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Testo della sentenza

La sentenza Tribunale di Firenze del 16.10.2019 su r.g. 764/19, resa in ambito di rapporto lavorativo soggetto al regime delle cd. “tutele crescenti”, presenta aspetti che meritano qualche commento di problematicità nella motivazione, e quindi anche nell’esito decisorio.
In breve, i fatti come ricavabili dalla sentenza: l’Azienda viene a conoscenza che un proprio dipendente ha esposto con messaggi vocali in una chat whatsapp con accesso limitato ad una cerchia ristretta di persone (non è noto ma probabilmente solo dipendenti aziendali, essendo la chat denominata “Amici di lavoro”) alcune espressioni offensive, denigratorie e discriminatorie rivolte a colleghi e superiori aziendali.
L’Azienda gli ha contestato disciplinarmente tale condotta.
La condotta storico-materiale non è stata negata dal lavoratore che però ne ha sostenuto l’irrilevanza disciplinare trattandosi di scambio comunicazionale privato tutelato dall’art 15 Cost.

Il Giudice del lavoro ha ritenuto in sintesi - riportandosi ai principi di cui in Cass. 21965/18 – che le espressioni “pur recanti affermazioni diffamatorie e discriminatorie” , non sono qualificabili come fattispecie ingiuriosa, discriminatorie e minacciosa verso colleghi e superiori mancando il carattere di diffusività ad un numero indeterminato di persone al di fuori della ristretta cerchia di partecipanti alla chat giacchè “trattandosi di messaggi vocali indirizzati ad un gruppo chiuso …. sono equiparabili a corrispondenza privata e non possono configurare atti idonei a comunicare e diffondere all’esterno affermazioni offensive discriminatorie, con conseguente insussistenza di fatto connotato dal carattere di illiceità”, donde per cui ha applicato la tutela reintegratoria ex art 3 comma 2 D.Lgs 23/2015 (dettata per il caso di “insussistenza del fatto materiale contestato al lavoratore”); parimenti, perché destinate a restare riservate, tali espressioni non sarebbero state lesive dell’obbligo di fedeltà.

Non c’è dubbio che la pronuncia del Tribunale si conforma all’indirizzo ermeneutico di Cass 21965/18 (e di C. Cost. n. 20/2017) in tema di qualificazione di corrispondenza privata dei messaggi e comunicazioni mediante gli strumenti tecnologici telematici, con conseguente connotazione di inviolabilità di essa da parte di estranei alla cerchia dei destinatari.
Sul punto però sarebbe da fare qualche riflessione.
Non è detto in sentenza come l’Azienda sia venuta a conoscenza delle espressioni propalate tramite messaggi vocali nella chat; è più che verosimile che la conoscenza sia venuta non da una intrusione telematica diretta (che costituirebbe certamente violazione della corrispondenza privata), ma che ne sia stato riferito ai responsabili aziendali da uno dei dipendenti destinatari in quanto partecipanti alla chat.
Supponiamo ora che le stesse espressioni fossero state profferite dal dipendente in presenza fisica delle stesse persone, i colleghi partecipanti alla chat “Amici di lavoro”, dinanzi alla macchinetta del caffè in un’apposita saletta aziendale e che soltanto tali persone si trovassero nella saletta, e che qualcuno di loro ne avesse riferito ai responsabili aziendali, e che l’Azienda avesse attuato un accertamento interno preliminare alla contestazione disciplinare: chi davvero potrebbe dubitare della natura ingiuriosa, denigratoria, discriminatoria, della condotta espressiva, e come tale illecita ed avente rilievo disciplinare ?

Siamo certi che sia giusto e corretto affermare che la stessa situazione – di frasi obiettivamente ingiuriose, denigratorie, discriminatorie, propalate alla stessa cerchia ristretta di persone destinatarie – mutino il loro carattere di antigiuridicità e quindi di rilievo disciplinare solo in ragione del diverso “strumento trasmissivo”, la parola pronunciata/registrata e udita tramite messaggio vocale whatsapp piuttosto che direttamente pronunciata ed udita “per l’aere” ?.
Personalmente non credo sia giusto e corretto differenziare. Ma questo è altro tema.

Sta di fatto che come risulta dalla sentenza del Tribunale la contestazione disciplinare aveva ad oggetto, come fatto addebitato “di aver registrato, su una chat di whatsapp denominata “amici di lavoro” alcuni messaggi vocali, riferiti al superiore gerarchico e ad altri colleghi, con contenuti offensivi, denigratori, minatori e razzisti”.
Il Tribunale afferma di non condividere la tesi aziendale “secondo cui i fatti oggetto dell’addebito disciplinare configurerebbero offese (connotate da comportamento minaccioso e discriminatorio) .. stante l’impossibilità di diffusione delle frasi in questione al di fuori della limitata cerchia dei partecipanti al gruppo whatsapp”, e ciò anche in aderenza al codice etico aziendale che impegnano l’Azienda ad attivarsi solo in relazione a comportamenti – “.. fattispecie il cui verificarsi presuppone la pubblica diffusività della condotta dell’agente in difetto della quale anche affermazioni offensive e discriminatorie sono inidonee a determinare un’effettiva lesione dei pur rilevanti interessi oggetto di tutela …”

A mio parere c’è una discrasia motivazionale.
Si può condividere che se l’addebito testualmente contestato è “ aver registrato su una chat ...(ecc.)” il fatto contestato attiene all’atto di formare ed intrattenere una corrispondenza privata, e come tale inviolabile: sia sotto il profilo di poter essere oggetto di intrusione ed illecita conoscenza diretta (sotto tutela ex art 15 Cost.) sia sotto il profilo di non poter essere di per sé mezzo e fonte processualmente utile di prova dei contenuti offensivi discriminatori delle frasi oggetto di “corrispondenza”.
Ma non è questo il punto nodale della motivazione del Tribunale.
Punto nodale che invece è un altro, e non mi pare però condivisibile: il passaggio interpretativo alla insussistenza di illiceità di rilievo disciplinare per difetto di diffusività indeterminata: se i contenuti espressivi sono obiettivamente (come riconosciuti dallo stesso Tribunale) di tal natura, il loro rilievo di antigiuridicità (per lesione di rilevanti interessi oggetto di tutela) disciplinare (perché avvenuti in ambito aziendale perchè in orario di lavoro) resterebbe.
E la questione diventa se e come siano stati contestati disciplinarmente e se e come siano comprovabili.
Dunque, con quale tenore sia stata contestata la fattispecie d’addebito e come ne sia stata ottenuta (dall’Azienda in sede accertativa interna) la conoscenza, quindi di come poterne offrire prova in giudizio. Aspetti su cui la sentenza non dà conto.

Sembra che la decisione avrebbe potuto e dovuto trovare più condivisibile soluzione tramite indagine sul piano dell’oggettivazione materiale dell’addebito contestato per “aver registrato su una chat” (piuttosto che indugiare sulla illiceità dei contenuti solo per diffusività comunicazionale indeterminata), della modalità di conoscenza da parte dell’Azienda, della utilizzabilità probatoria in giudizio di tale modalità di conoscenza.
Non traspare dalla sentenza quanto e come nella contestazione disciplinare fosse addebitato (come condotta di per sé censurata) l’aver espresso specifiche frasi offensive denigratorie discriminatorie di altri colleghi diversi dai destinatari dell’espressione, della avvenuta espressione di tali frasi in ambito-orario di lavoro aziendale, della modalità di conoscenza da parte dell’Azienda.
Una traccia di tale più appropriata impostazione la si trova nella constatazione da parte del Tribunale che la propalazione/invio dei messaggi come avvenuti durante l’orario di lavoro sia “estranea alla contestazione e come tale non valutabile ai fini della legittimità del recesso .”.

L’ammissione in giudizio da parte del dipendente incolpato di aver espresso quelle frasi non è stata tenuta di conto dal Tribunale, forse (ma la sentenza non lo dice) proprio perché la contestazione disciplinare recava un’oggettivazione materiale della condotta incentrata sul fatto-registrazione in chat, più che sul fatto- contenuti espressi.
Se quest’ultima fosse stata la nota dominante della contestazione, piuttosto che la registrazione in chat, il Tribunale avrebbe dovuto tenere conto della prova positiva del fatto addebitato (anche a prescindere dalla non utilizzabilità della registrazione in chat come prova vietata in quanto corrispondenza privata).

Credo si possa concludere che la contestazione disciplinare avrebbe auto maggiori probabilità di riconoscimento positivo di antigiuridicità, e quindi di legittimità del recesso (o comunque certamente non l’esito reintegratorio per insussistenza del fatto contestato al lavoratore), se avesse rappresentato in modo differente (almeno da come si estrapola dalla sentenza) sia il contegno-contenuto espositivo censurato, sia la conoscenza della propalazione avuta dall’Azienda tramite la segnalazione di un dipendente (appartenente alla cerchia dei partecipanti alla chat) che avesse trovato conferma nel corso di (presumibili, ma non se ne ha notizia) accertamenti istruttori aziendali includenti magari l’ammissione da parte dello stesso autore.

Insomma, da una parte una probabile imprecisione identificativa ed esposita dell’addebito disciplinare, d’altra parte uno sviamento motivazionale del Tribunale rispetto agli aspetti più decisivi della questione.

 

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