TESTO INTEGRALE CON NOTE E BIBLIOGRAFIA
1. Premessa.
Con l’art. 83, co. 2, D.L. 18/2020, si è previsto “dal 9 marzo 2020 al 15 aprile 2020 è sospeso il decorso dei termini per il compimento di qualsiasi atto dei procedimenti civili e penali. Si intendono pertanto sospesi, per la stessa durata… per la proposizione degli atti introduttivi del giudizio e dei procedimenti esecutivi, per le impugnazioni e, in genere, tutti i termini procedurali. Ove il decorso del termine abbia inizio durante il periodo di sospensione, l’inizio stesso è differito alla fine di detto periodo. Quando il termine è computato a ritroso e ricade in tutto o in parte nel periodo di sospensione, è differita l’udienza o l’attività da cui decorre il termine in modo da consentirne il rispetto…”.
In forza dell’art. 36, co. 1, D.L. 23/2020, convertito con modificazioni in Legge 40/2020, il termine del 15 aprile 2020 è stato prorogato all’11 maggio 2020.
La formulazione letterale della disposizione, soprattutto ove confrontata con quelle che l’hanno preceduta (l’art. 10, co. 4, D.L. 9/2020 e l’art. 1 D.L. 11/2020), non ha mancato di sollevare criticità nei giudizi di impugnazione dei licenziamenti avuto particolare riguardo alla possibilità, o meno, di ritenere sospesi i termini previsti dall’art. 6 Legge 604/1966.
Come noto, ai sensi dell’art. 6 Legge 604/1966, “il licenziamento deve essere impugnato a pena di decadenza entro sessanta giorni dalla ricezione della sua comunicazione in forma scritta, ovvero dalla comunicazione, anch’essa in forma scritta, dei motivi, ove non contestuale, con qualsiasi atto scritto, anche extragiudiziale, idoneo a rendere nota la volontà del lavoratore anche attraverso l’intervento dell’organizzazione sindacale diretto ad impugnare il licenziamento stesso. L’impugnazione è inefficace se non è seguita, entro il successivo termine di centottanta giorni, dal deposito del ricorso nella cancelleria del tribunale in funzione di giudice del lavoro o dalla comunicazione alla controparte della richiesta di tentativo di conciliazione o arbitrato, ferma restando la possibilità di produrre nuovi documenti formatisi dopo il deposito del ricorso…”.
Il termine di centottanta giorni opera solo laddove il lavoratore abbia provveduto – entro sessanta giorni dalla comunicazione – a impugnare il licenziamento “con qualsiasi atto scritto, anche extragiudiziale”: se non può revocarsi in dubbio che il termine di sessanta giorni e quello di centottanta giorni possano essere ridotti a uno ove sia rispettata la prima scadenza, deve con pari certezza escludersi il contrario.
La norma è chiara nel sancire che costituisce valida impugnazione “qualsiasi atto scritto” a mezzo del quale il lavoratore, entro sessanta giorni dalla comunicazione del licenziamento, renda edotto il datore di lavoro dell’intenzione di contestare la legittimità dell’intimata risoluzione del rapporto: la legge non richiede una particolare forma per la validità dell’atto. Se questo è il presupposto, e considerato che la previsione reca l’inciso “anche extragiudiziale”, può senz’altro ritenersi che sia impugnazione idonea a impedire qualsivoglia decadenza di legge quella giudiziale che intervenga entro sessanta giorni dalla comunicazione: atto, non solo connotato da un peculiare rigore formale e una modalità di notificazione oltremodo garantista, ma soprattutto destinato a determinare un’immediata contrazione delle tempistiche di legge, poiché unifica i due termini (sessanta e centottanta giorni) a disposizione del lavoratore.
Dunque, qualora il lavoratore ometta di inoltrare l’impugnazione stragiudiziale e provveda – entro il termine di sessanta giorni – al deposito immediato del ricorso e alla sua notificazione al datore di lavoro, nessun ulteriore adempimento può essergli richiesto. Per contro, deve escludersi che l’iniziativa giudiziale successivamente intrapresa – seppur nel rispetto della scadenza dei centottanta giorni, computati a far data dalla comunicazione del licenziamento – possa determinare una sorta di rimessione in termini rispetto alla prima decadenza ove questa si sia ormai compiuta: la decadenza può essere impedita solo dal compimento dell’atto previsto dalla legge e, una volta maturata, non può essere sanata ex post.
E’ nell’assetto così delineato che si proverà a riflettere su quali ricadute possa aver avuto, nel primo periodo dell’emergenza epidemiologica, la previsione di cui all’art. 83, co. 2, D.L. 18/2020 rispetto all’operatività del primo e del secondo termine decadenziale contemplati dall’art. 6 Legge 604/1966 ; il tutto, rammentando che, “con la conversione in L. del 24 aprile 2020, corretta la “rubrica”, la normativa è rimasta quella iniziale del D.L. n. 18/2020 (salvo il subentro in appalti). Nulla si prevede sulle procedure di impugnazione dei licenziamenti: si tratta delle impugnazioni extraprocessuali o processuali, di 60 giorni dal licenziamento e di 180 giorni per il deposito del ricorso in tribunale, a pena di decadenza insanabile” .
2. Il termine per il deposito del ricorso.
Muovendo dall’adempimento più prossimo all’attività processuale propriamente intesa, si ritiene di poter affermare che – correlata al compimento di un atto che avvia il processo, ovvero il “deposito del ricorso nella cancelleria del tribunale in funzione di giudice del lavoro” – quella dei centottanta giorni sia scadenza da ricomprendersi nell’ambito di applicazione della disposizione di cui all’art. 83, co. 2, D.L. 18/2020 (convertito con modificazioni dalla Legge 27/2020) per come prorogato dall’art. 36, co. 1, D.L. 23/2020, convertito con modificazioni in Legge 40/2020.
Avuto specifico riguardo alla definizione del perimetro di applicazione della previsione in commento, la Corte di Cassazione ha osservato che “la sospensione dei termini opera poi per tutti gli atti processuali, compresi quelli necessari per avviare un giudizio di cognizione o esecutivo (atto di citazione o ricorso, ovvero atto di precetto), come per quelli di impugnazione (appello o ricorso per cassazione)”, con la precisazione – fondamentale nella prospettiva che qui ci accompagna – che “viene così espressamente confermato l’orientamento della S.C. a tenore del quale la nozione di “termine processuale”, secondo un’interpretazione costituzionalmente orientata, essendo espressione di un principio immanente nel nostro ordinamento, non può ritenersi limitata all’ambito del compimento degli atti successivi all’introduzione del processo, dovendo invece estendersi anche ai termini entro i quali lo stesso deve essere instaurato, purché la proposizione della domanda costituisca l’unico rimedio per la tutela del diritto che si assume leso” . Il Supremo Collegio ha confermato, in questo modo, il principio a suo tempo statuito avuto riguardo all’art. 1 Legge 742/1969, quando ha sottolineato la necessità di “adeguare la lettura della disposizione… al principio costituzionale di effettività della tutela giurisdizionale, deve escludersi che la portata della nozione di “termini processuali” sia da limitare all’ambito del compimento degli atti successivi all’introduzione del processo, dovendo invece ricomprendere anche il ristretto termine iniziale entro il quale il processo deve essere introdotto, quando la proposizione della domanda costituisca l’unico rimedio per la tutela del diritto che si assume leso” .
La questione attiene, dunque, alla possibilità di ritenere che la proposizione del ricorso entro centottanta giorni, per come regolata dall’art. 6, co. 2, Legge 604/1966, costituisca l’unico rimedio esperibile per impedire la decadenza e consentire l’accesso alla tutela giudiziale del lavoratore che si ritenga illegittimamente licenziato.
Sul punto, deve darsi immediatamente conto dell’orientamento contrario fatto proprio da coloro che – muovendo dal presupposto che nell’art. 83 D.L. 18/2020 rientrerebbero i termini processuali anche esterni alla pendenza della lite, ove posti a pena di decadenza per la proposizione della domanda giudiziale in primo grado, solo qualora la proposizione della domanda in giudizio costituisca l’unico strumento per far valere il diritto – escludono l’applicabilità della sospensione al termine di centottanta giorni in quanto la decadenza potrebbe essere impedita dalla richiesta dell’espletamento del tentativo di conciliazione (attività, tipicamente, stragiudiziale), e solo il fallimento o il rifiuto di quest’ultimo comporterebbe l’applicazione di quel termine decadenziale che (questo sì) potrebbe essere impedito esclusivamente dal deposito del ricorso giudiziale .
La tesi, tuttavia, non convince.
Vero che l’art. 6, co. 2, Legge 604/1966 dispone che “l’impugnazione è inefficace se non è seguita, entro il successivo termine di centottanta giorni, dal deposito del ricorso nella cancelleria del tribunale in funzione di giudice del lavoro o dalla comunicazione alla controparte della richiesta di tentativo di conciliazione o arbitrato…”. Tuttavia, vincolare l’operatività della sospensione del decorso del termine decadenziale al preventivo esperimento del tentativo di conciliazione di cui all’art. 6, co. 2, Legge 604/1966 significa, nei fatti, tramutare – senza che vi sia fondamento normativo alcuno – la facoltà riconosciuta al lavoratore in obbligo.
Ancora, dal punto di vista logico-sistematico, un simile approccio non pare coerente con la ratio della normativa emergenziale poiché – in un contesto connotato dalla paralisi di tutte le attività non essenziali per la tutela del basilare diritto della salute, dalla radicale compressione di libertà individuali fondamentali, e dall’imposizione del distanziamento sociale – produce l’effetto di render ancor più complesso e gravoso il quadro degli adempimenti posti a carico del lavoratore che intenda impugnare il licenziamento e che abbia, pertanto, la necessità impedire il maturare delle decadenze di legge. Il tutto, peraltro, per giungere comunque al momento della proposizione del ricorso giudiziale che è, al pari di quello proponibile in virtù del termine di centottanta giorni, adempimento da compiersi “a pena di decadenza”.
Per questi motivi, per quanto il termine di centottanta giorni sia previsto da una disposizione di natura sostanziale, si ritiene che lo stesso sia riconducibile alla previsione di cui all’art. 83, co. 2, D.L. 18/2020: si tratta, difatti, di una fattispecie in cui l’atto introduttivo del giudizio si pone – per espressa previsione normativa – quale precipuo e indefettibile strumento idoneo a impedire la decadenza. E, d’altronde, considerato il tenore letterale dell’art. 83, co. 2, D.L. 18/2020 – che fa genericamente riferimento al “compimento di qualsiasi atto dei procedimenti civili e penali”, ivi inclusa la “proposizione degli atti introduttivi del giudizio” e termina con una previsione di chiusura che dispone la sospensione “in genere, di tutti i termini processuali” – ricondurvi questo specifico atto genetico del rapporto processuale, e con esso i termini di instaurazione del giudizio di impugnazione del licenziamento, pare coerente con la disposizione in esame.
3. Il termine per l’impugnazione stragiudiziale.
Si è detto che al termine per il deposito del ricorso può farsi riferimento se, e solo se, sia stato rispettato quello di sessanta giorni previsto dalla legge sui licenziamenti individuali per l’impugnazione stragiudiziale ; fondamentale allora comprendere se, in virtù della normativa emergenziale, quest’ultimo sia destinato a seguire le vicende di cui al termine per l’impugnazione giudiziale ovvero debba ricadere nell’ambito di una disciplina differente.
In ragione della particolare delimitazione territoriale e temporale che lo ha connotato, non si ritiene in questa sede di potersi soffermare su quanto disposto dall’art. 10, co. 4, D.L. 9/2020, a mente del quale, “per i soggetti che alla data di entrata in vigore del presente decreto sono residenti, hanno sede operativa o esercitano la propria attività lavorativa, produttiva o funzione nei comuni di cui all’allegato 1 al decreto del Presidente del Consiglio dei ministri 1° marzo 2020, il decorso dei termini perentori, legali e convenzionali, sostanziali e processuali, comportanti prescrizioni e decadenze da qualsiasi diritto, azione ed eccezione, nonché dei termini per gli adempimenti contrattuali è sospeso dal 22 febbraio 2020 fino al 31 marzo 2020 e riprende a decorrere dalla fine del periodo di sospensione. Ove la decorrenza del termine abbia inizio durante il periodo di sospensione, il termine decorre dalla fine del medesimo periodo. Sono altresì sospesi, per lo stesso periodo e nei riguardi dei medesimi soggetti, i termini relativi ai processi esecutivi e i termini relativi alle procedure concorsuali, nonché i termini di notificazione dei processi verbali, di esecuzione del pagamento in misura ridotta, di svolgimento di attività difensiva e per la presentazione di ricorsi giurisdizionali”.
Nemmeno si ritiene di poter fare riferimento alla previsione di cui all’art. 83, co. 8, D.L. 18/2020 (“per il periodo di efficacia dei provvedimenti di cui al comma 7 che precludano la presentazione della domanda giudiziale è sospesa la decorrenza dei termini di prescrizione e decadenza dei diritti che possono essere esercitati esclusivamente mediante il compimento delle attività precluse dai provvedimenti medesimi”), in quanto norma destinata a trovare applicazione solo in specifiche ipotesi e che, peraltro, parrebbe escludere esplicitamente la sua applicabilità agli atti stragiudiziali .
L’intento di questo dialogare è quello di muoversi nell’ambito delle disposizioni di portata generale con l’auspicio di individuarne una intrinseca e complessiva coerenza avuto specifico riguardo alla ratio che, con ogni evidenza, vi era alla base: salvaguardare, a dispetto delle straordinarie e rigorose restrizioni imposte dall’emergenza epidemiologica, il principio costituzionale di accesso alla, e di effettività della, tutela giurisdizionale .
E’ questo, in effetti, il pregiudizio che ci accompagna.
Ponendo allora l’attenzione sull’art. 83, co. 2, D.L. 18/2020, con il tenore letterale che gli è proprio, deve in primo luogo darsi conto dell’orientamento che esclude che lo stesso possa trovare applicazione rispetto a una norma di decadenza sostanziale qual è l’art. 6, co. 1, Legge 604/1966.
3.1. Le argomentazioni a base dell’approccio restrittivo.
Nel senso dell’esclusione di una possibile applicazione al primo termine di decadenza di cui all’art. 6 Legge 604/1966 si pongono quanti rammentano che l’atto da compiere entro il sessantesimo giorno è di natura indefettibilmente “stragiudiziale”, e che ogni interpretazione estensiva dell’art. 83, co. 2, D.L. 18/2020 dovrebbe ritenersi preclusa in ragione del carattere eccezionale che lo contraddistingue.
I fautori dell’interpretazione più rigorosa non mancano di rammentare che il Legislatore dell’emergenza ha introdotto disposizioni destinate a trovare applicazione – limitatamente al periodo compreso tra il 22 febbraio 2020 e il 31 marzo 2020 – avuto specifico riguardo al decorso di tutti i “termini perentori, legali e convenzionali, sostanziali e processuali, comportanti prescrizioni e decadenze da qualsiasi diritto, azione ed eccezione”, ossia l’art. 10, co. 4, D.L. 9/2020 che ha beneficiato di un’espressa conferma nel successivo art. 1 D.L. 11/2020, ma che è stato poi abrogato dall’art. 83 D.L. 18/2020 il quale ultimo non ha riprodotto la medesima previsione, ma ne ha introdotta una dal tenore letterale differente. Sempre avuto riguardo all’art. 10, co. 4, D.L. 9/2020, peraltro, si è anche ritenuto – condivisibilmente – di escludere la possibilità di estenderne l’ambito di applicazione in ragione dell’iniziale ampliamento della cosiddetta “zona rossa”, sino alla sua estensione all’intero territorio nazionale, facendo leva su quanto previsto all’art. 10, co. 18, D.L. 9/2020 che prevedeva “in caso di aggiornamento dell’elenco dei comuni di cui all’allegato 1 al decreto del Presidente del Consiglio dei ministri 1° marzo 2020, ovvero di individuazione di ulteriori comuni con diverso provvedimento, le disposizioni del presente articolo si applicano con riferimento ai medesimi comuni dal giorno successivo alla pubblicazione sulla Gazzetta Ufficiale del relativo provvedimento”.
La possibilità di ritenere sospesi termini stragiudiziali, quindi, sarebbe limitata ai soli territori ricompresi nella prima e originaria “zona rossa” e al solo periodo sino al 31 marzo 2020 .
I promotori della tesi restrittiva non mancano di argomentare sul confronto tra il tenore letterale dell’art. 83, co. 2, D.L. 18/2020 e quello di cui all’art. 83, co. 8, D.L. 18/2020 a mente del quale, si è visto, “per il periodo di efficacia dei provvedimenti di cui al comma 7 che precludano la presentazione della domanda giudiziale è sospesa la decorrenza dei termini di prescrizione e decadenza dei diritti che possono essere esercitati esclusivamente mediante il compimento delle attività precluse dai provvedimenti medesimi” . Sostengono, in particolare, che l’avverbio “esclusivamente” escluderebbe dall’ambito di applicazione della previsione tutte le ipotesi in cui sia previsto un atto stragiudiziale.
In ragione dell’approccio in esame, dunque, dovrebbe concludersi nel senso della “decorrenza generalizzata” del primo e del secondo termine di decadenza .
3.2. Le contro-argomentazioni che fondano l’approccio estensivo.
Le ragioni a sostegno di un approccio estensivo muovono tanto da piani a matrice più propriamente sostanziale quanto da considerazioni di ordine logico-giuridico e sistematico.
Procedendo con ordine, si ritiene in primo luogo di dover superare l’ostacolo che parrebbe posto dall’intervenuta abrogazione dell’art. 10, co. 4, D.L. 9/2020, per come confermato dall’art. 1 D.L. 11/2020, ad opera dell’art. 83 D.L. 18/2020 senza riproposizione – come si è visto – di una norma dall’identico contenuto dispositivo. Come opportunamente osservato, difatti, l’abrogazione non trova la propria ragion d’essere nel venir meno delle originarie esigenze di intervento, ma si ricollega al dilagare su tutto il territorio nazionale dell’emergenza epidemiologica e alla conseguente necessità di adottare provvedimenti a portata generale .
Ancora, non pare condivisibile la tesi di quanti, propugnando l’approccio più restrittivo e cogliendo l’eccezionalità e criticità del contesto epidemiologico, ritengono che il decorso del termine decadenziale potrebbe trovare una soluzione ex post con una rimessione in termini disposta ai sensi dell’art. 153, co. 2, c.p.c. : trattasi, infatti, di una norma processuale – rectius endoprocessuale – il cui ambito di applicazione è circoscritto all’interno del processo che deve, pertanto, essere già instaurato.
E, peraltro, se il regime delle decadenze sostanziali avesse potuto essere superato – nell’eccezionalità dell’emergenza epidemiologica – dall’applicazione della norma processuale, non vi sarebbe stata esigenza alcuna di un intervento da parte del Legislatore che, tuttavia, ha dovuto prevedere una disciplina ad hoc proprio in quanto la regola generale è quella per cui il decorso del termine decadenziale non può essere né interrotto né, “salvo che sia disposto altrimenti”, sospeso (art. 2964 c.c.).
Da ultimo, sempre riflettendo in prospettiva logica-sistematica e muovendo dal presupposto dell’operatività della sospensione avuto riguardo al termine decadenziale di centottanta giorni, deve necessariamente considerarsi la strutturale concatenazione dei termini regolati dall’art. 6 Legge 604/1966 che, in una prospettiva funzionale, risultano intrinsecamente connessi: non solo la violazione del primo rende vano il rispetto del secondo e la mancanza del secondo inefficace il primo, ma lo stesso decorso di quest’ultimo – che partecipa della medesima funzione, potendo anch’esso determinare la decadenza dall’esercizio del diritto – risulta inscindibilmente correlato al primo (“…entro il successivo termine di centottanta giorni…”).
Si tratta, in sostanza, di un’unica fattispecie impugnatoria a formazione progressiva .
Sul punto, il Supremo Collegio ha affermato che “…l’impugnazione del licenziamento, così come legislativamente strutturata a seguito dell’ultimo intervento di riforma, costituisce una fattispecie a formazione progressiva, soggetta a due distinti e successivi termini decadenziali, rispetto alla quale risulta indifferente il momento perfezionativo dell’atto di impugnativa vero e proprio. La norma non prevede, infatti, la perdita di efficacia di una impugnazione già perfezionatasi (dunque già pervenuta al destinatario) per effetto della successiva intempestiva attivazione dell’impugnante in sede contenziosa, ma impone un doppio termine di decadenza affinché l’impugnazione stessa sia in sé efficace. Come già specificato nei richiamati precedenti giurisprudenziali, la locuzione “L’impugnazione è inefficace se...” sta infatti ad indicare che, indipendentemente dal suo perfezionarsi (e quindi dai tempi in cui lo stesso si realizzi con la ricezione dell’atto da parte del destinatario), il lavoratore deve attivarsi, nel termine indicato, per promuovere il giudizio. Il primo termine si avrà per rispettato ove l’impugnazione sia trasmessa entro sessanta giorni dalla ricezione degli atti indicati da parte del lavoratore, il quale, quindi, da tale momento, avendo assolto alla prima delle incombenze di cui è onerato, è assoggettato a quella ulteriore, sempre imposta a pena di decadenza, di attivare la fase giudiziaria entro il termine prefissato (Cass. n. 21410/2015). Sicché l’impugnazione, per essere in sé efficace e potere raggiungere il proprio scopo tipico (ferma ovviamente la sua ricezione da parte del datore di lavoro), richiede il rispetto di un doppio termine di decadenza, interamente rimesso al controllo dello stesso impugnante” .
Orbene, in una fattispecie così delineata, non pare ammissibile scindere due passaggi che costituiscono adempimento di un unico onere – per quanto, a struttura complessa – separandone la relativa regolamentazione legale.
Le vicende dell’uno sono ontologicamente correlate alle vicende dell’altro.
4. Le ragioni di un approccio teleologicamente orientato.
Sotto il profilo più propriamente sostanziale, non si ritiene che la definizione del precipitato applicativo dell’art. 83, co. 2, D.L. 18/2020 possa prescindere dalla considerazione del contesto normativo, economico e sociale cui appartiene , per come delineato dal Decreto Legge, 23 febbraio 2020, n. 6, dal D.P.C.M. 1 marzo 2020, dal D.P.C.M. 8 marzo 2020 e, a monte, per come cristallizzato dalla dichiarazione dello stato di emergenza del 31 gennaio 2020.
L’art. 1 D.L. 6/2020 ha previsto: “1. Allo scopo di evitare il diffondersi del COVID-19, nei comuni o nelle aree nei quali risulta positiva almeno una persona per la quale non si conosce la fonte di trasmissione o comunque nei quali vi è un caso non riconducibile ad una persona proveniente da un’area già interessata dal contagio del menzionato virus, le autorità competenti sono tenute ad adottare ogni misura di contenimento e gestione adeguata e proporzionata all’evolversi della situazione epidemiologica. 2. Tra le misure di cui al comma 1, possono essere adottate anche le seguenti: a) divieto di allontanamento dal comune o dall’area interessata da parte di tutti gli individui comunque presenti nel comune o nell’area; b) divieto di accesso al comune o all’area interessata; c) sospensione di manifestazioni o iniziative di qualsiasi natura, di eventi e di ogni forma di riunione in luogo pubblico o privato, anche di carattere culturale, ludico, sportivo e religioso, anche se svolti in luoghi chiusi aperti al pubblico; d) sospensione dei servizi educativi dell’infanzia e delle scuole di ogni ordine e grado, nonché della frequenza delle attività scolastiche e di formazione superiore, compresa quella universitaria, salvo le attività formative svolte a distanza;… h) applicazione della misura della quarantena con sorveglianza attiva agli individui che hanno avuto contatti stretti con casi confermati di malattia infettiva diffusiva; i) previsione dell’obbligo da parte degli individui che hanno fatto ingresso in Italia da zone a rischio epidemiologico, come identificate dall’Organizzazione mondiale della sanità, di comunicare tale circostanza al Dipartimento di prevenzione dell’azienda sanitaria competente per territorio, che provvede a comunicarlo all’autorità sanitaria competente per l’adozione della misura di permanenza domiciliare fiduciaria con sorveglianza attiva; j) chiusura di tutte le attività commerciali, esclusi gli esercizi commerciali per l’acquisto dei beni di prima necessità; k) chiusura o limitazione dell’attività degli uffici pubblici, degli esercenti attività di pubblica utilità e servizi pubblici essenziali di cui agli articoli 1 e 2 della legge 12 giugno 1990, n. 146, specificamente individuati; l) previsione che l’accesso ai servizi pubblici essenziali e agli esercizi commerciali per l’acquisto di beni di prima necessità sia condizionato all’utilizzo di dispositivi di protezione individuale o all’adozione di particolari misure di cautela individuate dall’autorità competente; m) limitazione all’accesso o sospensione dei servizi del trasporto di merci e di persone terrestre, aereo, ferroviario, marittimo e nelle acque interne, su rete nazionale, nonché di trasporto pubblico locale, anche non di linea, salvo specifiche deroghe previste dai provvedimenti di cui all’articolo 3; n) sospensione delle attività lavorative per le imprese, a esclusione di quelle che erogano servizi essenziali e di pubblica utilità e di quelle che possono essere svolte in modalità domiciliare; o) sospensione o limitazione dello svolgimento delle attività lavorative nel comune o nell’area interessata nonché delle attività lavorative degli abitanti di detti comuni o aree svolte al di fuori del comune o dall’area indicata, salvo specifiche deroghe, anche in ordine ai presupposti, ai limiti e alle modalità di svolgimento del lavoro agile, previste dai provvedimenti di cui all’articolo 3”.
Il D.P.C.M. 1 marzo 2020 ha previsto, all’art. 1, le misure già sopra richiamate e, all’art. 4, quanto segue: “1. Sull’intero territorio nazionale si applicano le seguenti misure: a) la modalità di lavoro agile disciplinata dagli articoli da 18 a 23 della legge 22 maggio 2017, n. 81, può essere applicata, per la durata dello stato di emergenza di cui alla deliberazione del Consiglio dei ministri 31 gennaio 2020, dai datori di lavoro a ogni rapporto di lavoro subordinato, nel rispetto dei principi dettati dalle menzionate disposizioni, anche in assenza degli accordi individuali ivi previsti. Gli obblighi di informativa di cui all’art. 22 della legge 22 maggio 2017, n. 81, sono assolti in via telematica anche ricorrendo alla documentazione resa disponibile sul sito dell’Istituto nazionale assicurazione infortuni sul lavoro…”; ancora, il D.P.C.M. 8 marzo 2020, all’art. 1 – rubricato “Misure urgenti di contenimento del contagio nella regione Lombardia e nelle province di Modena, Parma, Piacenza, Reggio nell’Emilia, Rimini, Pesaro e Urbino, Alessandria, Asti, Novara, Verbano-Cusio-Ossola, Vercelli, Padova, Treviso, Venezia” – ha, tra l’altro, così disposto: “1. Allo scopo di contrastare e contenere il diffondersi del virus COVID-19 nella regione Lombardia e nelle province di Modena, Parma, Piacenza, Reggio nell’Emilia, Rimini, Pesaro e Urbino, Alessandria, Asti, Novara, Verbano-Cusio-Ossola, Vercelli, Padova, Treviso e Venezia, sono adottate le seguenti misure: a) evitare ogni spostamento delle persone fisiche in entrata e in uscita dai territori di cui al presente articolo, nonché all’interno dei medesimi territori, salvo che per gli spostamenti motivati da comprovate esigenze lavorative o situazioni di necessità ovvero spostamenti per motivi di salute. È consentito il rientro presso il proprio domicilio, abitazione o residenza; b) ai soggetti con sintomatologia da infezione respiratoria e febbre (maggiore di 37,5° C) è fortemente raccomandato di rimanere presso il proprio domicilio e limitare al massimo i contatti sociali, contattando il proprio medico curante; c) divieto assoluto di mobilità dalla propria abitazione o dimora per i soggetti sottoposti alla misura della quarantena ovvero risultati positivi al virus… e) si raccomanda ai datori di lavoro pubblici e privati di promuovere, durante il periodo di efficacia del presente decreto, la fruizione da parte dei lavoratori dipendenti dei periodi di congedo ordinario e di ferie, fermo restando quanto previsto dall’articolo 2, comma 1, lettera r);… q) sono adottate, in tutti i casi possibili, nello svolgimento di riunioni, modalità di collegamento da remoto con particolare riferimento a strutture sanitarie e sociosanitarie, servizi di pubblica utilità e coordinamenti attivati nell’ambito dell’emergenza COVID-19, comunque garantendo il rispetto della distanza di sicurezza interpersonale di un metro di cui all’allegato 1 lettera d), ed evitando assembramenti…”.
Con i suddetti interventi normativi – e quelli che ne sono seguiti – il Legislatore ha dovuto far fronte al repentino dilagare dell’emergenza sanitaria imponendo l’adozione di misure, tanto urgenti quanto drastiche, di distanziamento sociale e contenimento della diffusione dell’epidemia: interventi che hanno inciso significativamente sulle libertà e sull’esercizio dei diritti degli individui e delle collettività.
In un contesto connotato dall’assoluta paralisi di tutte le attività non essenziali e non funzionali alla tutela del primario diritto della salute e, soprattutto, dall’incontrollata diffusione dell’epidemia in ogni ambito familiare e sociale, non si ritiene di poter dar luogo all’interpretazione restrittiva di una disposizione che avrebbe l’effetto, non di differire la possibilità di ricorso alla tutela giurisdizionale, ma di impedirla in nuce.
L’approccio di stretta interpretazione pare collidere con la necessità di assicurare – nel peculiare contesto dell’emergenza epidemiologica – il pieno accesso alla tutela giurisdizionale .
Nel disporre la sospensione del decorso “dei termini perentori, legali e convenzionali, sostanziali e processuali, comportanti prescrizioni e decadenze da qualsiasi diritto, azione ed eccezione, nonché dei termini per gli adempimenti contrattuali”, il Decreto Legislativo 9/2020 sottolinea “la straordinaria necessità e urgenza di emanare ulteriori disposizioni per contrastare l’emergenza epidemiologica da COVID-19, adottando misure non solo di contrasto alla diffusione del predetto virus ma anche di contenimento degli effetti negativi che esso sta producendo sul tessuto socio-economico nazionale” (preambolo). Ancora, nel prevedere la sospensione della “decorrenza dei termini di prescrizione e decadenza dei diritti che possono essere esercitati esclusivamente mediante il compimento delle attività precluse” (e, prima ancora, la sospensione del “decorso dei termini per il compimento di qualsiasi atto dei procedimenti civili e penali”), il Legislatore dell’art. 83 D.L. 18/2020 evidenzia la “straordinaria necessità e urgenza di contenere gli effetti negativi che l’emergenza epidemiologica COVID-19 sta producendo sul tessuto socio-economico nazionale, prevedendo misure… di sostegno al mondo del lavoro pubblico e privato ed a favore delle famiglie e delle imprese” e “la straordinaria necessità e urgenza di adottare altresì disposizioni in materia di giustizia…”.
Peraltro, dalla rubrica dell’art. 83 D.L. 18/2020, si evince cha la norma non è solo volta a “contrastare l’emergenza epidemiologica da COVID-19”, ma altresì a “contenerne gli effetti in materia di giustizia civile, penale, tributaria e militare”.
L’art. 10, co. 4, D.L. 9/2020 e l’art. 83, co. 8, D.L. 18/2020 prendevano le mosse dalla ricorrenza, nelle specifiche ipotesi ivi regolate, di formali e peculiari ostacoli frapposti alla tutela giurisdizionale; sennonché, come noto, quello dell’effettività della tutela giurisdizionale dei diritti è principio a declinazione sostanziale, tanto nell’ordinamento sovranazionale (art. 47 Carta dei Diritti Fondamentali dell’unione Europea , art. 19 Trattato sull’Unione Europea, e artt. 6 e 13 Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo), quanto nel nostro ordinamento costituzionale (art. 24 Costituzione).
D’altronde, non può esservi effettività del diritto in mancanza di effettività nella relativa tutela.
Sotto questo profilo, pertanto, pare doveroso guardare alla norma di cui si discute in una prospettiva teleologica volta a salvaguardare – nel complesso contesto emergenziale – la concreta possibilità di tutela dei diritti e di accesso al rimedio giudiziale: un approccio interpretativo inconciliabile con il rigore formale che necessariamente contraddistingue le argomentazioni di segno contrario.