di una regolamentazione sostanziale rimasta inalterata da decenni.
Ne consegue che, anche a dispetto dei termini utilizzati dal legislatore storico, il dato qualificante della fattispecie deve necessariamente rimandare, in guisa di prius logico-giuridico, a quel patrimonio concettuale elaborato dalla giurisprudenza in materia di addebiti imputabili, suscettibili di sanzione.
Per l’effetto, il sintagma “fatto contestato”, in disparte ogni valutazione semantica sulla relativa “materialità”, deve giocoforza sostanziarsi in una condotta reprensibile, poiché qualificata da una apprezzabile valenza disciplinare.
Così intesa, la soluzione adottata dalla sentenza n.12174 non può dunque che riscontrare consensi, limitandosi a coordinare, sul piano sistematico, il giudizio di sussistenza fenomenica introdotto dal legislatore del Jobs act con quello -preliminare e necessario- di sussumibilità della “contestazione” nel novero delle clausole generali di cui all’artt. 1, 3 della l. 604/66 e 2119 c.c..
Ovviamente, come specificato nella motivazione, non si tratta di operare un giudizio di proporzionalità del comminato licenziamento –inammissibile se non per gli effetti di cui al successivo comma 3- ma solo di procedere ad un giudizio di apprezzabilità disciplinare del “fatto” che costituisce il presupposto logico-giuridico per la verifica di sussistenza fenomenologica richiesta ai fini della tutela reintegratoria.
In questa cornice, nessuna fronda giudiziale sembra essere in atto ma solo il tentativo, da parte della giurisprudenza più avvertita, di interpretare i testi di una legislazione sempre più frammentata secondo un criterio sistematico di coerenza che tenga giustamente conto dei contesti normativi di riferimento e dei principi generali della materia.
In quest’ottica, la rilevata spinta creativa della giurisprudenza non può che assumere un valore meritorio, sostanziandosi nell’assunzione, da parte del g.o., di un habitus faciendi adeguato alla concezione posmoderna del diritto e che vede nella legge solo uno degli argomenti giuridici da valutare al fine di rinvenire, all’interno del complesso e reticolare ordinamento, la regola da applicare alla singola situazione di vita.
D’altronde, se le leggi mutano, sempre attuale risuona la regola secondo cui non è dato al giurista esprimere responsi interrogando le singole tessere del mosaico a prescindere dal quadro di riferimento, risultando perfino “incivile” giudicare “nisi tota lege perspecta, una aliqua particula eius proposita” (Celso D.1, 3, 24).