TESTO INTEGRALE CON NOTE E BIBLIOGRAFIA
1.Il caso
Un lavoratore subordinato con qualifica dirigente, con rapporto di lavoro decorrente dal 2010, viene licenziato con lettera data 23 luglio 2020 per motivi oggettivi, asseritamente consistenti nella soppressione del ruolo aziendale di Credit Manager, decisa in ragione di una riorganizzazione conseguente a calo dell'attività aziendale - a sua volta conseguente alla pandemia Covid-19 - con accentramento della posizione in capo all'"Economic Planning & Budgeting Director".
In termini, la motivazione addotta dall’Azienda la seguente: «soppressione della sua posizione di Credit manager, decisa in ragione di riorganizzazione conseguente a calo dell'attività aziendale a sua volta conseguente alla pandemia Covid-19, con accentramento della posizione in capo all'"Economic Planning & Budgeting Director"».
Promosso ricorso nelle forme dello speciale rito sommario di cui all’art. 1, commi 46 e ss, l. 92/2012, il dirigente ha impugnato il licenziamento chiedendo ne venisse dichiarata, in via principale, la nullità per violazione dell'art. 46 del D.L. n. 18/2020 conv. in legge n. 27/2020, e dell'art. 80 del D.L. n. 34/2020 conv. in legge n. 77/2020, che andavano interpretati nel senso di vietare i licenziamenti per motivi oggettivi (economici).
Su tale presupposto, il dirigente ha richiesto l'applicazione delle tutele dell'art. 18, comma 1, della legge n. 300/1970, con reintegrazione sul posto di lavoro, pagamento delle retribuzioni maturate medio tempore e versamento dei contributi previdenziali e assistenziali.
In via gradata, il dirigente ha contestato l'insussistenza delle ragioni oggettive addotte per giustificare il licenziamento, sostenendo che il ruolo non era stato cancellato e che le sue funzioni non erano state accentrate in capo ad altro manager in azienda; quindi, in caso di mancato accoglimento della domanda principale, il dirigente ha richiesto che venisse dichiarato il diritto all'indennità risarcitoria supplementare di cui al CCNL Dirigenti Terziario.
Il giudice ha ritenuto il licenziamento nullo per contrasto con il divieto dei licenziamenti introdotto dalla decretazione emergenziale di contenimento dell'emergenza sanitaria da Covid-19 e ha, quindi, disposto la reintegrazione del dirigente exart. 18, comma 1, della legge n. 300/1970 , ritenendo le altre contestazioni assorbite.
2.Il licenziamento ai tempi del Covid: tra blocco e divieti.
Fin dall’inizio dell’emergenza pandemica da c.d Covid 19, il legislatore ha affiancato alle misure più generali di contenimento dell’epidemia, il c.d. blocco dei licenziamenti per motivi economici, blocco che, di prolungamento in prolungamento, si è protratto fino ad oggi ed ancora perdura (aggiornato al 30 giugno 2021), nel momento in cui si scrive. Evidente è stato l’intento del legislatore di contenere la crisi pandemica ricorrendo ad un corredo di norme di protezione di tipo economico sociale che, nella materia del lavoro, si è sviluppato, sia pure con formule legislative di volta in volta diverse, intorno al binomio compensativo integrazione salariale / divieto di licenziamento per ragioni economico oggettive.
Si sono in definitiva susseguite le seguenti norme: art. 46, decreto legge n. 18/2020, convertito in legge n. 27/2020 ; art. 14, decreto legge n. 104/2020, convertito in legge n. 126/2020; art. 12 decreto legge 137/2020, convertito in legge n. 176/2020; art. 1, commi 309-310 Legge 30 dicembre 2020, n. 178; da ultimo, art. 8 co. 9 decreto-legge n. 41/2021.
L’art. 46, d.l. 17 marzo 2020, n. 18, conv. con mod. in l. n. 27/2020, che introduceva per la prima volta il blocco dei licenziamenti, era – inappropriatamente - intitolato «sospensione delle procedure di impugnazione dei licenziamenti», poi modificato dalla legge di conversione (n. 27/2020) in: «Disposizioni in materia di licenziamenti collettivi e individuali per giustificato motivo oggettivo». Esso precludeva per sessanta giorni l’avvio delle procedure di cui agli artt. 4, 5, 24, della legge n. 223/1991, e sospendeva nel medesimo periodo le procedure pendenti avviate successivamente alla data del 23 febbraio 2020. Per gli stessi sessanta giorni era vietato al datore di lavoro, indipendentemente dal numero dei dipendenti, recedere dal contratto per giustificato motivo oggettivo» ai sensi dell’art. 3, l. n. 604/1966. Con il successivo d.l. n. 34 del 19 maggio 2020, c.d. “decreto Rilancio”, conv. con mod. in l. n. 77/2020, l’art. 46 del d.l. n.18 era stato modificato, prorogando sino al 17 agosto 2020 la vigenza della norma e includendo tra le procedure sospese anche quelle di licenziamento per giustificato motivo oggettivo (g.m.o.) in corso ai sensi dell’articolo 7 della legge 15 luglio1966, n. 604 .
Con l’art. 14 del Decreto Agosto (d.l. 14 agosto 2020, n. 104) assistiamo ad una sostanziale modifica della disciplina posto che, al di là del tenore letterale della rubrica della norma (“proroga” del divieto di licenziamenti collettivi e individuali), si passa da un divieto (blocco) generalizzato ad un diverso divieto, condizionale, accompagnato dalla declinazione di eccezioni .
Ai sensi dell’art. 14 il divieto di avviare le procedure di licenziamento collettivo, la sospensione di quelle avviate successivamente alla data del 23 febbraio 2020 (fatto salvo il caso dell’appalto), nonché il divieto di licenziamento per g.m.o. e la sospensione delle relative procedure in corso, vige per i «datori di lavoro che non abbiano fruito integralmente dei trattamenti di integrazione salariale con causale “Covid-19”, ovvero dell’esonero dal versamento dei contributi previdenziali» attraverso il rinvio ad un termine mobile (inizialmente ricompreso tra metà novembre e fine dicembre 2020, e comunque entro il termine massimo del 31 dicembre 2021) collegato alla integrale fruizione dei trattamenti di integrazione salariale per emergenza epidemiologica da Covid-19.
Per tali datori di lavoro restano possibili i licenziamenti sostanzialmente in tre ipotesi:
I divieti, infatti, non si applicano: a) nelle ipotesi di licenziamenti motivati dalla cessazione definitiva dell’attività dell’impresa, conseguenti alla messa in liquidazione della società, nel caso in cui nel corso della liquidazione non si configuri un trasferimento d’azienda o di un ramo di essa ai sensi dell’art. 2112 c.c.; b) nelle ipotesi di accordo collettivo aziendale, stipulato dalle organizzazioni sindacali comparativamente più rappresentative a livello nazionale, che preveda incentivi alla risoluzione del rapporto di lavoro, limitatamente ai lavoratori che aderiscono al predetto accordo (ai quali verrà in ogni caso riconosciuto il diritto di accedere alla Naspi); c) ai licenziamenti intimati in caso di fallimento, quando non sia previsto l’esercizio provvisorio dell’impresa, ovvero ne sia disposta la cessazione
Con l'art. 12 del Decreto Ristori (d.l. 28 ottobre 2020 n. 137) il divieto è stato portato al 31 gennaio 2021 e, per effetto dell'art. 1, commi 309-310, della Legge di Bilancio 2021 (l. 30 dicembre 2020, n. 178) la moratoria dei licenziamenti, sia individuali che collettivi, per motivo oggettivo è stata prorogata al 31 marzo 2021.
Il sistema complessivo di sospensioni e preclusioni alla facoltà di recesso – individuale e collettivo – è ora slittato al 31 ottobre 2021, per i datori di lavoro ancora ammessi a fruire dei trattamenti di integrazione salariale, e al 30 giugno per tutti gli altri (art.8 d.l. 41/2021, entrato in vigore lo scorso 23.03.2021) .
L’un per l’altra, le disposizioni succedutesi, a partire dal d.l. 14 agosto 2020, n. 104, sono state tutte incardinate sulla medesima architettura sostanziale: 1) divieto di attivazione delle procedure di licenziamento collettivo ex artt. 4, 5 e 24 Legge n. 223/91; 2) divieto di attivazione di procedure di conciliazione preventiva ex art. 7 legge n. 604/66 (ipotesi specificamente aggiunta dall’art. 14 D.l. 104/2020); 3) divieto di muovere licenziamenti individuali per giustificato motivo oggettivo di cui all’art. 3 legge n. 604/66 (così letteralmente le disposizioni su richiamate: divieto di «recedere dal contratto per giustificato motivo oggettivo ai sensi dell’articolo 3, della legge 15 luglio 1966, n. 604»); 4) temporaneità e condizionalità dei divieti.
A fianco dei dubbi circa l’estensione oggettiva del divieto ricavabile da una simile formulazione , vi è stata una -sia pur meno in vista- discussione sull’ambito di applicazione soggettiva del divieto; non solo dal lato del datore di lavoro (e con riferimento alla formulazione dell’art. 14 d.l. 104 che correlava strettamente il divieto all’utilizzo della Cig, così portando qualcuno a ritenere che solo le aziende che avevano la possibilità di ricorrere alla cassa integrazione fossero interessate dal blocco) ma anche a latere lavoratoris: pacifico che la norma dovesse riguardare tutti gli operai impiegati e quadri, dipendenti di ogni datore di lavoro a prescindere dalla dimensione occupazionale, ci si è interrogati se la norma potesse ritenersi estensibile anche al licenziamento del dirigente, le cui formule risolutorie prescindono, sia sostanzialmente che formalmente, dal concetto di g.m.o. e dall’ambito di applicazione dell’art. 3 legge 604, richiamato espressamente da divieto.
La questione è indirettamente collegata ad un’altra (e più importante) che ha animato il dibattito (e su cui infatti finisce per pronunciarsi anche la sentenza in commento del Tribunale di Roma), riguardante cioè le conseguenze del licenziamento intimato in violazione del divieto, se integrante un’ipotesi di radicale nullità (in quanto riferibile ad una norma di ordine pubblico e quindi generalmente operante) oppure di semplice illegittimità. E’ ovvio infatti che l’idea di una nullità per contrasto con norma imperativa, era suscettibile di coinvolgere la figura del dirigente anch’egli compreso nella ipotesi della nullità del licenziamento prevista dal comma 1 dell’art. 18 st. lav . Oggi, anche il Tribunale di Roma in commento opta per l’ipotesi della nullità per contrasto con norma inderogabile ed imperativa ex art. 1418 1 co.
Tornando alla possibilità di applicazione anche ai dirigenti del c.d. blocco dei licenziamenti, si sono contrapposte due diverse interpretazioni: l’una di tipo formalistico, basata su una lettura letterale della norma e sulla sua natura eccezionale e tendente ad escludere i dirigenti dall’ambito del divieto, appunto perché quest’ultimo formalmente articolato su una disposizione come l’art. 3 legge 604/66 non applicabile al dirigente . L’altra, basata su un’interpretazione di tipo teleologico e razionale della norma, fondata cioè su una valutazione complessiva degli obiettivi economico sociali connessi al divieto di licenziamento (da intendersi come misura collettiva e generalizzata a tutti), tendente ad affermare la vigenza del divieto anche nei confronti del dirigente .
3.Il licenziamento del dirigente
La questione nasce giusta la previsione dell’art. 10 legge n. 604 che, fin dal 1966, esclude dal (o meglio, non include nel)l’ambito di applicazione della legge 604/66 (e quindi del suo articolo 3) il licenziamento del dirigente, il quale è quindi, da sempre, assoggettato ad una tutela esclusivamente economico, ove eventualmente prevista dal CCNL di riferimento; detto licenziamento è – per giurisprudenza consolidata e pacifica - incardinato sul concetto di (mera) giustificatezza, tale da distanziarlo (concettualmente, oltre che lessicalmente) da quello degli altri dipendenti e da escluderlo, quindi, dal novero dei rimedi riconducibili alle previsioni della legge 604/66 e dell’art. 18 st. lav .
Si tratta di una distanza concettuale che si è solo in parte attenuata con la nuova formulazione dell’art. 18 st. lav. scaturita dalla legge n. 92/2012, che ha espressamente incluso il dirigente nella tutela di cui al primo comma per l’ipotesi di nullità del licenziamento (sottraendo quindi il licenziamento nullo del dirigente dall’area della nullità di diritto comune, nella quale era stata fino ad allora collocato dalla dottrina); la distanza resta invece integrale, per l’ipotesi di semplice illegittimità, incardinata per operai impiegati e quadri sul concetto di giustificato motivo (con le tutele di cui alla legge n. 604/66 o all’art. 18 st. lav.), e per i dirigenti sul diverso concetto di “giustificatezza” (ed alle tutele meramente indennitarie eventualmente previste dal CCNL di riferimento). Sulla differenziazione tra giustificato motivo oggettivo e giustificatezza si è pronunciata anche la sentenza del Tribunale di Roma in commento, che ne ha individuato un elemento essenziale comune (pur nella diversità dei due concetti) ai fini di una lettura costituzionalmente orientata della normativa sul c.d. blocco dei licenziamenti .
4.Ammortizzatori sociali e dirigenti
Si diceva che la normativa emergenziale di tipo lavoristico, dopo l’iniziale generalizzato blocco, si è sviluppata lungo il binomio divieto di licenziamento / integrazione salariale. L’idea del legislatore -consapevole di non poter creare occupazione “semplicemente per decreto”- era quella di affiancare al divieto di licenziare (applicabile a tutti: anche a quei licenziamenti che non originassero dalla crisi economica da Covid 19 e risultassero da riorganizzazioni di diversa scaturigine) uno strumento che, nella visione del legislatore, potesse trasferire (più o meno) integralmente il costo del lavoratore eccedente a carico dell’Inps, mantenendo però agganciati i posti di lavoro alle aziende.
Sappiamo quante e quali siano state le polemiche (ridondate anche nei quotidiani di informazione di massa), sulla dubbia efficacia del sistema messo in piedi, sia per i ritardi dell’Inps nel gestire ed evadere tempestivamente le domande di cassa integrazione (a danno dei lavoratori che, non percependo materialmente la cig, restavano per così dire “prigionieri” del loro posto di lavoro, proprio per l’esistenza del divieto di licenziamento) ma anche per una ritenuta non perfetta coincidenza tra la copertura prevista per l’utilizzo della cassa “covid” (gravata, per esempio, da un tetto massimo di settimane di utilizzabilità) e l’estensione temporale (maggiore ed assoluta) del divieto di licenziamento.
Ciò che qui occorre invece sottolineare -proprio in relazione alla complementarietà, concepita dal legislatore del binomio integrazione salariale / divieto di licenziamento- è che il sostegno offerto dalle misure di integrazione salariale (Cassa integrazione ordinaria, assegno ordinario a carico del Fondo integrazione salariale e Cassa integrazione in deroga), malgrado la ridisegnata estensione delle misure straordinarie anticovid (le integrazioni salariali sono state fin da subito sganciate dai contatori di utilizzo massimo normalmente previsti dalla legge), non ha però interessato la categoria dei dirigenti, tradizionalmente escluse dall’area di incidenza della cassa integrazione, ciò proponendo, per dette figure, un chiaro squilibrio a carico del datore di lavoro nella gestione del relativo costo del lavoro, ove si fosse effettivamente ritenuto il divieto di licenziamento vigente anche per il dirigente medesimo.
5.La decisione del Tribunale di Roma
In questo quadro normativo ed economico sociale, è intervenuta la sentenza del Tribunale di Roma, la quale è stata in sostanza chiamata a decidere –per la prima volta a quanto consta- se il c.d. divieto di licenziamento economico (nella specie, quello in atto al momento della comunicazione del recesso impugnato e di cui all’art. 46 DL 18/2020 ) fosse applicabile anche al licenziamento del dirigente.
Il Tribunale risolve positivamente la questione in base ad un’interpretazione costituzionalmente orientata ed una lettura teleologica basata sulla ratio della norma, già ben sviluppata in dottrina : è chiaro infatti come la previsione espressa di un divieto letteralmente agganciato ad una norma in sé non applicabile al dirigente, imponesse al giudice di attingere a tutto l’armamentario interpretativo a sua disposizione, proprio per superare l’apparente non sussimibilità della fattispecie concreta – licenziamento di un dirigente - nella norma impeditiva, stante il letterale rinvio alla fattispecie astratta del licenziamento per g.m.o di cui all’art.3 legge 604/66, per orientamento costante della S.C. inapplicabile al dirigente. Così, il giudice imposta il complesso percorso argomentativo essenzialmente lungo due direttrici argomentative: la prima fondata sull’identificazione della norma sul blocco dei licenziamenti come misura di ordine pubblico, per questo applicabile alla intera collettività, fondato sui principi costituzionali di solidarietà sociale e di tutela del lavoro e su una compressione temporanea del principio di libertà dell’iniziativa imprenditoriale. In tal guisa, l’interprete non avrebbe margini per lasciar “fuori tutela” il dirigente, il quale -anzi, afferma il giudice- è maggiormente bisognoso di una tutela “esterna” di sistema, attesa la naturale precarietà del suo posto di lavoro, non supportato dai rimedi classici della reintegrabilità nel posto di lavoro in caso di licenziamento illegittimo. D’altra parte, il giudice ricorre ad un criterio logico, anch’esso di ragionevolezza ma basato sull’impianto strutturale della norma: attesa cioè la previsione da parte del legislatore di un generalizzato divieto di attivare le procedure di licenziamento collettivo e quindi di procedere a licenziamenti collettivi di sorta (per forza di cose anche dei dirigenti), ne deriverebbe automaticamente la necessità logica di includere i dirigenti anche nel divieto di licenziamento individuale, giacché sarebbe illogico includere il dirigente nel divieto di licenziamento (economico) collettivo ma non in quello di licenziamento (economico) individuale; sotto questo profilo, la differenza di ambito soggettivo dei due tipi di licenziamento (collettivo e individuale) sarebbe del tutto irragionevole e presterebbe il fianco ad una sicura censura di incostituzionalità della norma per violazione del principio di uguaglianza e ragionevolezza.
Merita di essere segnalata -incidentalmente- anche un’affermazione contenuta nel tessuto motivazionale del giudice, il quale, nel misurare la distanza tra il concetto di giustificato motivo oggettivo di cui all’art. 3 l. 604 e quello di giustificatezza del licenziamento del dirigente, afferma che, rispetto al g.m.o. il concetto di «"giustificatezza oggettiva" ne condivide sostanzialmente la natura in una forma attenuata nel rigore (e quindi con un ambito di legittimazione al recesso più ampio), ma non nell'essenza, posto che essa attiene comunque "ragioni inerenti all'attività produttiva, all'organizzazione del lavoro ed al regolare funzionamento di esso" (come dice l'art.3)».
6.Osservazioni conclusive
In conclusione, sembra che la sentenza del Tribunale di Roma in commento finisca per trasformare il licenziamento, tradizionalmente “acausale” e ad nutum del dirigente, in un licenziamento “titolato”, perché in qualche modo indirettamente ricondotto sotto l’ombrello dell’art. 3 legge n. 604. Per farlo, il giudice utilizza argomenti interpretativi che sono oggettivamente difficili da contestare, ma si deve misurare però con due ostacoli non di poco conto: il primo è quello -letterale- dell’applicazione di una norma fondata espressamente su un concetto non applicabile al dirigente (l’art. 3 legge n. 604); ed infatti per superarlo, il giudice deve richiamarsi all’asserito terreno essenziale comune del giustificato motivo oggettivo e della giustificatezza . L’altro oggettivo ostacolo è quello che porta a scardinare il binomio divieto di licenziamento / integrazione e sostegno al reddito, che nel caso del dirigente appare di difficile soluzione gestionale per le imprese: posto che il costo del lavoro del dirigente in esubero non trova adeguato bilanciamento in alcuna misura di sostegno al di lui reddito all’interno del rapporto di lavoro e costringe le parti ad ingegnarsi con soluzioni innovative per un recupero dell’equilibrio gestionale scardinato. Ciò anche considerando che la sanzione prevista per il licenziamento vietato, anche nel caso del dirigente, è quella della radicale nullità (profilo anche questo confermato, per la generalità dei dipendenti, dal Tribunale di Roma) con l’applicazione di quella massima sanzione prevista dall’art. 18 st. lav. che ripropone appunto il problema della gestione (integrale) del costo del lavoro del dirigente eccedente ma anche non licenziabile.
In ultimo, occorre segnalare che anche l’Inps -nel solco di un’applicazione estensiva del corredo normativo in tema di divieto di licenziamento - ha recentemente ritenuto possibile l’erogazione della Naspi al dirigente che acceda alla risoluzione consensuale del rapporto, in adesione agli specifici accordi aziendali di risoluzione incentivata. Si tratta di una delle eccezioni al c.d. blocco dei licenziamenti individuata dal legislatore nelle sue riscritture più recenti del divieto: la sottoscrizione di un accordo aziendale con le oo.ss. maggiormente rappresentative che preveda la possibilità di gestione degli esuberi tramite risoluzioni consensuali incentivate, al quale i lavoratori disponibili a lasciare l’azienda, prestino adesione perfezionando una risoluzione consensuale ed accedendo così al diritto alla Naspi, in quanto formula di risoluzione del rapporto equiparabile ad un licenziamento per motivo economico .
In questo senso, allora riferendo anche al dirigente l’applicazione della norma e quindi il diritto alla Naspi, l’Inps sembrerebbe andare verso quella estensione soggettiva della norma al dirigente, che è stata oggi affermata in via interpretativa anche dal Tribunale di Roma.