Testo integrale con note e bibliografia
1. L’art. 10 del decreto legislativo n. 23 del 2015 e il diritto europeo.
Come rilevato in modo arguto , era inevitabile che si ponesse il problema della coerenza dell’art. 10 del decreto legislativo n. 23 del 2015 con il diritto europeo, nonostante si sia ravvisato in questo ultimo la carenza di disposizioni sul versante sanzionatorio , quasi con una anticipazione della posizione espressa dalla Corte di giustizia . A prescindere dal recepimento della Carta sociale europea nel diritto dell’Unione , tesi difesa con puntiglio , la Carta esplica un ruolo significativo almeno sul versante dell’ispirazione dell’art. 30 della Carta di Nizza e, comunque, è rilevante l’impatto dell’art. 10 del decreto n. 23 del 2015 sull’impianto dei licenziamenti collettivi nel nostro Paese , soprattutto se si condivide l’idea per cui il sistema repressivo degli atti nulli e dei comportamenti illegittimi abbia dirette e profonde ricadute sull’assetto complessivo degli istituti, al punto che le modificazioni sul piano sanzionatorio alterano l’esperienza applicativa e la ricostruzione sistematica della disciplina sulle determinazioni negoziali. Ciò vale a maggiore ragione in presenza di un forte contenzioso e di una inevitabile attenzione per gli esiti economici e organizzativi delle controversie, come capita a proposito dei licenziamenti.
Le due ordinanze della Corte di appello di Napoli erano state concepite come una minaccia ai rapporti fra la Corte di giustizia e la Corte costituzionale italiana e la profezia ha colto nel segno , sebbene, dal punto di vista di un giurista del nostro Paese, più di qualsiasi altro tema dovrebbe interessare la ricomposizione del sistema sanzionatorio , minacciato in generale dal decreto n. 23 del 2015 e dalla sua stessa esistenza e, in particolare, dall’irrazionalità insita nell’art. 10. Resta misterioso come possa essere ragionevole la scelta dei lavoratori da estromettere qualora, nell’ambito della stessa procedura e, quindi, per prestatori di opere in diretta contrapposizione di interessi, possano essere diversi i rimedi in caso di illegittimità del recesso.
Con una posizione non persuasiva, per la giurisprudenza comunitaria, le “modalità di tutela” in tema di licenziamenti collettivi illegittimi per violazione dei criteri di scelta sarebbero carenti di un collegamento con la regolazione europea , in quanto “né tali modalità né detti criteri di scelta rientrano nell’ambito di applicazione” delle direttive e, comunque, dell’ordinamento comunitario. Come si è subito posto in luce, in modo convincente, “l’argomentazione desta alcune perplessità di stretto merito perché, mentre è vero che la direttiva n. 98 / 59 non si occupa del profilo sanzionatorio sostanziale, i criteri di scelta dei lavoratori da licenziare costituiscono una delle informazioni su cui svolgere la consultazione con i rappresentanti dei lavoratori” . In astratto, non certo in modo persuasivo, “si può anche sostenere che l’obbiettivo specifico dell’Unione consiste solo nell’imporre la preventiva comunicazione di tali criteri, piuttosto che nel garantire una determinata tutela per la loro erronea applicazione” . Ma quale senso avrebbe una informazione attinente a criteri attuati secondo percorsi irrazionali?
2. La procedura e i criteri di scelta.
La decisione di pochi mesi fa della Corte di giustizia non ha neppure tentato di ripristinare quella razionalità compromessa dall’art. 10 del decreto n. 23 del 2015 , a fronte dell’indebolimento della protezione internazionale ; l’art. 10 non è solo discutibile sul piano teorico . L’ordinanza della Corte di appello di Napoli aveva dedicato molto spazio al necessario carattere dissuasivo del sistema sanzionatorio , per esempio sottolineando l’incoerenza dell’art. 10 con la garanzia di un ristoro effettivo ; tuttavia, il punto più convincente e decisivo atteneva alla disarticolazione dell’intera sequenza procedimentale , in specie a proposito dell’applicazione dei criteri di scelta, poiché “il solo decorso del tempo, in una procedura di licenziamento collettivo che afferisce a una stessa comunità di lavoratori aventi omogenee caratteristiche, non pare (…) costituire una ‘differenza obbiettivamente giustificata’ idonea a legittimare regimi concorrenti profondamente diversi di tutela di un medesimo diritto fondamentale, anche alla luce del secondo ‘considerando’ della direttiva 98 / 59 / Ce, con il quale si esprime l’esigenza di ‘promuovere’ la tutela apprestata in caso di licenziamenti collettivi” .
Proprio a tale riguardo, è debole la replica della giurisprudenza comunitaria , quasi immaginata dall’ordinanza di remissione ; infatti, per la direttiva 98 / 59 / Ce è centrale l’istituzione di una unitaria procedura, vista come riequilibrio del potere del datore di lavoro e sede di impostazione microconcertativa delle possibili soluzioni della crisi aziendale . Il legislatore ha rafforzato gli istituti di pretesa “procedimentalizzazione” del potere dell’impresa e ha posto le premesse per un dialogo con le rappresentanze sindacali. Non a caso, queste scelte hanno incontrato difficoltà in vicende note, nelle quali, talora nelle regioni meridionali, i gravi limiti della rappresentatività sindacale e il proliferare delle azioni individuali hanno comportato condizioni di fatto opposte a quelle pensate.
La centralità della “procedimentalizzazione” e il ruolo determinante riservato all’accordo collettivo presuppongono una proporzionata capacità delle associazioni sindacali di convincere i lavoratori della ragionevolezza delle loro impostazioni . Dunque, la legge n. 223 del 1991 implica una forte rappresentatività, perno della disciplina e della sua agevole attuazione. Tali principi sono un diretto portato delle indicazioni comunitarie e la loro interpretazione deve partire da questo punto originario , tanto che l’individuazione della procedura di consultazione quale forma privilegiata e originaria di tutela ha spinto la dottrina, già prima della legge n. 223 del 1991, a riportare la matrice dell’istituto al confronto collettivo e, quindi, si è diversificata la figura dei recessi collettivi dai microconflitti, cioè dalle risistemazioni dell’organizzazione con semplici provvedimenti individuali .
Lo spirito della legge è “tradurre in termini di diritto l’esigenza al libero sviluppo delle scelte strategiche dell’imprenditore e presupporre l’insindacabilità delle strategie aziendali e dei metodi per renderle concrete” , e a ragione si sottolinea come il risultato sia raggiunto con una consapevole rielaborazione delle “espressioni adottate dagli stessi accordi collettivi” . Non a caso, il rafforzamento della protezione dei dipendenti è fatto gravare sulla procedura , incaricata di identificare soluzioni alternative e, comunque, di vagliare la veridicità delle allegazioni addotte dall’impresa a giustificazione delle sue opzioni .
Se mai, la legge mette in difficoltà una concezione meccanicistica dei licenziamenti e una loro visione deterministica, come se dall’elemento oggettivo della crisi dovessero derivare di necessità i recessi . Se i motivi allegati per “spiegare il licenziamento costituiscono le premesse per l’individuazione dei singoli lavoratori da estromettere” , il riferimento alla riduzione o alla trasformazione dell’attività e del lavoro serve più a rafforzare l’idea della valutazione libera dell’impresa, che a trovare collegamenti precisi fra la situazione organizzativa, le risposte del datore di lavoro e l’impatto sulla sorte dei prestatori di opere . L’adesione della legge all’impianto terminologico e ai canoni definitori dei contratti interconfederali preesistenti riporta il potere a una decisione, da giustificare e spiegare nella procedura, ma in ogni caso libera, appunto perché carente di una “funzionalizzazione” .
3. La risposta della Corte di giustizia ai dubbi sollevati dall’ordinanza della Corte di appello di Napoli.
Per la Corte di giustizia , non vi sarebbe un nesso necessario fra l’art. 10 del decreto n. 23 del 2015 e la direttiva 98 / 59 / Ce, perché “l’obiettivo principale di tale direttiva consiste nel far precedere i licenziamenti collettivi da una consultazione dei rappresentanti dei lavoratori e dall’informazione dell’autorità pubblica competente. Ai sensi del suo articolo 2, paragrafo 2, nelle consultazioni devono essere esaminate le possibilità di evitare o ridurre i licenziamenti collettivi, nonché di attenuarne le conseguenze ricorrendo a misure sociali di accompagnamento intese in particolare a facilitare la riqualificazione e la riconversione dei lavoratori licenziati. Ai sensi dell’articolo 2, paragrafo 3, e dell’articolo 3, paragrafo 1, della medesima direttiva, il datore di lavoro deve notificare all’autorità pubblica ogni progetto di licenziamento collettivo e trasmetterle gli elementi e le informazioni menzionati in tali disposizioni (sentenza del 21 dicembre 2016, AGET Iraklis, C 201/15, EU: C: 2016: 972, punto 28)”. Peraltro, ai sensi dell’art. 3, paragrafo 3, lett. c), punto V, il datore di lavoro deve fornire ogni informazione utile sui “criteri previsti per la selezione dei lavoratori da licenziare, qualora le legislazioni e / o le prassi nazionali ne attribuiscano la competenza al datore di lavoro”.
E’ alquanto debole l’ulteriore commento della Corte di giustizia , per cui “le modalità della tutela da riconoscere a un lavoratore che sia stato oggetto di un licenziamento collettivo ingiustificato derivante da una violazione dei criteri di scelta dei lavoratori da licenziare sono manifestamente prive di relazione con gli obblighi di notifica e di consultazione derivanti dalla direttiva 98 / 59. Né tali modalità né detti criteri di scelta rientrano nell’ambito di applicazione di questa ultima. Di conseguenza, essi rimangono di competenza degli Stati membri”. Se l’art. 10 del decreto n. 23 del 2015 rende irrazionale il sistema di selezione, ciò si traduce in un difetto genetico della procedura, di cui gli stessi criteri sono oggetto diretto, con espressa menzione nella direttiva . Non a caso, l’obbligo di informazione è introdotto “affinché i rappresentanti dei lavoratori possano formulare proposte costruttive” e, se l’intero schema procedimentale è alterato su un punto qualificante, perché, per una indicazione nazionale, la comparazione (da discutere in modo “costruttivo”) risente di differenti sistemi sanzionatori, si può pensare che l’ordinamento europeo non sia coinvolto?
Non a caso, l’ordinanza menziona l’art. 6 della direttiva , per nulla significativo rispetto alla questione proposta ; il punto non è se esistano tutele di matrice europea rispetto ai vincoli procedurali, ma se, nel suo complesso, per il fatto che sono considerati in modo congiunto lavoratori con posizioni diverse, l’intera procedura abbia un significato, coerente con l’art. 2, paragrafo 3, della direttiva 98 / 59 / Ce. A tale pertinente dubbio, non si può obbiettare che la … razionalità dell’intero modello procedimentale sarebbe irrilevante rispetto all’attuazione della direttiva, salvo postulare che questa … voglia solo una procedura, a prescindere dalla ragionevolezza della sua impostazione e dalla sua idoneità a provocare un confronto “costruttivo” .
Sebbene il termine sia poco convincente ed equivoco , esso postula che la discussione sia credibile e, a tale fine, le tutele devono essere omogenee . In difetto, quale informazione sensata e quale dialogo “costruttivo” possono mai avere luogo, in presenza di regimi sanzionatori opposti, con un indubbio svantaggio per i lavoratori assunti dopo il 7 marzo 2015, in specie nei confronti di imprese senza problemi di liquidità, posta l’impossibile adozione di un ordine di reintegrazione? Non può essere indifferente per l’art. 2, paragrafo 3, della direttiva la trasformazione dall’interno della procedura, in modo indiretto, ma con il risultato evidente di privarla di possibili esiti “costruttivi”.
4. L’altra ordinanza italiana sui licenziamenti collettivi.
La recente ordinanza della Corte di giustizia non lascia sperare bene per i temi sottoposti in precedenza con un altro provvedimento , soprattutto vista la seconda questione, appunto imperniata sull’impatto dell’art. 10 del decreto n. 23 del 2015 . Ci si può domandare se queste previsioni sfavorevoli (e un po’ sconsolate) si debbano estendere alla prima questione, nella quale, invece, si richiama la regolazione comunitaria del contratto a tempo determinato, poiché “la differenziazione realizzata dalla norma non attiene alla stessa fattispecie riguardata in momenti diversi del tempo, ma alla medesima fattispecie che nello stesso momento del tempo viene trattata diversamente in ragione della data di assunzione e / o di conversione del contratto a termine, ossia sulla base di un dato accidentale ed estrinseco a ciascun rapporto che in nulla è idoneo a differenziare un rapporto da un altro a parità di ogni profilo sostanziale” .
A tacere del fatto che, seppure a torto, un identico profilo non ha avuto successo nella nota decisione della Corte costituzionale , si può discutere sull’effettiva lesione della regolazione europea sulla parità di trattamento fra lavoratori a tempo indeterminato o a termine , a maggiore ragione sulla base delle precisazioni di una recente sentenza di legittimità . Se affiora un divieto di discriminazione correlato a profili economici a favore del dipendente assunto con un rapporto a tempo indeterminato e si devono stabilire i limiti di rilevanza del differente regime a lui riservato , è difficile riportare al sistema europeo quanto si desume dal decreto n. 23 del 2015, poiché il nesso è flebile e occasionale. Non a caso, come si è argomentato, “la disparità di trattamento in ragione del fluire del tempo, che non rappresenta in sé e per sé un valido criterio di differenziazione dei trattamenti, deve essere ragionevole” . Sebbene l’affermazione sia esatta , attiene in via trasversale e identica a tutte le fattispecie considerate dal decreto n. 23 del 2015, a prescindere dal fatto che si discuta di rapporti fino dall’inizio a tempo indeterminato o in una prima fase a termine e, poi, divenuti a tempo indeterminato . Non è questo ultimo il punto più rilevante, ma l’intrinseca conformazione delle tutele .
Pertanto, per il limitato, se non assente rilievo della direttiva sul rapporto a termine, si dovrebbe vedere reiterato il principio per cui, “poiché la situazione giuridica della ricorrente nel procedimento principale non rientra nell’ambito di applicazione del diritto dell’Unione, occorre constatare che l’interpretazione richiesta dell’art. 30 della Carta, relativo alla tutela in caso di licenziamento ingiustificato (…), non ha alcun rapporto con l’oggetto del procedimento principale” . Nella consapevolezza dei rischi di anticipare previsioni sulle decisioni della Corte di giustizia, la cui imprevedibilità potrebbe diventare proverbiale, è prudente lo scetticismo sull’impatto dell’altra ordinanza dei giudici italiani , per entrambe le questioni formulate , la prima sul significato del fattore del tempo nel decreto n. 23 del 2015 e la seconda sull’art. 10 e sulla connessa presenza nella medesima procedura di rapporti con sistemi di protezione differenti nell’ipotesi di licenziamenti illegittimi, in specie per violazione dei criteri di scelta.
La cognizione sul secondo problema è del tutto ammissibile, nonostante l’opposta convinzione della Corte di giustizia , come si vuole qui dimostrare. Sul primo profilo, pesano la limitata rilevanza della disciplina comunitaria sul rapporto a termine e il rifiuto della Corte di considerare l’art. 30 della Carta dei diritti fondamentali fuori da un simile nesso . Sarebbe triste, ma è probabile che, dopo gli sforzi della giurisprudenza di merito italiana , l’art. 10 resti intonso; al contrario, può essere considerato quasi un simbolo dell’irrazionalità di disposizioni riferite al modello sanzionatorio senza la valutazione della questione sostanziale, quindi della corretta applicazione dei criteri di scelta. La considerazione simultanea da parte dell’impresa di lavoratori parti di rapporti a tutele crescenti o del vecchio contratto a tempo indeterminato impedisce una valutazione lineare del datore di lavoro. Né può essere razionale una norma volta a indurlo in tentazione.