Testo integrale con note e bibliografia
1. Il divieto condizionato introdotto dal d.l. 14 agosto 2020, n. 104. – L’art. 46, d.l. 17 marzo 2020, n. 18 , come modificato dall’art. 80, comma 1, lett. a), d.l. 19 maggio 2020, n. 34 , ha cessato di produrre effetto il 17 agosto 2020 e dal 18 agosto è entrato in vigore l’art. 14, d.l. 14 agosto 2020, n. 104. Questa norma ha ripreso le disposizioni dell’art. 46, modificandone, però, profondamente i termini temporali e soggettivi cui il divieto di licenziamento si riferisce. Il Governo ha, infatti, previsto che la sospensione delle procedure di licenziamento collettivo ed il divieto di licenziamento individuale per g.m.o. non fosse più generalizzata, bensì condizionata alla fruizione, e per il relativo periodo, di due possibili misure previste dallo stesso decreto.
L’art. 1, comma 1, d.l. n. 104/2020, ha esteso la possibilità di fruizione dei trattamenti di cassa integrazione ordinaria ovvero in deroga e di assegno ordinario, a seguito di sospensione o riduzione dell’attività lavorativa per eventi riconducibili all’emergenza epidemiologica da Covid-19, per un periodo di nove settimane, incrementabili di ulteriori nove settimane, intercorrenti dal 13 luglio al 31 dicembre 2020. Si può, da subito, notare che il termine di fruizione di dette misure può sovrapporsi a quello previsto dal d.l. 17 marzo 2020, n. 18 (1 settembre - 31 ottobre 2020), ma il medesimo comma 1 dell’art. 1, d.l. n. 104/2020 ha sancito, con una previsione di raccordo, che tali periodi, ove autorizzati, siano imputati al primo periodo, ora introdotto, di nove settimane, eliminando, così, possibili confusioni tra vecchio e nuovo regime. Il possibile incremento di ulteriori nove settimane (art. 1, comma 2, d.l. n. 104/2020) può essere richiesto, sempre nell’arco temporale 13 luglio - 31 dicembre 2020, dai datori di lavoro che abbiano già integralmente fruito della prima tranche di trattamenti (prime nove settimane) e che abbiano versato, ove richiesto, un contributo addizionale determinato sulla base del raffronto tra il fatturato aziendale del primo semestre 2020 con quello corrispondente del 2019. In particolare, è dovuto un contributo a) del 9% della retribuzione globale per i datori che hanno avuto una riduzione del fatturato inferiore al venti per cento; b) del 18% della retribuzione globale per i datori che non hanno avuto alcuna riduzione del fatturato; c) dello 0% per i datori che hanno avuto una riduzione del fatturato pari o superiore al venti per cento. L’incremento è, dunque, possibile per ciascun datore di lavoro che abbia sospeso o ridotto l’attività lavorativa a causa di eventi riconducibili al Covid-19 e che abbia integralmente fruito delle prime nove settimane, ma il trattamento integrativo diviene scaglionato a seguito delle soglie di contrazione del fatturato.
Un’ulteriore misura viene introdotta dall’art. 3, comma 1, d.l. n. 104/2020: ai datori di lavoro, che non richiedono i trattamenti di integrazione salariale previsti dall’art. 1 e che ne abbiano già fruito nei mesi di maggio e giugno 2020 , è riconosciuto l’esonero dal versamento dei contributi previdenziali a loro carico - che vanno quindi a gravare sul bilancio dello Stato - per un periodo massimo di quattro mesi (quindi sedici settimane; due in meno del trattamento complessivo di cassa integrazione), fruibili entro il 31 dicembre 2020, «nei limiti del doppio delle ore di integrazione salariale già fruite nei predetti mesi di maggio e giugno 2020». La medesima norma prevede, altresì, l’ammissione a tale beneficio anche per i datori di lavoro che hanno chiesto periodi di cassa integrazione, in base alle disposizioni del d.l. n. 18/2020, collocati, anche parzialmente, in periodi successivi al 12 luglio 2020, e che quindi scelgono di non usufruire dell’ulteriore periodo complessivo di diciotto settimane introdotto dal d.l. n. 104/2020.
Ora, l’art. 14, commi 1 e 2, d.l. n. 104/2020 dispone la sospensione delle procedure di licenziamento collettivo, della procedura di conciliazione ex art. 7, l. n. 604/1966 e il divieto di licenziamento per g.m.o. nei confronti dei datori di lavoro che non abbiano «integralmente» fruito dei trattamenti di cassa integrazione Covid-19 ovvero dell’esonero contributivo dell’art. 3, comma 1. La norma introduce, così, un meccanismo di condizionalità per il godimento del diritto di recesso da parte del datore. Questi può, infatti, esercitare il recesso solo dopo aver esaurito la fruizione delle misure di politica passiva (diciotto settimane dal 13 luglio al 31 dicembre 2020) ovvero di esonero contributivo (sedici settimane entro il 31 dicembre 2020). Occorre sottolineare che la norma non ha, in tal modo, introdotto una nuova causale di licenziamento - vale a dire il venir meno della cassa integrazione causale Covid-19 ovvero lo scadere dell’esonero -, bensì ha sancito un ulteriore elemento di legittimazione all’esercizio del licenziamento per g.m.o. Il datore, invero, una volta ammesso al trattamento di integrazione salariale ordinario (per un massimo di nove settimane) ed, eventualmente, anche ulteriore (per possibili altre nove settimane) ovvero terminato il periodo di fruizione dell’esonero contributivo (per un massimo di sedici settimane), potrà licenziare legittimamente solo in presenza di una ragione inerente l’attività produttiva, l’organizzazione del lavoro e il regolare funzionamento di essa, riscontrando tale ragione unicamente al termine di detto periodo.
2. La relativizzazione del termine. – Il termine della sospensione e del divieto divengono, così, mobili in relazione alla scadenza di fruizione integrale del beneficio da parte di ciascun datore di lavoro ammesso allo stesso. Fermo restando che sia per la cassa integrazione che per l’esonero contributivo vige il termine massimo del 31 dicembre 2020. Termine massimo che, di conseguenza, deve essere riferito in astratto - visto che, si badi, nella realtà coinciderà con lo scadere dell’integrale fruizione - anche all’efficacia legale dell’art. 14.
Va chiarito, a mio modesto avviso, che il termine del periodo di fruizione integrale deve essere riferito al tempo in cui il datore beneficia della cassa integrazione ovvero dell’esonero, non potendo riferirsi l’attributo integrale al termine massimo (31 dicembre 2020) indicato dalle norme . Se si ammettesse il contrario, verrebbe meno il meccanismo di condizionalità introdotto dall’art. 14, che opera, appunto, sulla coincidenza tra la fruizione del beneficio e il divieto di licenziamento. Ecco, dunque, che l’integrale fruizione deve essere riferita al tempo di effettiva concessione e reale godimento di tali misure (cassa integrazione ovvero esonero) da parte del datore di lavoro ammesso, che, al termine di tale periodo, tornerà (quindi anche prima del termine massimo del 31 dicembre 2020) nella piena titolarità del diritto di recesso secondo le ordinarie previsioni legali.
Occorre sottolineare che la platea dei datori di lavoro privati, cui il divieto di licenziamento si riferisce, cambia rispetto al disposto dell’art. 46, d.l. n. 18/2020 . Infatti, l’art. 14, d.l. n. 104/2020 opera unicamente nei confronti di quei datori che abbiano sospeso o ridotto «l’attività lavorativa per eventi riconducibili all’emergenza epidemiologica da Covid-19» (art. 1, comma 1, d.l. n. 104/2020) e che «non abbiano integralmente fruito» della cassa integrazione ovvero dell’esonero contributivo. La sospensione o la riduzione dell’attività lavorativa diviene, dunque, requisito non solo per l’ammissione ai trattamenti di integrazione salariale, bensì anche per il riconoscimento dell’esonero contributivo. Per quest’ultimo, l’art. 3, comma 1, d.l. n. 104/2020 richiede che il datore soddisfi due requisiti: 1) che non abbia richiesto i trattamenti dell’art. 1 (cassa integrazione) e 2) che abbia già fruito dei trattamenti di integrazione salariale, riconosciuti dal d.l. n. 18/2020, nei mesi di maggio e giugno 2020. È, così, evidente che, potendo il datore scegliere di quale delle due misure beneficiare (cassa integrazione o esonero contributivo), lo stesso debba soddisfare il requisito richiesto dall’art. 1, comma 1, d.l. n. 104/2020: vale a dire sospensione o riduzione dell’attività lavorativa a causa del Covid-19. Sicché, tale requisito si estende, anche, alla fruizione dell’esonero contributivo poiché il suo riconoscimento è subordinato alla non richiesta dei trattamenti di integrazione salariale causa Covid-19 e, dunque, può, altresì, essere fruito solo da quei datori che possono beneficiare di tali trattamenti.
Il Governo limita, così, l’efficacia dell’art. 14 ai datori di lavoro privati che sono in crisi a causa di eventi riconducibili all’emergenza Covid-19 e che possono, pertanto, beneficiare di una delle due misure previste per gli stessi al fine del mantenimento dell’occupazione. Sono, pertanto, esclusi dalla sospensione e dal divieto di licenziamento tutti quei datori di lavoro che avviano procedure di licenziamento collettivo ovvero licenziamento per g.m.o. per eventi - si badi - non riconducibili all’emergenza Covid-19. Ciò apre, naturalmente, ampi problemi di prova a carico del datore per sostenere la legittimità del licenziamento poiché dovrà, quindi, dimostrare l’estraneità dell’eziologia della riduzione o trasformazione di attività o di lavoro ovvero del giustificato motivo oggettivo all’attuale situazione di crisi intra-pandemica. E, a tal proposito, non sarà, a mio avviso, facile nemmeno per il giudice valutare tale estraneità vista l’immane permeabilità del fenomeno Covid-19 nelle logiche aziendali e di mercato.
3. L’esonero contributivo. – Per quanto concerne l’esonero contributivo, la fruizione dello stesso è limitato al doppio delle ore di cassa integrazione fruite nei mesi di maggio e giugno 2020 , di guisa che il divieto di licenziamento è collegato al tempo di fruizione effettiva di tali trattamenti. Dunque, minori saranno stati gli stessi, prima cesserà l’efficacia del divieto posto dall’art. 14 .
Va notato che l’art. 3, d.l. n. 104/2020 non indica alcuna modalità di richiesta del beneficio , cosicché lo stesso sembrerebbe configurarsi come diritto per tutti i datori di lavoro privati che non scelgono i trattamenti di integrazione salariale. A tal proposito, il punto di maggiore preoccupazione, al fine di valutare la legittimità del licenziamento per g.m.o. irrogato, appare quello dell’automaticità o meno dell’inizio del periodo di fruizione. L’art. 3, comma 1, si limita ad indicare, infatti, un periodo massimo di estensione (quattro mesi) del trattamento che deve essere fruito entro il 31 dicembre 2020, ma non fornisce chiaramente alcun termine di inizio per la fruizione. Ora, stante la residualità del beneficio rispetto ai trattamenti di integrazione salariale di cui all’art. 1, comma 1, d.l. n. 104/2020, viene da pensare che anche l’esonero contributivo potrà avere inizio dal medesimo termine: vale a dire il 13 luglio 2020 . Ebbene tale termine iniziale è da considerarsi automatico? Per dir meglio: il datore di lavoro comincerà a beneficiare dell’esonero da tale termine (dunque al massimo fino al 13 novembre 2020) ovvero l’automaticità dell’inizio del beneficio non c’è ed è il datore che decide (mediante richiesta?) quando iniziare a fruire dello stesso? Non sembra che nel dettato normativo possano ravvisarsi delle risposte a tali quesiti. Il comma 3 dell’art. 3 parla di «revoca dell’esonero contributivo concesso [...] con efficacia retroattiva» in caso di violazione del divieto di licenziamento per g.m.o., ma anche qui resta oscuro come e da quando tale beneficio possa essere fruito. Tuttavia, sembra ragionevole ritenersi che l’accesso all’esonero contributivo non sia automatico, bensì soggetto ad una richiesta del datore, che dovrà, altresì, attestare la scelta di non fruire della cassa integrazione.
Va, inoltre, rilevato che l’esonero contributivo viene concesso, come detto, ai datori che soddisfano il requisito dell’art. 1, comma 1, d.l. n. 104/2020 (sospensione o riduzione dell’attività lavorativa a causa Covid-19), ma che lo stesso è «riconosciuto» «in via eccezionale, al fine di fronteggiare l’emergenza da Covid-19». Ora, la richiesta dell’esonero è da reputarsi come alternativa alla cassa integrazione, ma la stessa è da considerarsi irrevocabile ovvero la stessa può essere revocata (o meglio terminare i propri effetti) e il datore può, così, accedere ai trattamenti di integrazione salariale? Stante il silenzio del decreto sul punto, a mio modesto avviso, bisogna ritenere che la scelta dell’esonero contributivo sia irrevocabile per tutto il tempo di integrale fruizione dello stesso. Su questo aspetto, infatti, il termine massimo di fruizione dell’esonero (sedici settimane) non coincide con quello di cassa integrazione (diciotto settimane), coincide, invece, il solo periodo massimo: 31 dicembre 2020. Inoltre, per accedere all’esonero occorre la non richiesta dei «trattamenti di cui all’art. 1», sicché nulla esclude che una volta terminato lo stesso il datore non possa trovarsi ancora nelle condizioni (sospensione o riduzione dell’attività lavorativa a causa Covid-19) per accedere a tali trattamenti, per i quali non occorre indicare la non richiesta dell’esonero contributivo . La finalità, infatti, indicata dall’art. 3, comma 1, d.l. n. 104/2020 è molto ampia ed il carattere eccezionale della misura (rispetto a quella ordinaria di cassa integrazione causale Covid-19) non esclude, dunque, il ricorso ad altri benefici.
Il datore potrà, così, usufruire dell’esonero contributivo, in alternativa ai trattamenti dell’art. 1, comma 1, d.l. n. 104/2020, nei limiti imposti dalla norma (il doppio delle ore di cassa fruite nei mesi di maggio e giugno 2020), ma nulla esclude che lo stesso possa, al termine di tale periodo di esonero, tornare ad accedere al beneficio della cassa integrazione per il possibile periodo (diciotto settimane entro il 31 dicembre 2020) previsto dall’art. 1 a chi sospende o riduce l’attività lavorativa per eventi riconducibili al Covid-19. Naturalmente, in tal caso, il divieto di licenziamento produrrà i propri effetti non solo per il periodo di esonero, ma anche per quello di cassa integrazione.
L’art. 14, d.l. n. 104/2020, pur nei suoi punti oscuri, ha, allora, esteso il periodo di sospensione e divieto, già posto dall’art. 46, d.l. n. 18/2020, nei confronti dei datori lavoro privati che sospendono o riducono l’attività lavorativa a causa Covid-19, modulandone la durata in base al termine di fruizione dei benefici concessi.
4. Le ipotesi di esclusione. – Con il d.l. n. 104/2020, il Governo ha, altresì, introdotto, con l’art. 14, comma 3, alcune ipotesi di esclusione dalla sospensione e divieto per i licenziamenti motivati da fallimento ovvero da cessazione definitiva dell’attività dell’impresa. Viene, così, fatto salvo l’interesse del datore a porre fine alla propria attività imprenditoriale secondo le proprie libere e legittime valutazioni di mercato. Occorre notare che con tale previsione, il Governo pare essersi rammentato del disposto dell’art. 2086, comma 2, c.c. che sancisce in capo all’imprenditore l’obbligo di «attivarsi senza indugio per l’adozione e l’attuazione di uno degli strumenti previsti dall’ordinamento per il superamento della crisi e il recupero della continuità aziendale». Consentendo, così, allo stesso di cessare l’attività e di liquidare il personale impiegato. Personale che godrà, comunque, della NASpI visto che, come chiarito dall’INPS , tale trattamento è riconosciuto per tutti i lavoratori licenziati collettivamente o individualmente per g.m.o. anche durante il periodo di divieto. Sarebbe del tutto illogico ritenerne, dunque, esclusi i lavoratori ai quali viene legittimamente, in virtù della scriminante ora introdotta, irrogato il licenziamento.
La prima ipotesi di esclusione individuata dal Governo è quella derivante dalla liquidazione della società senza continuazione, anche parziale, dell’attività. In questo caso, il licenziamento è atto conseguente all’esecuzione del programma di liquidazione predisposto dal curatore; programma che si propone di dismettere l’azienda e di chiudere i rapporti di lavoro ancora pendenti in capo all’impresa. Tale esclusione, come precisato dall’art. 14, comma 3, d.l. n. 104/2020, viene meno in due ipotesi. In primo luogo, laddove «nel corso della liquidazione si configuri la cessione di un complesso di beni od attività che possano configurare un trasferimento d’azienda o di un ramo di essa ai sensi dell’art. 2112 c.c.». Ora, l’art. 105, comma 3, R.d. n. 267/1942, prevede che «nell’ambito delle consultazioni sindacali relative al trasferimento, il curatore, l’acquirente e i rappresentanti dei lavoratori possano convenire il trasferimento solo parziale dei lavoratori», e, come noto, in situazioni di crisi aziendale irreversibile occorre tener conto delle deroghe alla disciplina ordinaria introdotte dall’art. 47, commi 5 e 6, l. n. 428/1990. Il comma 5 dell’art. 47 della l. n. 428/1990 contempla, infatti, i casi di trasferimento d’azienda di imprese che presentano situazioni di grave crisi. In particolare, imprese nei confronti delle quali: vi sia stata dichiarazione di fallimento , omologazione del concordato preventivo consistente nella cessione di beni , emanazione del provvedimento di liquidazione coatta amministrativa ovvero di sottoposizione all’amministrazione straordinaria. Ed in più nelle quali la continuazione dell’attività non sia stata disposta o sia cessata.
In tali situazioni, in cui continua a permanere il bene giuridico azienda nei suoi elementi, il trasferimento d’azienda avviato dall’amministrazione concorsuale può rappresentare l’unico modo di impedire la disgregazione del patrimonio aziendale e così la norma prevede che, qualora intervenga un accordo al termine della procedura consultiva con le parti sociali per il mantenimento anche parziale dell’occupazione, per i lavoratori che passano alle dipendenze dell’acquirente non trova applicazione l’art. 2112 c.c. , salvo condizioni di miglior favore stabilite in sede di accordo.
L’accordo può stabilire, anche, che il trasferimento non riguardi il personale eccedente, che permane invece, in tutto o in parte, alle dipendenze dell’alienante. A questi lavoratori è, però, accordato un diritto di prelazione nelle assunzioni che l’acquirente effettui entro un anno dal trasferimento, o entro il maggior termine previsto dall’accordo, escludendo però l’applicazione agli stessi dell’art. 2112 c.c., secondo il disposto dell’art. 47, comma 6, l. n. 428/1990. Il legislatore prevede, dunque, l’esclusione del regime di tutela del rapporto operato dall’art. 2112 c.c., il quale può trovare posto solo in via residuale e su espressa volontà delle parti dell’accordo nel concordare soluzioni di miglior favore, dunque che contemplino in parte le disposizioni della norma richiamata.
Ebbene, il Governo, con la specificazione introdotta nel comma 3 dell’art. 14, d.l. n. 104/2020, fa però riferimento al solo art. 2112 c.c., alimentando, così, il dubbio se il trasferimento d’azienda o di ramo d’azienda, cui consegue il venir meno della scriminante del divieto, debba realizzarsi unicamente secondo la procedura ordinaria oppure ricomprenda anche la procedura derogatoria prevista, appunto, dal ricordato art. 47, comma 5, l. n. 428/1990. A mio modesto avviso, occorre superare tale perplessità, indotta dal testo della norma, con l’interpretare il riferimento all’art. 2112 c.c. in via restrittiva, facendo, così, salve, e dunque incluse nell’esclusione, le ipotesi di trasferimento in cui trova applicazione la deroga prevista dai commi 5 e 6 dell’art. 47, l. n. 428/1990. Se così non fosse, ci si ritroverebbe nella paradossale situazione di considerare illegittimi i licenziamenti operati in virtù del trasferimento d’azienda ex art. 47, impedendo, di conseguenza, il realizzarsi della cessione, previsto nel programma di liquidazione, ed aggravando il pregiudizio dei creditori.
L’esclusione dal divieto viene, altresì, meno nel caso di «accordo collettivo aziendale, stipulato dalle organizzazioni sindacali comparativamente più rappresentative a livello nazionale, di incentivo alla risoluzione del rapporto di lavoro, limitatamente ai lavoratori che aderiscono al predetto accordo». Occorre constatare l’oscurità di tale eccezione: la norma fa riferimento al contratto collettivo aziendale che, però, deve essere sottoscritto - si badi - non dalle r.s.a. ovvero dalla r.s.u. facenti capo ai sindacati comparativamente più rappresentativi a livello nazionale, bensì dai sindacali nazionali stessi. Non si comprende, dunque, il riferimento al contratto aziendale visto che il soggetto tenuto a stipularlo opera su un piano diverso: quello di categoria. È evidente, qui, quanto l’azione legislativa sia stata “affrettata”, al punto da dimenticare le r.s.a. ovvero la r.s.u. espressione dei sindacati comparativamente più rappresentativi a livello nazionale . Bisogna, dunque, sperare in un intervento correttivo della legge di conversione sul punto , conseguendone altrimenti l’impossibilità di stipula. Permangono, però, altre ombre. In particolare, non si comprende se l’accordo collettivo in questione debba riferirsi al trasferimento d’azienda o di un ramo di essa e, in tal caso, diviene palese che il soggetto trattante è la r.s.u. ovvero la r.s.a. ex art. 47, comma 1, l. n. 428/1990 e non il sindacato di categoria, ovvero se lo stesso debba essere un accordo ad hoc. In tale eventualità, però, l’accordo collettivo dovrebbe essere stato previsto dal programma di liquidazione visto che si rientra nelle ipotesi di liquidazione senza continuazione, anche parziale, dell’attività. È, dunque, da preferire, anche calandosi nella logica emergenziale della norma, la prima prospettazione: inserendo l’accordo in questione nella procedura di trasferimento ex art. 47, l. n. 428/1990.
L’accordo collettivo deve prevedere un piano di incentivo all’esodo a fronte della risoluzione consensuale del rapporto di lavoro e produce i suoi effetti nei confronti di quei lavoratori che vi hanno aderito. Come noto, la procedura della risoluzione consensuale può essere svolta in via ordinaria (art. 26, d.lgs. n. 151/2015) ovvero presso le sedi protette (art. 26, comma 7, d.lgs. n. 151/2015). La norma tace sul punto, ma richiedendo l’adesione del lavoratore all’accordo collettivo , è agevole ritenere che la stessa indichi la risoluzione ex art. 26, comma 7, con la conseguenza che i termini del contratto collettivo saranno richiamati nell’accordo di risoluzione stipulato presso la sede protetta . L’art. 14, comma 3, specifica, poi, che, malgrado la cessazione del rapporto per risoluzione consensuale, a tali lavoratori viene comunque riconosciuto il trattamento della NASpI.
Le altre ipotesi di esclusione, previste dalla norma, concernono i licenziamenti intimati in caso di fallimento, quando non sia disposto l’esercizio provvisorio dell’impresa , ovvero ne sia stata disposta la cessazione . In caso di esercizio provvisorio di un ramo d’impresa, restano, inoltre, esclusi dal divieto i licenziamenti che riguardano i settori dell’impresa non investiti dall’esercizio provvisorio. Occorre notare che la norma non specifica se per il fallimento basti l’emanazione della sentenza dichiarativa ovvero si necessiti del decreto di chiusura dello stesso , tuttavia, stante il successivo riferimento all’esercizio provvisorio, è da ritenere che, al fine della legittimità dei licenziamenti, sia sufficiente la sentenza dichiarativa del fallimento, riferendosi (l’esercizio) al programma di liquidazione predisposto dal curatore. I licenziamenti, così, intervenuti si inscrivono, quindi, nelle attività di estinzione del passivo e sono prodromici alla (eventuale) liquidazione dell’attivo.
5. L’efficacia soggettiva della revoca del licenziamento per g.m.o. – È bene, infine, soffermarsi sulla previsione della revoca del licenziamento, già introdotta con la novella dell’art. 80, comma 1, lett. b), d.l. n. 34/2020 , ora ripresa dall’art. 14, comma 4, d.l. n. 104/2020. Il licenziamento per g.m.o. irrogato nella vigenza del divieto rientra, infatti, negli «altri casi» di nullità stabiliti dalla legge e, come tale, è da considerarsi «espressamente» nullo , dando luogo alla massima sanzione (reintegrazione e indennità non inferiore a cinque mensilità) a carico di ciascun datore di lavoro, al di là del numero di dipendenti occupati.
Ebbene, l’art. 14, comma 4, d.l. n. 104/2020 prevede la possibilità di revoca del recesso intimato per g.m.o. nell’anno 2020 «in ogni tempo» e «in deroga alle previsioni di cui all’articolo 18, comma 10, della legge 20 maggio 1970, n. 300». Tale revoca è possibile solo ove il datore faccia contemporanea richiesta di ammissione al «trattamento di cassa integrazione salariale, di cui agli articoli da 19 a 22-quinquies del decreto-legge 17 marzo 2020, n. 18, convertito con modificazioni dalla legge 24 aprile 2020, n. 27, a partire dalla data in cui ha efficacia il licenziamento». Bisogna soffermarsi su alcuni aspetti di tale previsione volta ad introdurre un regime speciale di sanatoria a fronte dell’illegittimità del licenziamento.
Innanzitutto, la norma si riferisce ad ogni licenziamento per g.m.o. intimato non nel periodo di divieto (17 marzo - 15 maggio 2020; 19 maggio - 17 agosto 2020; fino al 31 dicembre 2020 a seconda del tempo di beneficio della cassa integrazione o dell’esonero contributivo), bensì nell’anno 2020. Data l’ampiezza di tale arco temporale e la sua “apparente” indipendenza dal divieto, potrebbe sorgere il dubbio che il disposto dell’art. 14, comma 4, d.l. n. 104/2020 abbia un’efficacia generale, portando a ritenere che anche lo stesso divieto di licenziamento per g.m.o. posto dal comma 2 produca un tale effetto: vale a dire al di là della condizionalità illustrata. Ora, il medesimo comma 2 specifica, però, il proprio ambito di applicazione laddove afferma chiaramente che «alle condizioni di cui al comma 1, resta, altresì, preclusa al datore di lavoro [...] la facoltà di recedere dal contratto per giustificato motivo oggettivo». Sicché, malgrado la formulazione del comma 4 si riferisca all’anno 2020, occorre evidenziare che il divieto posto dal comma 2 trova applicazione soltanto a quei datori di lavoro che usufruiscono della cassa integrazione ovvero dell’esonero contributivo e ciò - si badi - per il tempo della loro effettiva (da parte di ciascun datore) fruizione. A mio modesto avviso, dunque, deve escludersi una interpretazione estensiva del divieto di licenziamento per la formulazione espansiva del comma 4 dell’art. 14. Formulazione che va, invece, letta come una speciale misura sanante per quei datori, cui si applica il divieto, che procedono comunque al licenziamento per g.m.o. Può, così, dirsi che la stessa costituisca una modalità di riduzione del contenzioso e di sanatoria del vizio che il Governo, e già prima il legislatore , ha posto per i datori di lavoro che affrontano situazioni di crisi (sospensione o riduzione dell’attività lavorativa) per eventi riconducibili all’emergenza Covid-19 e che, quindi, la stessa vada letta e produca efficacia nel contesto di condizionalità della norma in cui si inserisce.
In secondo luogo, la revoca è possibile «in ogni tempo» e ciò in deroga all’art. 18, comma 10, l. n. 300/1970. Questo significa che la stessa può intervenire, da un lato, anche oltre il termine di quindi giorni dalla comunicazione al datore di lavoro dell’impugnazione del licenziamento, e quindi finché il giudizio non sia arrivato a sentenza, dall’altro, anche laddove l’impugnazione non vi sia stata. La deroga all’art. 18, comma 10, è, infatti, piena e, dunque, non viene soltanto meno il termine massimo della revoca, che può intervenire, così, anche in fase giudiziale, bensì anche quello relativo alla possibilità di revoca a seguito dell’impugnazione. Ciò non sembra, a mio modesto avviso, impossibile, sebbene molto improbabile, poiché, come detto, la norma è posta a favore dei datori di lavoro soggetti al divieto di licenziamento, cui consegue non solo la possibile azione del lavoratore illegittimamente licenziato (che potrebbe decidere di non ricorrere ovvero di risolvere la questione in via conciliativa), ma anche, ad esempio, «la revoca dall’esonero contributivo concesso ai sensi del comma 1 del presente decreto con efficacia retroattiva e l’impossibilità di presentare domanda di integrazione salariale ai sensi dell’articolo 1» (art. 3, comma 3, d.l. n. 104/2020). Di guisa che, il datore, al fine di non perdere e dover quindi compensare il beneficio ricevuto, potrebbe, proprio in base all’art. 14, comma 4, revocare il licenziamento al di là della sua non ancora intervenuta impugnazione. Si tratterebbe, dunque, di una sorta di ravvedimento operoso concesso al datore “moroso”.
In terzo luogo, la norma subordina la possibilità di revoca alla contemporanea richiesta dei trattamenti di integrazione salariale. Sennonché, cosa avviene in caso di mancata ammissione del datore revocante ai trattamenti contestualmente richiesti. Il comma 4, infatti, non condiziona la possibilità di revoca all’ottenimento di tali trattamenti, bensì al fatto che il datore «contestualmente faccia richiesta del trattamento di cassa integrazione salariale». Occorre notare che, affinché il datore presenti la richiesta, lo stesso deve trovarsi in una delle condizioni richieste per essere ammesso ai trattamenti di integrazione salariale: vale a dire sospensione o riduzione dell’attività lavorativa per eventi riconducibili all’emergenza epidemiologica da Covid-19 ex art. 1, comma 1, d.l. n. 104/2020. Viene, così, confermata la tesi per cui la revoca dell’art. 14, comma 4, produce efficacia nei confronti dei datori cui il divieto del comma 2 trova applicazione secondo il meccanismo di condizionalità. Invero, laddove il datore non ottenga i trattamenti di cassa integrazione, allora a questo non troverà, altresì, applicazione il divieto e, dunque, anche la revoca speciale in commento. Deve, infatti, ritenersi che anche per la revoca valga il meccanismo di condizionalità: la stessa può essere fatta in presenza della richiesta della cassa integrazione e questa viene concessa a fronte della sospensione e riduzione dell’attività lavorativa per Covid-19. Sicché il mancato ottenimento del trattamento fa venir meno non solo la possibilità di revoca del licenziamento per g.m.o. irrogato nell’anno 2020, bensì anche il divieto di licenziamento medesimo.
Va, infine, specificato che il trattamento di integrazione salariale concesso a fronte della revoca produce il proprio effetto dal momento di efficacia del licenziamento fino al termine richiesto ed ottenuto dal datore, secondo i limite complessivo delle diciotto settimane fruibili entro il 31 dicembre 2020.