Testo integrale con note e bibliografia
1. Le questioni di legittimità costituzionale e la inammissibilità del ricorso.
La Corte costituzionale, con la sentenza n. 254 pubblicata il 26 novembre 2020 , ha dichiarato inammissibili le questioni di legittimità costituzionale sollevate dalla ordinanza della Corte di appello di Napoli del 18 settembre 2019 . I giudici napoletani dovevano esaminare un caso di licenziamento collettivo nel quale si discuteva della applicazione dei criteri di scelta e della procedura prevista dalla legge n. 223/1991. In particolare una lavoratrice, assunta successivamente al 7 marzo 2015, qualora la sua domanda di violazione dei criteri previsti dall’art. 5 della l. 223/1991 fosse stata accolta, ai sensi dell’art. 10 del d.lgs. 23/2015 sarebbe stata soggetta al regime indennitario previsto dall’art. 3, comma 1, del medesimo decreto legislativo, nella versione antecedente al D.L. 12.07.2018 n. 87 . Nella medesima procedura di licenziamento collettivo erano coinvolti anche lavoratori assunti prima del 7 marzo 2015. Per questi ultimi, al contrario, l’accertamento della illegittima applicazione dei criteri di scelta avrebbe comportato la tutela reintegratoria attenuata prevista dell’art. 18, comma 4, della l. 300/1970.
La Corte rilevava che, nell’ambito di un unico licenziamento collettivo, la previsione di un regime sanzionatorio differenziato a seconda della data di assunzione e l’introduzione, per i dipendenti soggetti al d.lgs. 23/2015, di un regime meramente indennitario si ponevano in contrasto con una pluralità di disposizioni della Costituzione italiana e, nella misura in cui introducevano una sanzione priva «dei caratteri di efficacia ed effettività» anche con fonti internazionali .
La Corte, come si è già detto, non ha analizzato nel merito le presunte censure di incostituzionalità e ha dichiarato inammissibile il ricorso.
La sentenza n. 254/2020 si lega a quella emessa dalla Corte di giustizia europea (CGE) il 4 giugno 2020 (causa C – 32/20, Cira Romagnuolo c. Balga Srl) . I giudici napoletani, con un’altra ordinanza del 18 settembre 2019, avevano sollecitato un rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia europea. Il contemporaneo rinvio al giudice delle leggi e alla CGE era stato effettuato alla luce del principio della «doppia pregiudiziale». Infatti, la Corte costituzionale ha affermato che «laddove una legge sia oggetto di dubbi di illegittimità tanto in riferimento ai diritti protetti dalla Costituzione italiana, quanto in relazione a quelli garantiti dalla Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea in ambito di rilevanza comunitaria, debba essere sollevata la questione di legittimità costituzionale, fatto salvo il ricorso al rinvio pregiudiziale per le questioni di interpretazione o di invalidità del diritto dell'Unione, ai sensi dell’art. 267 del TFUE» .
Nell’ambito di questo nuovo indirizzo interpretativo della Corte, i giudici napoletani proponevano alla CGE quattro questioni legate alla interpretazione delle disposizioni della Carta di Nizza (artt. 20, 21, 30, 34 e 47) e della Carta sociale europea (art. 24) e alla coerenza della disciplina nazionale sui licenziamenti collettivi con tali norme (con particolare riferimento alla tutela indennitaria riconosciuta ai lavoratori assunti dopo il 7 marzo 2015 in caso di violazione dei criteri di scelta). Molte delle argomentazioni espresse nella ordinanza di rinvio erano le stesse già illustrate nel coevo provvedimento con cui era stata sollevata la questione di costituzionalità.
La Corte di giustizia si è dichiarata «manifestamente incompetente» a rispondere alle questioni pregiudiziali sottoposte dal giudice italiano .
Nella mia analisi intendo soffermarmi sul contenuto della decisione della Corte costituzionale. In particolare mi propongo di verificare se la sentenza n. 254 del 2020 sia coerente con la giurisprudenza della stessa Corte in materia di ammissibilità/inammissibilità di un ricorso nel giudizio incidentale di costituzionalità. Inoltre vorrei verificare se, con riferimento alle due recenti decisioni della Corte in materia di contratto a tutele crescenti (n. 194/2018 e 150/2020), le ordinanze di rimessione avessero caratteristiche molto diverse da quelle della Corte di appello di Napoli e tali da giustificare esiti così differenti (la valutazione del merito delle questioni nei primi due casi, l’inammissibilità del ricorso nel secondo caso). Esporrò infine alcune considerazioni conclusive sul rapporto tra la Corte costituzionale e la CGE.
2. Il primo motivo di inammissibilità: la mancata specificazione dei vizi del licenziamento quale elemento che inibisce la valutazione sulla rilevanza della questione di costituzionalità.
A) Un primo profilo di inammissibilità viene individuato dalla Corte nel fatto che il giudice remittente «trascura di descrivere la fattispecie concreta e di allegare elementi idonei a corroborare l’accoglimento dell’impugnazione in virtù di una violazione dei criteri di scelta, già esclusa dal giudice di prime cure. L’applicazione della disciplina sanzionatoria, che il giudice a quo sospetta di incostituzionalità, richiede preventivamente l’individuazione dei vizi del licenziamento collettivo. Tale presupposto riveste un rilievo cruciale alla luce sia dell’alternativa che la parte delinea tra inosservanza dei criteri di scelta e inosservanza della procedura, sia dell’intervento di una pronuncia di primo grado che ha escluso ogni vizio dell’impugnato licenziamento collettivo. Su tale ineludibile antecedente logico, il remittente non si sofferma e omette, anche solo con un’argomentazione non implausibile, di avvalorare la rilevanza dei prospettati dubbi di costituzionalità».
In sostanza, al contrario di quanto avvenuto nelle sentenze 194/2018 e 150/2020, dove i giudici remittenti si sono soffermati sulla ricorrenza «di una ipotesi di illegittimità, sostanziale o formale, dei licenziamenti impugnati e (sulla) necessità di applicare la corrispondente disciplina di protezione», in questo caso invece il giudice non ha spiegato se il recesso doveva considerarsi illegittimo per violazione dei criteri di scelta o della procedura di consultazione sindacale.
In effetti l’ordinanza dei giudici napoletani ha il contenuto descritto dalla Corte costituzionale. E si sarebbe in presenza di «lacune nella descrizione della fattispecie concreta (che) impediscono, dunque, a questa Corte di valutare la rilevanza delle questioni sollevate» .
B) Tuttavia, le affermazioni della Corte si pongono in palese contrasto con la giurisprudenza che essa stessa ha elaborato su questa materia. Nel paragrafo 4 2. del Considerato in diritto della decisione n. 254/2020, la Corte afferma che «la rilevanza del dubbio di costituzionalità non si identifica nell’utilità concreta di cui le parti in causa potrebbero beneficiare (sentenza n. 174 del 2019, punto 2. 1. del Considerato in diritto). Essa presuppone la necessità di applicare la disposizione censurata nel percorso argomentativo che conduce alla decisione e si riconnette all’incidenza della pronuncia di questa Corte su qualsiasi tappa di tale percorso» .
Nel precedente del 2019 (sentenza n. 174), la Corte rileva come il giudice remittente «per decidere la causa, dovrà applicare le disposizioni censurate e l’applicabilità della disposizione è sufficiente a radicare la rilevanza delle questioni proposte (sentenza n. 174 del 2016, punto 2,1 del Considerato in diritto). Anche nella prospettiva di un più diffuso accesso al sindacato di costituzionalità (sentenza n. 77 del 2018, punto 8, del Considerato in diritto) e di una più efficace garanzia della conformità della legislazione alla Carta fondamentale, il presupposto della rilevanza non si identifica nell’utilità concreta di cui le parti in causa potrebbero beneficiare (sentenza n. 20 del 2018, punto 2. del Considerato in diritto)» .
Questi principi sono stati costantemente ribaditi dalla Corte costituzionale .
La lettura della ordinanza della Corte di appello di Napoli è sul punto inequivocabile. I giudici merito rilevano come, in sede di appello, si contesti la sentenza del Tribunale che aveva respinto la domanda della lavoratrice fondata sulla violazione dei criteri di scelta utilizzati nel licenziamento collettivo «con particolare riferimento alla sua individuazione, visto che la causale del licenziamento – come desumibile dalle comunicazioni - era relativa a tutto il personale dell’azienda e non al solo cantiere di […]. E nell’organico aziendale vi erano altre figure professionali identiche, mai state considerate ai fini della comparazione» La Corte proseguiva poi affermando che «opponeva, in particolare, la ricorrente l’illegittimità del licenziamento intimatole, per violazione dei criteri di scelta ai sensi dell’art. 5 della legge 223/91 e comunque per violazione della procedura» .
I giudici di merito poi si soffermano sulla rilevanza della questione sottolineando come, per poter decidere la controversia, occorreva applicare gli articoli 1, comma secondo, e 10 del Dl Gs 4 marzo 2015 n. 23 .
Non vi è quindi il minimo dubbio che la Corte di merito abbia messo in rilievo come l’oggetto del giudizio di appello riguardava la legittimità o meno nell’applicazione dei criteri di scelta. La valutazione di tale aspetto presupponeva, qualora si fosse accertata tale violazione, l’utilizzazione delle norme di legge di cui si affermava la presunta incostituzionalità per una pluralità di ragioni. E’ indiscutibile, dunque, che le norme del Dl Gs 23/2015 indicate dovevano necessariamente essere applicate in quel giudizio. Pertanto la questione era necessariamente rilevante alla luce nella giurisprudenza enucleata dalla stessa Corte. Nè si poteva dire che il giudice remittente non aveva illustrato «in modo adeguato e soddisfacente i fatti del giudizio principale, non chiarendo l’effettiva applicabilità della disposizione censurata (ord. nn. 12, 46 e 79 del 2017; 118 del 2016; n. 250 del 2011)» . La lettura delle prime due pagine della ordinanza elimina ogni perplessità su tale aspetto, perché si spiega esattamente quale sia la presunta violazione dei criteri di scelta e quali siano le norme invocate (articolo 5 della legge 223/91, articoli 1, secondo comma, e 10 del Dl Gs 23/2015).
Con la sentenza n. 254/2020, la Corte ha ampliato i presupposti della rilevanza della questione della legittimità costituzionale. Per affermare la sua pregiudizialità rispetto all’oggetto del giudizio, non è sufficiente che il giudice remittente dimostri «che la disposizione censurata sia applicabile nel giudizio a quo, senza che rilevino gli effetti di una eventuale pronuncia di illegittimità costituzionale per le parti in causa (…)» . Occorrerebbe anche provare che la normativa interessata sia concretamente applicabile al caso oggetto di giudizio. In sostanza la rilevanza presupporrebbe la valutazione sul merito della questione (nel nostro caso la illegittima utilizzazione dei criteri di scelta e il conseguente regime risarcitorio previsto dall’articolo 10 del Dl Gs 23/2015) e non la sua astratta applicabilità.
La stessa Corte, tuttavia, in altre pronunce, ha sottolineato che «la rilevanza non interferisce con il diverso profilo della fondatezza della domanda, che il rimettente potrà esaminare - alla luce delle contrapposte argomentazioni delle parti - soltanto una volta che sia rimosso il radicale divieto di ripetizione, che impedisce ogni valutazione di merito circa la pretesa restitutoria avanzata ». Un principio questo ribadito anche C. cost. 160/2019, secondo la quale «la motivazione, incentrata sul carattere decisivo della questione preliminare e sulla necessità, per risolverla, di applicare la normativa censurata, è sufficiente a dare conto della rilevanza, non essendo richiesta a tali fini una delibazione nel merito della domanda di annullamento, la cui cognizione da parte del giudice a quo è preclusa dalla stessa normativa censurata» .
Inoltre la sentenza n. 254/2020 finisce per reintrodurre implicitamente un giudizio anche sull’utilità concreta che la decisione sulla costituzionalità può determinare nel processo. E questo in palese contraddizione con il principio per cui non rilevano «gli effetti di un eventuale pronuncia di legittimità costituzionale per le parti in causa» .
Questo ampliamento del concetto di rilevanza della questione, con il rilievo del merito e dell’utilità concreta, rende più restrittivi i presupposti del giudizio incidentale e si pone quindi in contrasto con la «prospettiva di un più diffuso accesso al sindacato di costituzionalità […] e di una più efficace garanzia della conformità a Costituzione della legislazione» .
3. Il secondo motivo di inammissibilità: la «ambiguità» del petitum.
A) A giudizio della Corte in ricorso è inoltre inammissibile in quanto «dalla formulazione delle censure, non è dato comprendere se il rimettente prefiguri l’integrale caducazione dell’art. 10 del Dl Gs n. 23 del 2015, nella parte in cui sanziona la violazione dei criteri di scelta, o una pronuncia sostitutiva, che allinei il contenuto precettivo di tale previsione alle soluzioni dettate dall’art. 5, comma 3, terzo periodo, della legge n. 223 del 1991, come ridefinito dall’art. 1, comma 46, della legge n. 92 del 2012. È la stessa parte ricorrente nel giudizio principale che auspica, nella memoria illustrativa depositata in prossimità dell’udienza, ‘una pronuncia ablativa o manipolativa’, con una indicazione perplessa, di per sé rivelatrice dell’ambiguità del petitum. Né spetta a questa Corte sciogliere l’alternativa descritta, in difetto di indicazioni univoche da parte del rimettente» .
In effetti una lettura della ordinanza del giudice remittente consente di affermare che non vi è un’esatta individuazione del petitum. Manca infatti, un qualsiasi riferimento al tipo di intervento richiesto alla Corte costituzionale.
Tuttavia in più parti della propria motivazione i giudici napoletani fanno chiaramente comprendere come l’indennità risarcitoria prevista dall’articolo 10 del Dl Gs 23/2015 non abbia un’efficacia sanzionatoria e dissuasiva adeguata rispetto alla tutela reintegratoria garantita dall’articolo 5 della legge 223/1991 (si vedano in particolare i punti 34, 52, 56, 91 e 98). Se dunque é vero che manca una formulazione espressa del tipo di intervento richiesto alla Corte costituzionale, mi sembra tuttavia che, almeno in forma implicita, i giudici di merito chiedono una pronuncia che elimini la tutela indennitaria e estenda anche lavoratori assunti dopo il 7 marzo 2015, in caso di violazioni criteri di scelta, la reintegra attenuata prevista dall’articolo 18, comma 4, della legge 300/1970.
B) Nonostante la contraria opinione di autorevole dottrina , la Corte costituzionale, con varie decisioni ha dichiarato l’inammissibilità della questione di costituzionalità in quanto il giudice a quo non ha «indicato il ‘verso’ della soluzione al problema di costituzionalità: come si legge in numerose decisioni, la mancata indicazione, da parte del giudice remittente, della direzione e dei contenuti dell’intervento correttivo auspicato tra i molteplici apprezzamenti ipotizzabili, ‘si risolve nell’indeterminatezza e nell’ambiguità del petitum, le quali comportano l’inammissibilità della questione’ (ord. nn. 256 e 244 del 2017; 69 del 2015; sent. nn. 220 del 2014; 220 del 2012; 186 e 117 del 2011; ord. nn. 335, 260 e 21 del 2011)» .
Tale principio è stato ripetutamente ribadito . La sentenza n. 239 del 2019, ad esempio, «dopo aver osservato che i rimettenti ‘si limitano a concludere nel senso della mera rilevanza e della non manifesta infondatezza delle questioni’ – ha sottolineato ‘l’ambiguità e l’indeterminatezza dei petita, che neppure il tenore del dispositivo delle ordinanze di rimessione riesce a dissipare’. Dagli atti di promovimento ‘non risulta chiaro che tipo di pronuncia invochino i giudici a quibus’; ‘non si comprende se (…) richiedano un intervento meramente ablativo della normativa censurata oppure manipolativo-additivo della stessa; incertezza che (…) preclude l’esame nel merito delle questioni» . Come si vede la sentenza 239/2019 utilizza sia il concetto di ambiguità, sia quella di indeterminatezza del petitum, in coerenza con quanto affermato dalla decisione n. 254/2020.
Tuttavia la stessa Corte costituzionale, ad esempio con la pronuncia n. 176/2019, «ha affermato che l’ordinanza di rimessione ‘non necessariamente deve concludersi con un dispositivo recante altresì un petitum, essendo sufficiente che dal tenore complessivo della motivazione emerga con chiarezza il contenuto ed il verso delle censure» . E tale sentenza richiama un identico precedente espresso dalla decisione n. 175 del 2018.
Si è rilevato inoltre che «le inesattezze riscontrate in merito all’indicazione del petitum, dell’oggetto dei parametri non sempre conducono al inammissibilità delle questioni: nei limiti in cui il tenore complessivo dell’ordinanza renda chiaro il significato del quesito, è la Corte stessa a operare una correzione (sentenze nn. 24, 33, 63, 97, 181, 221; ordinanza n. 91)» . Tale principio era stato già ribadito in precedenza in molte sentenze . Si è messo in evidenza, inoltre, che «il petitum e la tessitura delle censure elaborate dal giudice a quo non sono vincoli assolutamente inviolabili per il giudice costituzionale. Sono a disposizione alcuni grimaldelli: ad esempio, l’interpretazione sostanzialistica dell’ordinanza; l’illegittimità consequenziale; la logica della continenza, che alla domanda di annullamento integrale permette di rispondere con un’ablazione solo parziale (così può essere letto, in ultima analisi, l’esito della recente sentenza n. 120 del 2018)» .
Questi precedenti sono sufficienti per criticare il profilo di inammissibilità sottolineato dalla Corte costituzionale con la sentenza n. 254/2020, in considerazione della non necessità di un petitum espresso e della possibilità di ricavarne il contenuto dal tenore complessivo dell’ordinanza. Non vi è dubbio che la pronuncia della Corte di appello di Napoli avrebbe potuto essere meglio formulata. Mi sembra altresì indiscutibile, peraltro, che da essa sia desumibile la volontà della Corte di ritenere che i giudici costituzionali avrebbero dovuto dichiarare illegittima la disposizione del Dl Gs 23 2015 che prevede una tutela meramente indennitaria in caso di violazione dei criteri di scelta e applicare la disciplina della reintegra attenuata prevista dall’articolo 18 statuto dei lavoratori. Qui, dunque, come già sottolineato, sarebbe stato sufficiente utilizzare la «interpretazione sostanzialistica della ordinanza» per risolvere qualsiasi problema.
C) Le conclusioni descritte sono ulteriormente rafforzate dalla lettura della ordinanza del Tribunale di Roma del 26 luglio 2017 in base a quale la Corte costituzionale ha dichiarato l’illegittimità dell’articolo 3 del Dl Gs 23/2015. Questo precedente assume un rilievo particolare sia perché si tratta del provvedimento che ha portato la Corte ad una pronuncia di incostituzionalità del decreto legislativo delegato, sia perché sono gli stessi giudici costituzionali ad attribuire importanza alle ordinanze di altri giudici remittenti in materia di licenziamenti. Come si è già detto, infatti, nella sentenza n. 254/2020, la Corte, nel rilevare come il giudice a quo non avesse indicato quali fossero i profili di illegittimità nella violazione dei criteri di scelta, ha messo in evidenza come, al contrario, questa situazione non si fosse verificata negli altri due procedimenti poi conclusi con le decisioni n. 194/2018 e 150/2020 . La Corte, dunque, con il richiamo ai precedenti specifici in materia, intende avvalorare la coerenza della propria interpretazione, lasciando intendere che le pronunce sul merito emesse nel 2018 e 2020 erano giustificate dalla assenza di quelle lacune e carenze che hanno viceversa indotto ad una decisione di inammissibilità della ordinanza relativa ai licenziamenti collettivi.
Tuttavia, l’analisi del provvedimento del Tribunale di Roma del 26 luglio 2017 non consente di giungere alle conclusioni della Corte proprio con riferimento alla mancanza, nella ordinanza dei giudici napoletani, di una esatta individuazione del petitum richiesto.
Infatti, l’attenta lettura della motivazione del Tribunale rivela come il giudice a quo non abbia espressamente chiesto alla Corte un provvedimento di qualsiasi genere (sentenza di accoglimento, sentenza manipolativa, additiva e così via). Soltanto nella parte finale della motivazione, il giudice afferma quanto segue: «l'accoglimento della prospettata questione di costituzionalità consentirebbe, nel caso di specie, di riconoscere alla ricorrente una tutela compensativa del reale pregiudizio subito, che sarebbe in tal caso costituita dalla tutela di cui all'art. 18, commi 4 e 7 (in subordine, comma 5) della legge n. 300/1970 come modificata dalla legge n. 92/2012; e di porre un rimedio (latamente sanzionatorio oltre che compensativo) al comportamento della odierna convenuta che evidentemente ha inteso lucrare il beneficio contributivo assumendo una lavoratrice di cui poi si è sbarazzata con un licenziamento pseudomotivato» .
Il Tribunale non richiede espressamente un certo tipo di pronuncia da parte dei giudici costituzionali, ma si limita a prospettare quale potrebbe essere la conseguenza, nel caso oggetto di giudizio, dell’accoglimento della questione di costituzionalità, con possibile applicazione della tutela garantita dall’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori. Anche se, poi, l’ordinanza romana era stata interpretata come diretta ad ottenere «la riespansione del regime anteriore» (l’art. 18 l. 300/1970) , con una tesi, peraltro, da me contestata, in quanto mi sembrava evidente come il giudice remittente non avesse avanzato una domanda espressa di una sentenza manipolativa da parte della Corte costituzionale .
Da questo punto di vista, l’ordinanza della Corte napoletana, seppure espressa in forme diverse, non mi pare dica qualcosa di diverso. Essa, infatti, sottolinea come la sanzione reintegratoria nel caso della violazione dei criteri di scelta sarebbe quella più adeguata a tutelare i lavoratori alla luce di una pluralità di argomentazioni. E, quindi, implicitamente, si esprime lo stesso concetto del Tribunale di Roma: l’accoglimento dell’eccezione di incostituzionalità consentirebbe l’applicazione dell’articolo 18 statuto dei lavoratori.
Va inoltre considerato che il contenuto dell’ordinanza del Tribunale di Roma era stato contestato proprio in relazione alla erronea formulazione del petitum . Le perplessità sollevate dimostrano come essa non solo non contenesse un espressa domanda relativa al tipo di provvedimento che la Corte costituzionale avrebbe dovuto emettere, ma presentava profili problematici in relazione a questi aspetti di cui la Corte costituzionale non ha minimamente tenuto conto. E’ vero che, a mio giudizio, le lacune messe in evidenza da questa interpretazione non erano tali da poter determinare un giudizio di inammissibilità della ordinanza del giudice romano . Tuttavia è altrettanto evidente che il provvedimento del Tribunale non rispecchiava sicuramente quei requisiti di rigorosa individuazione del petitum che, come si è visto, sono stati utilizzati dalla Corte per negare una valutazione nel merito della questione di legittimità costituzionale dei criteri di scelta nei licenziamenti collettivi.
Si tratta di un evidente incoerenza nelle argomentazioni della Corte: a fronte di due ordinanze che presentavano, sotto il profilo processuale dell’assenza del petitum, un identico contenuto, i giudici costituzionali nel 2018 non hanno minimamente posto la questione della inammissibilità che invece è stata affermata nel 2020 proprio in relazione all’ambiguità del petitum stesso .
4. Il terzo motivo di inammissibilità: la mancata individuazione «in termini nitidi» dell’intervento normativo diretto a sanare le censure di incostituzionalità.
A) Un ulteriore profilo di inammissibilità è individuato dalla Corte quando afferma che «egualmente irrisolta permane l'alternativa, che comunque investe le scelte eminentemente discrezionali del legislatore, tra il ripristino puro e semplice della tutela reintegratoria o la rimodulazione della tutela indennitaria, in una più accentuata chiave deterrente.
Dalla giurisprudenza di questa Corte (sentenze n. 150 del 2020, punto 9. del Considerato in diritto, n. 194 del 2018, punto 9.2. del Considerato in diritto, e n. 46 del 2000, punto 5. del Considerato in diritto) e dalle stesse fonti internazionali evocate dal giudice a quo (art. 24 della Carta sociale europea), si ricava, difatti, che molteplici possono essere i rimedi idonei a garantire una adeguata compensazione per il lavoratore arbitrariamente licenziato.
Sia la tutela reintegratoria sia la tutela indennitaria possono essere diversamente modulate e ampio è il margine di apprezzamento che spetta al legislatore nell'attuazione dei diritti sanciti dagli artt. 4 e 35 Cost. e, in una prospettiva convergente, dall'art. 24 della Carta sociale europea.
A fronte di una vasta gamma di soluzioni, la Corte rimettente non enuncia in termini nitidi l'intervento idoneo a sanare le numerose sperequazioni censurate, sulla base di precisi punti di riferimento già presenti nella trama normativa» .
Quest’ultima affermazione della Corte è particolarmente importante per cogliere il profilo di inammissibilità che è stato sollevato. Il giudice a quo non solo non ha specificato il tipo di intervento richiesto (con un richiamo al problema della omissione del petitum già analizzato), ma non ha neanche individuato quale fosse la disposizione che, in caso di accoglimento della censura di incostituzionalità, avrebbe dovuto essere applicata, enucleandola dal sistema normativo già esistente.
In questo caso la Corte pone il problema delle «rime obbligate» e della possibile «invasione» della discrezionalità del legislatore. Si tratta di questioni importanti, che devono essere analizzate.
B) Il problema delle «rime obbligate» è strettamente connesso con quello delle sentenze additive. La Corte costituzionale «ha ripetutamente affermato (sentenze n. 308 e 258 del 1994, n. 298 del 1993, tra le altre) che le pronunce additive sono consentite solamente quando la questione si presenti a rime obbligate […], cioè quando la soluzione sia logicamente necessitata ed implicita nello stesso contesto normativo» . Il principio è ribadito da molte altre sentenze . Inoltre, in tempi recenti, si è confermato che questo tipo di decisione «secondo la costante giurisprudenza di questa Corte, presuppone l'impossibilità di superare la “norma negativa”, affetta da incostituzionalità, per via d'interpretazione, nonché l'esistenza di un'unica soluzione costituzionalmente obbligata (cosiddetta a “rime obbligate”; ex plurimis, sentenze n. 241, n. 81 e n. 30 del 2014)» . Infatti, il giudice delle leggi non ha «il potere di estendere o creare una disposizione normativa quando ne sia costituzionalmente ammissibile più d'una, atteso che la scelta fra di esse appartiene alla discrezionalità del legislatore (interno o internazionale)» .
Il tema è di tale complessità da non poter essere affrontato in questa sede . Qui preme osservare come la questione fosse stata prospettata anche con riferimento alla ordinanza del Tribunale di Roma del 26 luglio 2017 già esaminata e poi sfociata nella sentenza della Corte costituzionale n. 194/2018.
L’obiezione era che la richiesta di intervento manipolativo, secondo questa interpretazione consistente nell’estensione ai lavoratori assunti dopo il 7 marzo 2015 della disciplina dell’art. 18 della l. 300/1970, avrebbe potuto invadere la discrezionalità del legislatore «nello stabilire natura e misura delle garanzie contro i licenziamenti illegittimi, costituzionalmente necessarie, ma tutt’altro che vincolate». Una pronuncia che avesse esteso l’art. 18 avrebbe potuto andare «ben al di là delle caratteristiche tecniche della singola questione e (avrebbe lambito) il confine con ciò che, in materia, è riservato esclusivamente alla politica».
Tuttavia, continuava l’autore, «si può forse spezzare una lancia a favore dell’ordinanza di rimessione: l’apparenza di attivismo giudiziario potrebbe risolversi nel suo contrario. In più punti, l’ordinanza di rimessione paragona la situazione dei neoassunti a quella di coloro cui continua ad applicarsi l’art. 18 dello Statuto dei lavoratori […]. Il regime stabilito nel 2012 non è stato integralmente espunto dall’ordinamento: rimane come regola di un novero di fattispecie che, è vero, non si allargherà nel tempo, ma è pur sempre destinato a persistere ancora a lungo, e a coesistere con il nuovo regime, quotidianamente, all’interno delle stesse imprese, attraverso la dicotomia tra vecchi e nuovi assunti. Questa considerazione potrebbe mitigare la preoccupazione esposta prima: non si tratterebbe di creare una regola nuova, né di resuscitarne una completamente consegnata al passato; bensì di estendere uno dei due regimi attualmente esistenti, ciascuno (semplificando) generale a suo modo, entro il rispettivo ambito cronologico di riferimento. Il riferimento alle norme del 2012 […] potrebbe essere utile per contenere il grado di creatività dell’intervento manipolativo: non si crea niente di nuovo; si estende l’altro termine della dicotomia, appoggiandosi a una normativa ancora vigente, parallela a quella censurata» .
Queste conclusioni avrebbero potuto essere sicuramente estese anche alla ordinanza della Corte di appello di Napoli. Il giudice remittente, seppure in modo implicito, aveva lasciato chiaramente comprendere come, a suo parere, l’unica tutela effettiva in caso di violazione dei criteri di scelta in materia di licenziamenti collettivi era costituito dalla reintegrazione attenuata prevista dall’articolo 18, comma 4, della legge 300/1970. Dunque, proprio alla luce dei principi in tema di “rime obbligate”, come sottolineato dalla interpretazione sopra esposta, l’estensione dell’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori avrebbe potuto ben essere accolta dalla Corte che non si sarebbe trovata a creare una regola nuova bensì ad estendere uno dei due regimi attualmente esistenti, con una soluzione tale da contenere il grado di creatività dell’intervento manipolativo. In sostanza, qualora si fosse condivisa la incostituzionalità della normativa, poiché esiste una disciplina positivamente scelta dalla legge per sanzionare una certa forma di licenziamento illegittimo (per violazione dei criteri di scelta), l’applicazione dell’art. 18 della l. 300/1970 da parte della Corte costituzionale avrebbe costituito «una estensione logicamente necessitata e spesso implicita nella potenzialità interpretativa del contesto normativo in cui è inserita la disposizione impugnata» .
Vi sono poi considerazioni ulteriori che dimostrano l’incoerenza della scelta effettuata dalla Corte costituzionale con la decisione n. 254/2020. Infatti, la recente sentenza additiva della Corte costituzionale n. 120/2018 (relativa alle associazioni militari e alla loro possibile sindacalizzazione), mi sembra dimostri la flessibilità dei criteri utilizzabili per decisioni di tipo manipolativo. In questo caso la Corte modifica il contenuto dell’art. 1475, comma 2, del d.lgs. 66/2010 («I militari non possono costituire associazioni professionali a carattere sindacale o aderire ad altre associazioni sindacali»), e lo trasforma in modo consistente («I militari possono costituire associazioni professionali a carattere sindacale alle condizioni e con i limiti fissati dalla legge; non possono aderire ad altre associazioni sindacali») . Tale risultato – a cui si giunge perché la norma censurata è in contrasto con la CEDU, la Carta sociale europea e altre disposizioni costituzionali (art. 52, art. 39) – viene realizzato «per non rinviare il riconoscimento del diritto di associazione». E la Corte ritiene che «il vuoto normativo possa essere colmato con la disciplina dettata per i diversi organismi della rappresentanza militare e in particolare con quelle disposizioni (art. 1478, comma 7, del d.lgs. n. 66 del 2010) che escludono dalla loro competenza “le materie concernenti l’ordinamento, l’addestramento, le operazioni, il settore logistico-operativo, il rapporto gerarchico-funzionale e l’impiego del personale”. Tali disposizioni infatti costituiscono, allo stato, adeguata garanzia dei valori e degli interessi prima richiamati» .
Il confronto tra la disposizione utilizzata dalla Corte per colmare il «vuoto normativo» - assai lontana sia da quella censurata sia da quella scaturente dalla «manipolazione» poi cristallizzata nel dispositivo - con quella che dovrebbe essere usata nel nostro caso (l’art. 18, comma 4, l. 300/1970) dimostra che in questa ipotesi verrebbe richiesto alla Corte un intervento di carattere «assai meno additivo» di quello recentemente effettuato con la sentenza n. 120/2018. Da questo punto di vista, inoltre, anche se si tratta di sentenze assai risalenti nel tempo, le decisioni della Corte costituzionale in tema di decorrenza della prescrizione dei crediti di lavoro hanno avuto (ed hanno tutt’ora) un effetto creativo che mi sembra vada ben al di là delle «rime obbligate» . Perché in quel caso, oltre a «riscrivere» più disposizioni del codice civile, la decorrenza della prescrizione è stata connessa a determinati regimi di tutela in materia di licenziamento, con una soluzione tutt’altro che «costituzionalmente obbligata». In queste ipotesi, infatti, la Corte ha scelto diverse opzioni che certamente non scaturivano de plano dalla Costituzione, ma ha selezionato presupposti e regimi di tutela con scelte molto più vicine alla discrezionalità tipica del legislatore.
5. Conclusioni: la inammissibilità quale forma di «leale e costruttiva collaborazione» con la Corte di giustizia dell’Unione europea?
L’analisi delle motivazioni utilizzate dalla Corte costituzionale per dichiarare inammissibile il giudizio incidentale sollecita alcune riflessioni. In relazione al concetto di «rilevanza» della questione di costituzionalità la sentenza si differenzia rispetto ai propri orientamenti giurisprudenziali consolidati in materia. Mentre, per quanto attiene al petitum del giudizio e al tipo di intervento che era stato richiesto, la Corte conferma alcuni suoi principi. Tuttavia, è sempre nella giurisprudenza costituzionale che era possibile trovare precedenti che giustificassero una diversa soluzione. E, in riferimento al giudizio definito con la sentenza n. 194/2018, il diverso trattamento riservato alla ordinanza del Tribunale di Roma del 26 luglio 2017 – che si esponeva ad obiezioni assolutamente analoghe a quelle espresse nei confronti della decisione della Corte di appello di Napoli – dimostra come le lacune dell’ordinanza napoletana (sicuramene esistenti) avrebbero potuto essere superate. Tra l’altro non va dimenticato che i due giudizi (uno relativo al contratto a tutele crescenti, l’altro ai licenziamenti collettivi), pur se diversi, presentavano forti similitudini negli argomenti giuridici utilizzati per censurare le normative coinvolte e nel tipo di intervento sollecitato alla Corte. Infine, proprio in relazione a tale aspetto, alcune sentenze dei giudici costituzionali hanno avuto un contenuto manipolativo e creativo sicuramente superiore a quello che sarebbe scaturito dall’accoglimento delle questioni sollevate dalla Corte napoletana.
Gli argomenti descritti mettono in rilievo come la Corte non sia stata condizionata in modo assoluto dalla propria giurisprudenza in materia ma abbia scelto di risolvere la questione sul piano processuale, evitando una decisione di merito. Un esito favorito anche dalla grande flessibilità dei principi enucleati dalla giurisprudenza costituzionale in tema di ammissibilità/inammissibilità della questione. Flessibilità che consente alla Corte, soprattutto in presenza di ordinanze non perfettamente coerenti con i molteplici requisiti richiesti per poter superare il vaglio preliminare, di selezionare se valorizzare le ragioni negative che consentono di inibire la valutazione di costituzionalità o di utilizzare quelle ulteriori (sempre rinvenibili nella propria giurisprudenza) che permettono di entrare nel merito delle questioni sollevate.
La scelta della Corte, tra l’altro, solleva perplessità anche in rapporto ad un eventuale esito del giudizio. Non è possibile, in questa sede, approfondire le argomentazioni utilizzate dalla Corte di appello di Napoli. Non vi è dubbio, però, che i giudici costituzionali avrebbero potuto utilizzare molti degli argomenti espressi nelle recenti decisioni n. 194/2018 e 150/2020 per risolvere in senso negativo le questioni sottoposte. Alcuni di essi erano certamente criticabili . Tuttavia era difficile, nella misura in cui la Corte napoletana poneva a fondamento della propria ordinanza la gran parte delle tesi già esaminate dalla Corte costituzionale, che esse non sarebbero state respinte con le stesse argomentazioni. Alla tesi secondo cui l’art. 18, comma 4, l. 300/1970 era l’unica tutela effettivamente in grado di proteggere i lavoratori in caso di violazione dei criteri di scelta, la Corte avrebbe potuto replicare con il principio della non costituzionalizzazione della reintegrazione e affermando che il risarcimento del danno previsto dall’art. 3, comma 1, del d.lgs. n. 23/2015 doveva considerarsi un sistema sanzionatorio adeguato alla luce delle pronunce di incostituzionalità effettuate con le sentenze n. 194/2018 e 150/2020 e delle motivazioni ivi espresse . A prescindere dalle critiche (ma anche dai consensi) ricevute da queste sentenze , sarebbe stato improbabile attendersi dalla Corte un giudizio che smentisse sé stessa in relazione a precedenti analoghi vicinissimi o addirittura emessi nello stesso anno solare.
La scelta dei giudici costituzionali di definire la questione sul piano processuale può forse trovare un’altra spiegazione. Nella motivazione si descrive la ordinanza della Corte di giustizia europea che «ha dichiarato manifestamente irricevibili le questioni proposte» con il rinvio pregiudiziale dei magistrati napoletani. Si afferma inoltre che sulla statuizione della CGE «questa Corte non ha ragione di esprimersi. Sussistono, infatti, molteplici profili di inammissibilità da esaminare d’ufficio» . Ed infatti la decisione è stata assunta alla luce dei principi processuali in tema di giudizio incidentale di costituzionalità.
Tuttavia, in altro passaggio della motivazione, la Corte afferma che «l’attuazione di un sistema integrato di garanzie ha il suo caposaldo nella leale e costruttiva collaborazione tra le diverse giurisdizioni, chiamate – ciascuna per la propria parte - a salvaguardare i diritti fondamentali nella prospettiva di una tutela sistemica e non frazionata» . Inoltre, i giudici, a fondamento di tale principio, richiamano quanto previsto dall’articolo 19, paragrafo 1, del Trattato sull’Unione europea, che metterebbe in risalto il legame inscindibile tra il ruolo della Corte di giustizia e quella delle giurisdizioni nazionali. Ora, nella misura in cui non si prende posizione sul contenuto della sentenza della CGE sulla stessa materia e si intende risolvere la questione esclusivamente in base alle regole sul processo dinanzi al giudice costituzionale, il riferimento alla «leale e costruttiva» collaborazione con la Corte europea è difficilmente comprensibile. Essa si spiega solo alla luce di un messaggio implicito: poiché la CGE non si è espressa nel merito della questione, la collaborazione con essa presuppone analogo esito, risolto, ovviamente, con i principi processuali nazionali.
Si tratta, ovviamente, solo di una supposizione, come dimostra anche l’interrogativo che chiude il titolo di questo paragrafo. Se questa ipotesi fosse fondata il rapporto tra Corte di giustizia e giudici costituzionali avrebbe contenuti problematici e si porrebbe in conflitto con le stesse innovazioni legate alla svolta sulla «doppia pregiudizialità».
La Consulta aveva costantemente escluso che il giudice nazionale potesse sollevare contemporaneamente le questioni di interpretazione del diritto comunitario e quelle di legittimità costituzionale. La prima doveva precedere la seconda, incidendo sulla rilevanza della questione. Mentre attivare nello stesso tempo le due questioni avrebbe determinato «la manifesta contraddittorietà dell’ordinanza» .
Nel 2017 la Corte ha modificato il proprio orientamento, confermato dalle decisioni successive . Essa ritiene che «quando è lo stesso giudice remittente a sollevare una questione di legittimità costituzionale che investe anche le norme della Carta (ndr: di Nizza), questa Corte non può esimersi dal valutare se la disposizione censurata infranga, in pari tempo, i principi costituzionali e le garanzie sancite dalla Carta (sentenza n. 63 del 2019, punto 4.3 del Considerato in diritto). L’integrarsi delle garanzie della costituzione con quelle sancite dalla Carta determina, infatti, “un concorso di rimedi giurisdizionali, arricchisce gli strumenti di tutela dei diritti fondamentali e, per definizione, esclude ogni preclusione” (sentenza n. 20 del 2019, punto 2.3 del Considerato in diritto)» . Il tutto «”in un quadro di costruttiva e leale cooperazione fra i diversi sistemi di garanzia, nel quale le Corti costituzionali sono chiamate a valorizzare il dialogo con la Corte di giustizia […] affinché sia assicurata la massima salvaguardia dei diritti a livello sistemico (art. 53 della CDFUE)” (sentenza n. 269 del 2017, punto 5.2 del Considerato in diritto […]. Questa Corte ravvisa, infatti, una connessione inscindibile tra i principi e i diritti costituzionali […] e quelli riconosciuti dalla Carta, arricchiti dal diritto secondario, tra loro complementari e armonici. Spetta dunque a questa Corte salvaguardarli in una prospettiva di massima espansione» .
A me sembra che la valorizzazione del «dialogo con la Corte di Giustizia», al fine della «massima espansione» dei principi e diritti costituzionali letti insieme a «quelli riconosciuti dalla Carta, arricchiti dal diritto secondario» sia un fattore molto positivo . Credo, tuttavia, che questa correlazione tra le Corti non escluda, peraltro, l’autonomia dei rispettivi giudizi da essi espressi, non fosse altro perché mentre la CGE ha come riferimento di comparazione solo le fonti europee, i giudici costituzionali, oltre a queste, hanno nella Costituzione il parametro fondamentale che orienta le proprie decisioni. E tale autonomia, ovviamente, poiché è basata su presupposti solo parzialmente coincidenti (riferite oltretutto non solo alle norme ma anche ai diversi orientamenti giurisprudenziali delle due Corti) potrebbe condurre a pronunce diverse, anche potenzialmente in contrasto tra loro.
La sentenza n. 254/2020 della Corte costituzionale, con la sua discutibile pronuncia di inammissibilità e con un richiamo così evidente al giudizio sul medesimo tema espresso dalla CGE, sembra invece mandarci un segnale preoccupante. La «leale e costruttiva collaborazione» con la Corte di giustizia non consentirebbe sentenze diverse sulla stessa questione. Con la conseguenza che la «collaborazione» significherebbe, in realtà, «omogeneità» dei giudizi (anche se espressi con tecniche diverse). Un esito in evidente contraddizione con la prospettiva di «massima salvaguardia dei diritti a livello sistemico», anche in considerazione di alcuni orientamenti della Corte di giustizia, che, come si è sottolineato, tendono ad un «radicale rovesciamento tra regole di mercato e diritto del lavoro» , in un contesto di «(capovolgimento) funzionale delle direttive sociali da strumento di protezione dei diritti dei lavoratori a mezzo di tutela dell’interesse del datore di lavoro» . A fronte di tali orientamenti è difficile ipotizzare la «massima espansione» dei diritti perseguita dalla più recente giurisprudenza costituzionale.
Mi auguro che questo esito, che si porrebbe peraltro in contrasto con le recenti decisioni n. 194/2018 e 150/2020, che si muovono nella logica opposta di estensione delle tutele dei lavoratori in materia di licenziamento , non sia scontato. A parte queste considerazioni, per le ragioni già analizzate rimane peraltro la valutazione negativa del giudizio di inammissibilità della Corte sui licenziamenti collettivi espresso con la sentenza n. 254/2020.