TESTO INTEGRALE CON NOTE E BIBLIOGRAFIA
1. Con l’art. 8, co. 9-11, DL 22 marzo 2021, n. 41 il legislatore ha ulteriormente prorogato (in modo generalizzato al 30 giugno e parzialmente al 31 ottobre 2021) il divieto di licenziamento, collettivo per riduzione di personale e individuale per giustificato motivo oggettivo, che opera dal 23 febbraio 2020.
Nel tempo fin qui trascorso, ormai più di un anno, la regolamentazione di tale divieto ha sostanzialmente mantenuto le sue caratteristiche originarie quanto a tecniche, finalità ed articolazione, anche se è possibile cogliere alcune differenze non prive di rilievo.
Volendo ripercorrere in rapida sintesi e per sommi capi l’evoluzione della regolamentazione del divieto di licenziamento, si può dire che, secondo la formulazione originaria dell’art. 46, DL 17 marzo 2020, n. 18, l’efficacia temporale di tale divieto si sarebbe dovuta protrarre per soli 60 giorni ed esplicare, per i licenziamenti collettivi, un effetto retroattivo dal 23 febbraio 2020. Infatti a decorrere da questa data l’art. 46, DL n. 18/2020 disponeva anche la sospensione delle procedure di informazione e consultazione sindacale avviate ex art. 4, L 23 luglio 1991, n. 223 ed in corso al momento di approvazione del DL, con la conseguenza che tali procedure potevano essere completate soltanto se iniziate entro il 23 febbraio (in quest’ultimo caso con la possibilità di effettuare i licenziamenti anche successivamente alla data di entrata in vigore del DL n. 18/2020).
La data del 23 febbraio 2020 rappresenta, quindi, il momento a decorrere dal quale il legislatore ha valutato che la gravità dell’emergenza epidemiologica espone i lavoratori dipendenti ad un rischio di licenziamento rispetto al quale si ritiene doveroso apprestare una speciale protezione.
Una prima modifica dell’efficacia temporale del divieto di licenziamento è intervenuta con l’art. 80, co. 1, lett. a), DL 19 maggio 2020, n. 34 che differì il termine di 60 giorni portandolo a cinque mesi, quindi fino al 17 agosto 2020, lasciando sostanzialmente invariata la disciplina del divieto.
Con il DL 14 agosto 2020, n. 104 il divieto di licenziamento assume forme diverse. Non solo viene abbandonata la tecnica di prorogare l’efficacia temporale dell’art. 46 lasciando l’impianto originario, ma la nuova disposizione (l’art 14, DL n. 104/2020) segna il passaggio da un divieto generalizzato con applicazione uniforme a tutti i datori di lavoro, ad una differenziazione posta in correlazione con l’utilizzo della CIG-Covid che, quindi, funge come condizione determinante per l’operatività del blocco dei licenziamenti, secondo un modello destinato ad essere utilizzato anche in futuro. Nello stesso modo si deve guardare alla misura compensativa al blocco dei licenziamenti che il legislatore inserisce nello stesso art. 14 per agevolare, mediante il riconoscimento della NASpI, la risoluzione consensuale e, quindi, volontaria dei rapporti di lavoro quando sia prevista da accordi aziendali firmati dalle organizzazioni sindacali comparativamente più rappresentative.
Sebbene l’art. 14, DL n. 104/2020 avesse un’efficacia temporale destinata a proiettarsi fino al 31 dicembre 2020 - forse per le incertezze applicative della norma e, ancor più, per una sorta di ravvedimento del legislatore rispetto alle aperture in essa contenute – veniva tacitamente abrogato dall’art. 12, co. 9-11, DL 28 ottobre 2020, n. 137 con un revirement rispetto al passato, accompagnato da una nuova modalità quanto alla collocazione normativa del divieto.
Infatti, da una parte, il divieto di licenziamento veniva sganciato dalla CIG-Covid con l’effetto di ritornare a quella applicazione generale ed uniforme prevista originariamente dall’art. 46, ma dall’altra il legislatore collocava il divieto di licenziamento all’interno di una norma prevalentemente dedicata alla CIG, come si evince anche dalla sua rubrica (“nuovi trattamenti di Cassa integrazione ordinaria, Assegno ordinario e Cassa integrazione in deroga. Disposizioni in materia di licenziamento. Esonero dal versamento dei contributi previdenziali per datori di lavoro che non richiedono trattamenti di cassa integrazione”).
In altre parole il divieto di licenziamento non veniva più previsto da una disposizione autonoma, ma era inserito in un contenitore normativo più generale, eliminando però ogni collegamento tra l’efficacia temporale del divieto e la fruizione della CIG-Covid.
Questa norma (l’art. 12, co. 9-11) era destinata ad operare fino al 31 gennaio 2021, ma anche in questo caso (come già avvenuto per l’art. 14, DL n. 104/2020) il legislatore provvedeva ad abrogarla tacitamente (con effetto dal 1° gennaio 2021) sostituendola con l’art. 1, co. 309-311, L 30 dicembre 2020, n. 178) che reiterava il divieto di licenziamento generalizzato e di uniforma applicazione fino al 31 marzo 2021, senza alcun diretto collegamento alla CIG-Covid.
In prossimità del termine di efficacia dell’art. 1, co. 309-311, L. n. 178/2020, il legislatore con l’art. 8, co. 9-11, DL n. 41/2021 riformulava il divieto di licenziamento nel testo oggi vigente con modalità diverse da quelle precedenti e di cui si dirà nel prosieguo.
2. Sebbene in questa sede si intende procedere ad un esame circoscritto ai soli problemi applicativi sollevati dalle vigenti disposizioni in relazione al divieto di licenziamento, appare utile, seppure con questo specifico fine, partire da qualche considerazione generale.
L’obiettivo che il legislatore persegue con il divieto di licenziamento non si esaurisce nella protezione del dipendente dal rischio di perdere il posto di lavoro, ma si proietta in una dimensione più ampia che è quella della tenuta dell’occupazione a fronte del drastico rallentamento (se non della paralisi che pure si è prodotta in alcuni settori) del sistema produttivo causato dall’emergenza sanitaria in un’ottica che guarda al sostegno dell’economia, ma anche alla necessità di prevenire una conflittualità sociale in un momento nel quale la coesione è fondamentale per fronteggiare un’emergenza drammatica e mai vissuta dalla nostra generazione.
In questa prospettiva si può riscontrare una continuità tra il divieto di licenziamento e le norme che consentono la proroga o il rinnovo dei contratti a termine in deroga ai vincoli della causale posti dal decreto dignità.
C’è, però, da osservare che mentre sul divieto di licenziamento, riservato ai lavoratori a tempo indeterminato, l’intervento del legislatore è stato particolarmente incisivo (si potrebbe dire: blindato), invece quello per sostenere la tenuta dell’occupazione a tempo determinato è stato realizzato con il freno a mano tirato.
Eppure in questo caso il rischio di perdere il lavoro si palesa molto elevato, in quanto gli aggiustamenti degli organici che le imprese sono costrette a fare - (sempre, ma) specialmente non potendo ricorrere ai licenziamenti - colpiscono i lavoratori temporanei, bloccando proroghe e rinnovi dei loro contratti: un’operazione semplice e senza rischi di contenzioso per rimodulare la forza lavoro impiegata.
Proprio per questo il legislatore avrebbe dovuto dare corpo ad un’iniziativa drastica, quanto quella sul divieto di licenziamento, liberalizzando totalmente il lavoro a termine con la stessa efficacia temporale, anche perché nell’attuale congiuntura è venuta meno la stessa ragione delle restrizioni poste alle assunzioni a termine in quanto alternative a quelle a tempo indeterminato.
Infatti oggi, per le incertezze che gravano su tutto (dalla salute, alle prospettive economiche, al reddito da lavoro che alimenta la domanda nei mercati), è ben difficile che le imprese possano essere indotte a programmare e realizzare assunzioni a tempo indeterminato.
Né si può dire che, comunque, le imprese sono libere di assumere a termine nuovi lavoratori, perché ciò significherebbe, per un verso, penalizzare chi già aveva una occupazione a tempo determinato (in controtendenza rispetto alla finalità perseguita con il divieto di licenziamento di congelare l’occupazione preesistente alla crisi sanitaria) e, per altro verso, impedire alle imprese di utilizzare lavoratori in possesso di un’esperienza maturata in azienda, scoraggiando così le nuove assunzioni a termine per i costi-tempi di primo inserimento dei lavoratori neo assunti.
Insomma si tratta di capire se le politiche del lavoro attuate dal legislatore nell’emergenza epidemiologica siano coerenti con il principio di non discriminazione dei lavoratori a termine su cui si fonda la Direttiva europea 1999/70/CE.
Un’ulteriore osservazione deve essere accennata per quanto concerne la correlazione tra divieto di licenziamento e CIG-Covid (in tutte le sue articolate forme) su cui si fondano le norme sul divieto di licenziamento, via via succedutesi nel tempo.
Al riguardo si deve subito dire che tale correlazione emerge in due diverse forme, una diretta e l’altra indiretta.
Nel primo caso (art. 14, DL n. 104/2020 ed il vigente art. 8, co. 9-11, DL n. 41/2021) il divieto di licenziamento è condizionato alla fruizione della CIG-Covid, nel senso che l’integrale fruizione di essa avrebbe dovuto comportare (il condizionale è d’obbligo, in quanto la norma è stata abrogata prima che potesse produrre questo effetto) la liberazione del datore di lavoro dal vincolo di illicenziabilità.
Nel secondo caso, invece, la correlazione emerge perché la norma sul divieto si fonda su quello che, un tempo, si sarebbe detto lo scambio politico tra l’imposizione del divieto di licenziamento per le imprese e la socializzazione del costo del lavoro dei dipendenti improduttivi, con un crescendo significativo reso palese dal fatto che il legislatore ha accompagnato il protrarsi del divieto di licenziamento (oltre i limiti inizialmente previsti, sollecitato dall’incalzare della pandemia) con l’esenzione di ogni onere (il contributo addizionale) per le imprese che utilizzavano la CIG-Covid.
L’effetto combinato di una CIG senza oneri e senza una specifica causa integrabile ha peraltro consentito ad alcune imprese - specie quelle non paralizzate dalla pandemia, ma attive - una riduzione dei costi dei lavoratori improduttivi (per cause indipendenti dall’emergenza sanitaria) con l’effetto di rinviare quelle riorganizzazioni che, altrimenti, sarebbero state indifferibili.
Infine si deve rilevare che associare il divieto di licenziamento alla CIG vuol dire perpetrarne l’ambiguità della funzione che, come accade assai spesso nella vita vissuta, porta ad utilizzare la sospensione dei lavoratori anche quando si verifica una inutilizzabilità non già temporanea, ma irreversibile e strutturale con un effetto soporifero che non stimola la riorganizzazione ed il rilancio dell’impresa ed è anche uno dei motivi del mancato decollo nel nostro Paese delle politiche attive per il reimpiego dei lavoratori.
Anche in questo caso, però, si devono ricordare le finalità perseguite dalla legislazione emergenziale di neutralizzare le tensioni sociali già sollecitate dal profondo disagio dei cittadini causato da condizioni di vita un tempo inimmaginabili.
Quanto appena detto consente di formulare un’ultima considerazione di carattere generale, ma che tocca da vicino le norme vigenti in materia di divieto di licenziamento con riferimento ad un aspetto divenuto ormai di attualità, quello del graduale ritorno alla disciplina ordinaria in materia di licenziamento con il ripristino dell’assetto normativo preesistente all’emergenza pandemica.
La scelta operata dal legislatore con l’art. 8, co. 9-11, DL n. 41/2021 è quella di una gradualità realizzata con la differenziazione del termine di efficacia temporale della normativa speciale sul divieto di licenziamento. Differenziazione correlata al regime di CIG applicabile all’impresa e motivata dal Governo per l’assenza di ammortizzatori sociali universali ed idonei a sostenere l’occupazione una volta che sia venuto meno il divieto di licenziamento.
Ma queste scelte potrebbero apparire a prima vista incoerenti, in quanto l’ammortizzatore sociale destinato ad operare nel caso di perdita involontaria del lavoro è la NASpI che da tempo ha assunto una portata universalistica, quindi la motivazione riferita alla carenza di tale requisito non sembrerebbe pertinente, come non lo sarebbe neppure il richiamo alla CIG che, seppure molto diversificata nei livelli di protezione, è (o dovrebbe essere) destinata ad applicarsi a fronte di situazione di eccedenze temporanee e non strutturali (e quindi irreversibili) di manodopera che sono quelle che determinano il licenziamento.
Ma spingendo lo sguardo oltre il riferimento alla CIG si deve prendere atto che le imprese destinatarie della CIGO (liberate dal blocco dei licenziamenti fin dal 1 luglio 2021) sono di norma (ma si tratta di una valutazione in termini molto generali come tale destinata ad essere contraddetta da non poche eccezioni) quelle più strutturate e, forse (così ci si augura), più capaci di affrontare, prima delle altre, le riorganizzazioni che comportano ricadute sul personale dipendente, anche perché spesso operano in mercati che hanno subito conseguenze meno gravi a causa della pandemia (anche questa affermazione è, però, il frutto di una visione parziale).
In altre parole si evoca come presupposto della differenziazione dell’efficacia temporale del divieto di licenziamento il regime di CIG applicabile, ma in realtà si traguarda al tipo di impresa destinataria della CIGO, da una parte, e, dall’altra, alla debolezza delle forme di CIG diverse da quella ordinaria (CIGD, FIS e Fondi bilaterali).
Coltivando questa prospettiva si può, forse, tentare di replicare ai rilievi in ordine alla irrazionalità della diversificata estensione temporale del divieto di licenziamento prevista dall’art. 8, co. 9-11, DL n. 41/2021, evidenziando che, dopo il 1° luglio, le imprese che potranno licenziare dovranno farsi carico dei costi della CIG, mentre le altre potranno continuare a fruire dei trattamenti previsti dalla CIG-Covid “per una durata massima di ventotto settimane nel periodo tra il 1° aprile e il 31 dicembre 2021”, senza dover versare “alcun contributo addizionale” (art. 8, co. 2, DL n. 41/2021).
In questa prospettiva il punto nodale non è, però, quello della CIG evocata in funzione (impropriamente) alternativa ai licenziamenti, ma del sostegno ai lavoratori che perderanno il posto di lavoro, nella consapevolezza che le misure passive (la NASpI) non costituiscono una risposta sufficiente, ma dovranno essere accompagnate da quelle politiche attive per il reimpiego di cui il legislatore dovrà farsi carico progettandone la costruzione. Una costruzione che deve partire dagli organismi pubblici e privati che dovranno gestirle in base alle specifiche conoscenze dei mercati territoriali del lavoro e che dovranno essere dotati di strumenti adeguati (mirati all’orientamento, alla formazione ed alla riconversione professionale) e dei finanziamenti necessari anche a remunerare, in base ai risultati ottenuti, gli operatori stimolando così un’offerta di servizi di qualità.
Alla stregua delle considerazioni fin qui accennate si deve, infine, manifestare un dubbio sulla scelta effettuata dal legislatore in ordine alle modalità del graduale abbandono del divieto di licenziamento diversificandone i tempi di attuazione.
Infatti sarebbe stato possibile anche valutare un approccio diverso (o ulteriore) fondato sulla distinzione tra licenziamenti collettivi ed individuali per giustificato motivo oggettivo, limitando il blocco ai primi. Nella convinzione che le imprese in difficoltà per le conseguenze della pandemia non avrebbero fatto ricorso ai licenziamenti individuali, ma sarebbero state costrette a continuare a fruire della CIG-Covid, mentre le imprese impegnate ad attraversare la crisi con le proprie forze avrebbero potuto operare quelle micro riorganizzazioni necessarie alla funzionalità della produzione.
Del resto questa soluzione avrebbe generato un numero di licenziamenti ridotto (atteso che il licenziamento per giustificato motivo può riguardare non più di quattro lavoratori nell’arco di centoventi giorni, da computare per le imprese plurilocalizzate in ciascuna delle provincie in cui operano le diverse unità produttive) che non avrebbe creato allarme sociale ed avrebbe consentito di diluire nel tempo la gestione delle ricollocazioni dei lavoratori. Una soluzione che, forse, avrebbe potuto costituire anche un disincentivo all’utilizzazione della CIG-Covid per problemi indipendenti dall’emergenza epidemiologica.
3. Venendo ora ai problemi applicativi dell’art. 8, co. 9-11, DL n. 41/2021 si deve subito dire che si prenderanno in considerazioni solo quelli nuovi, cioè sollevati da quest’ultima norma e non anche quelli derivanti dalle disposizioni preesistenti sul blocco dei licenziamenti le cui formulazioni sono riprodotte nell’art. 8 (ad esempio la possibilità di licenziamento per inidoneità del lavoratore o l’estensione del divieto anche al licenziamento individuale del dirigente motivato da ragioni organizzative. Temi che sono oggetto di approfondimento in questo stesso numero della Rivista).
Il problema più rilevante riguarda senz’altro le condizioni che determinano il venir meno del divieto di licenziamento, tenendo conto che la ricostruzione del dato normativo sembra attribuire all’art. 8, co. 9 una valenza generale allorché prevede la prosecuzione di tale divieto fino al 30 giugno 2021 senza porre alcuna limitazione quanto al suo ambito applicativo, mentre il co. 10 dello stesso art. 8 ha carattere particolare, in quanto nel disporre l’ulteriore estensione temporale del divieto (al 31 ottobre) ne circoscrive la portata solo ad alcuni datori di lavoro.
Quindi il punto da affrontare è quello dell’ambito applicativo dell’art. 8 co. 10 per identificare i datori di lavoro che restano assoggettati al divieto di licenziamento fino al 31 ottobre 2021.
Al riguardo si deve subito osservare che, come già anticipato, l’art. 8, co. 10 si applica soltanto “ai datori di lavoro di cui ai commi 2 e 8”. Il co. 2 prevede che “i datori di lavoro privati che sospendono o riducono l'attività lavorativa per eventi riconducibili all’emergenza epidemiologica da COVID-19 possono presentare, per i lavoratori in forza alla data di entrata in vigore del presente decreto, domanda di concessione per i trattamenti di assegno ordinario e di cassa integrazione salariale in deroga di cui agli articoli 19, 21, 22 e 22-quater del decreto-legge 17 marzo 2020, n. 18”. Il co. 8 stabilisce, a sua volta, che “il trattamento di cassa integrazione salariale operai agricoli (CISOA) ai sensi dell'articolo 19, comma 3-bis, del decreto-legge n. 18 del 2020, convertito, con modificazioni, dalla legge 24 aprile 2020, n. 27, richiesto per eventi riconducibili all'emergenza epidemiologica da COVID-19, è concesso, in deroga ai limiti di fruizione riferiti al singolo lavoratore e al numero di giornate lavorative da svolgere presso la stessa azienda di cui all'articolo 8 della legge 8 agosto 1972, n. 457”.
Anche con riferimento a questa norma si pone, quindi, un problema analogo a quello sollevato a suo tempo dall’art. 14, DL n. 104/2020 in ordine al criterio selettivo utilizzato dal legislatore, per capire se tale criterio riguardi tutti i datori di lavoro legittimati a ricorre (a prescindere dal concreto utilizzo) ai trattamenti di integrazione salariale, diversi dalla CIGO e previsti dagli artt. 19, 21, 22 e 22-quater, DL n. 18/2020 oppure soltanto quelli che, non solo sono legittimati, ma effettivamente si avvalgono di questi trattamenti.
Il problema si è subito posto in sede di formulazione del DL n. 41/2021 ed è stato immediatamente oggetto di attenzione da parte della stampa specializzata che ha segnalato l’ambiguità della norma. Ambiguità che, del resto, aleggiava anche in seno al Governo, tanto è vero che sono state predisposte due relazioni illustrative del DL e che non fossero delle semplici bozze è documentato dal fatto che entrambe sono state sottoposte alla c.d. bollinatura della Ragioneria generale dello Stato. Nella seconda relazione illustrativa - che è quella ufficiale in quanto è stata allegata al disegno di legge n. 2144 trasmesso dal Governo al Senato il 22 marzo 2021 per la conversione in legge del DL n. 41/2021 – si legge con riferimento all’art. 8, co. 10 che il blocco dei licenziamenti è previsto “per i soli datori di lavoro … che possono fruire dei trattamenti di integrazione salariale …”. Invece nella prima versione della relazione si affermava che il blocco dei licenziamenti riguarda “i soli datori di lavoro che fruiscono dei trattamenti di integrazione salariale …”.
Appare, quindi, evidente la volontà del Governo di imporre la prosecuzione del blocco dei licenziamenti ai datori di lavoro che per la causale COVID-19 hanno titolo a chiedere (anche se decidono di non avvalersene) la CIG in deroga, l’assegno ordinario o l’integrazione salariale operai agricoli (trattamenti erogati da CIGD, FIS, Fondi bilaterali e CISOA).
Ma l’intenzione del Governo-legislatore in ordine alle finalità della norma, non solo non vincola l’interprete, ma com’è noto non ha neppure un decisivo rilievo nell’interpretazione delle norme, dovendosi ritenere prevalente il dato testuale.
Nel caso di specie l’art. 8, co. 10 dispone la prosecuzione del blocco dei licenziamenti per i “datori di lavoro di cui ai commi 2 e 8” ed il co. 2 dello stesso art. 8 riguarda “i datori di lavoro privati che sospendono o riducono l’attività lavorativa”. Datori di lavoro, quindi, che vengono identificati dalla norma in relazione alla decisione da loro assunta di sospendere o ridurre l’attività dei dipendenti ricorrendo a forme di integrazione salariale pur sempre agevolate (“non è dovuto alcun contributo addizionale”), ma diverse da quelle contemplate dall’art. 8, co. 1.
A questa ipotesi interpretativa si potrebbe replicare che, invece, l’art. 8, co. 2 deve essere considerato nel suo insieme, vale a dire quanto all’oggetto ed alle finalità della speciale disciplina delle forme di integrazione salariale riservate ad alcuni datori di lavoro e destinate ad operare per “i lavoratori in forza alla data di entrata in vigore del presente decreto”, entro specifici limiti temporali (“per una durata massima di ventotto settimane nel periodo tra il 1° aprile e il 31 dicembre 2021”) e “per eventi riconducibili all'emergenza epidemiologica da COVID-19”. In altre parole il legislatore (nel co. 2 dell’art. 8) regola le conseguenze dell’avvenuta sospensione o riduzione di attività predisponendo specifiche tutele che i datori di lavoro decideranno di attivare secondo il loro bisogno.
Ma la questione interpretativa in esame deve essere risolta non già in base al contenuto complessivo del co. 2 dell’art. 8, bensì al rinvio selettivo operato a questa norma dal co. 10 che appare circoscritto ai soggetti del co. 2 (i datori di lavoro, peraltro solo quelli “privati”, come si preciserà nel prosieguo) e non sembra esteso anche alla speciale disciplina delle forme di integrazione salariale per essi previste.
Seguendo questa ricostruzione del dato normativo, sembra preferibile la tesi che limita l’ambito applicativo della norma di estensione temporale del blocco dei licenziamenti ai soli “datori di lavoro privati che sospendono o riducono l’attività lavorativa”, senza estenderla anche a quelli che non hanno attuato alcuna sospensione o riduzione. L’avvenuta sospensione o riduzione dell’attività lavorativa e, quindi, la scelta in tal senso del datore di lavoro costituiscono, secondo quanto indicato dal dato testuale, il presupposto per l’estensione dell’efficacia temporale del divieto di licenziamento fino al 31 ottobre 2021.
Del resto, come si è accennato, questa previsione (l’art. 8, co. 10) pone una regola particolare, rispetto a quella generale per la quale l’efficacia temporale del divieto è circoscritta al 30 giugno 2021 e, come tale, deve essere oggetto di stretta interpretazione.
Peraltro anche le motivazioni sottese alla disciplina dell’art. 8, co. 2 che hanno indotto il legislatore a concedere ulteriori trattamenti di integrazione salariale non gravati da alcun contributo addizionale per l’avvertita necessità di garantire una maggiore protezione alle imprese ed ai lavoratori indicati nel co. 2, sembrano coerenti con l’interpretazione prospettata, in quanto la scelta di non accedere a queste integrazioni salariali evidenzia una situazione analoga a quella dei datori di lavoro del co. 1 dell’art. 8, se non addirittura più favorevole (pur avendone la possibilità non è stata avvertita la necessità di ricorrere alle integrazioni salariali). Con la conseguente opportunità di adottare un’interpretazione orientata non solo dal dato testuale, ma anche costituzionalmente per non alimentare dubbi sulla legittimità della norma derivanti, altrimenti, dall’irrazionalità delle scelte operate dal legislatore che esorbiterebbero i limiti alla sua discrezionalità (art. 3 Cost.).
Come si è detto, i problemi interpretativi sollevati dalla norma in esame ricordano per molti aspetti le analoghe questioni insorte in relazione all’art. 14, DL n. 104/2020 per le incertezze irrisolte del legislatore tra impostazioni aperturiste (inizialmente presenti nel testo della norma) e, poi, di chiusura (nel momento della sua applicazione), ma anche per la differenziazione dei datori di lavoro destinatari del divieto di licenziamento in correlazione all’utilizzo delle integrazioni salariali con causale Covid-19 e, quindi, di scelte di bilanciamento tra protezione dell’occupazione e riorganizzazione delle imprese. Incertezze superate soltanto con l’abrogazione dell’art. 14, DL n. 104/2020 avvenuta (ben prima della sua naturale scadenza) con l’art. 12, co. 9-11, DL n. 137/2020 che ripristinò il regime generale ed uniforme del divieto di licenziamento previsto originariamente dall’art. 46, DL n. 18/2020.
Appare quindi auspicabile che in sede di conversione del DL n. 41/2021 il legislatore possa chiarire i dubbi interpretativi più sopra esaminati, sciogliendo i nodi esistenti ed operando in modo netto le scelte politiche che competono alla sua discrezionalità.
Peraltro in sede di conversione certamente non mancheranno le sollecitazioni ad un ulteriore differimento del termine (oggi fissato al 30 giugno 2021) del blocco dei licenziamenti equiparandolo all’altro del 31 ottobre 2021; blocco che, in questo caso, ritornerebbe all’originaria uniformità (dell’art. 46, DL n. 18/2020), abbandonando la finalità che persegue di graduare il ritorno al regime ordinario dei licenziamenti per ragioni organizzative.
4. Si è già detto - e, adesso, si deve approfondire il punto - che in base al rinvio operato dal co. 10 al co. 2 dell’art. 8 la prosecuzione del blocco dei licenziamenti non si applica a tutti i “datori di lavoro … che sospendono o riducono l’attività lavorativa per eventi riconducibili all’emergenza epidemiologica da COVID-19”, ma solo a quelli “privati”.
Si tratta di una precisazione che non compariva (fatto salvo l’art. 22, co. 1, DL n. 18/2020) nelle disposizioni che hanno fin qui regolato la CIG-Covid ed il blocco dei licenziamenti. Peraltro la formulazione di tale precisazione (“datori di lavoro privati”) sembra, per quanto consta, non solo del tutto inusuale con riferimento alla disciplina della CIG, ma inappropriata quanto alla GIGO.
Comunque l’obiettivo del legislatore, come palesa il dato testuale, è quello di escludere dai destinatari della CIG-Covid i datori di lavoro diversi da quelli “privati”, riservando solo a questi ultimi la possibilità di richiedere la CIG-Covid, nelle varie forme di erogazione previste dall’art. 8 co. 1 e 2 in relazione agli “eventi riconducibili all’emergenza epidemiologica da COVID-19” a fronte dei quali per i “trattamenti concessi … non è dovuto alcun contributo addizionale”.
Muovendo da questo punto, si deve indagare il significato della formula datori di lavoro privati per verificarne le ripercussioni sul divieto di licenziamento e sulla differenziazione della sua efficacia temporale.
Procedendo in questa direzione, si deve ricordare che la formula “datori di lavoro del settore privato” era stata utilizzata dall’art. 22, co. 1, DL n. 18/2020 per identificare l’ambito di applicazione della CIGD-Covid. In questo specifico contesto l’utilità del riferimento appare, però, di immediata ed agevole comprensione per la necessità, giustamente avvertita dal legislatore, di disegnare in modo innovativo (a misura dell’impatto dell’emergenza sanitaria su tutte le “attività lavorative”) il perimetro applicativo della CIGD-Covid in modo che, operando residualmente (rispetto alle altre forme di integrazione salariale), fosse ampio ed onnicomprensivo, tendenzialmente generale; di qui la simmetrica necessità di delimitarne nel contempo la portata nell’unico modo possibile, cioè individuandola a contrario e, quindi, ponendo in contrapposizione il “settore privato” a quello pubblico con l’obiettivo di estendere la CIGD al primo senza eccezione alcuna, ma escludendo il secondo, quello delle pubbliche amministrazioni destinatarie di norme emergenziali speciali.
Ma a chi volesse attribuire questo stesso significato anche alla formula “datori di lavoro privati” presente nei co. 1 e 2 dell’art. 8 - peraltro più ampia di quella “datori di lavoro del settore privato” (art. 22, co. 1, DL n. 18/2020) - si potrebbe obiettare che, se fosse stato così, sarebbe risultato sufficiente il rinvio operato dal co. 2 dell’art. 8 all’art. 22, DL n. 18/2020, in quanto quest’ultima norma già contiene la delimitazione ai “datori di lavoro del settore privato”.
Obiezione che induce ad approfondire ulteriormente la questione utilizzando alcuni dati normativi rinvenibili nella legislazione emergenziale, partendo dall’art. 3, co. 1, DL n. 104/2020 che, nel definire l’ambito applicativo dell’esonero contributivo destinato alle “aziende che non richiedono trattamenti di cassa integrazione”, precisava ulteriormente che si deve comunque trattare di “datori di lavoro privati”. Una formula che, secondo l’interpretazione dell’INPS (v., in particolare, la circolare n. 57 del 28 aprile 2020), esclude dall’esonero contributivo le sole pubbliche amministrazioni “individuabili assumendo a riferimento la nozione e l’elencazione recate dall’articolo 1, comma 2, del D. lgs., 30 marzo 2001, n. 165”. Ma si deve anche richiamare, in senso opposto, il DM 9 ottobre 2020 che, dettando criteri e modalità applicative del Fondo nuove competenze (di cui all’art. 88, co. 1, DL n. 34/2020), prevede all’art. 2 che “possono avvalersi degli interventi del Fondo tutti i datori di lavoro del settore privato”. Formula che, però, viene intesa dall’ANPAL in senso diverso e più ampio, in quanto escluderebbe anche le società a controllo pubblico totalitario per le quali, invece, l’art. 19, co. 1, D. lgs., 19 agosto 2016, n. 175 prescrive incontrovertibilmente che la disciplina applicabile al personale dipendente sia quella generale dei “rapporti di lavoro subordinato nell'impresa”.
La non univocità della formula “datori di lavoro privati” utilizzata dalla legislazione emergenziale in materia di CIG-Covid per selezionare l’ambito dei datori di lavoro diversi da quelli “privati”, induce ad esaminare, in base alla disciplina generale della CIG, l’alternativa tra l’inclusione in tale ambito delle sole amministrazioni pubbliche di cui al D. lgs. n. 165/2001 oppure l’estensione anche alle società a controllo pubblico di cui al D. lgs. n. 175/2016.
Infatti, com’è noto, l’art. 46, co. 1, lett. b), D. lgs., 14 settembre 2015, n. 148 (recante “Disposizioni per il riordino della normativa in materia di ammortizzatori sociali in costanza di rapporto di lavoro ...”) ha ripristinato (a seguito della modifica apportata dall’art. 1, co. 309, L 28 dicembre 2015, n. 208) la vigenza dell’art. 3, D. Lgs. C.P.S., 12 agosto 1947, n. 869 in forza del quale “sono escluse dall’applicazione delle norme sulla integrazione dei guadagni degli operai dell’industria: … le imprese industriali degli enti pubblici, anche se municipalizzate, e dello Stato”; esclusione che trova riscontro nell’art. 10, co. 1, lett. l), del medesimo D. Lgs. n. 148/2015 sull’ambito di applicazione della CIGO alle “imprese industriali degli enti pubblici, salvo il caso in cui il capitale sia interamente di proprietà pubblica”.
Con la conseguenza, affermata dalla consolidata giurisprudenza della Cassazione, che “le società partecipate a capitale misto, in quanto erogatrici di servizi al pubblico in regime di concorrenza, non beneficiano del regime di esenzione dagli obblighi contributivi per cassa integrazione ordinaria, straordinaria e mobilità, già previsto per le imprese industriali degli enti pubblici dall'art. 3 d.leg. c.p.s. n. 869 del 1947, senza che possa invocarsi in senso contrario il disposto di cui all'art. 10 d.leg. n. 148 del 2015, recante disposizioni per il riordino della normativa in materia di ammortizzatori sociali, laddove prescrive che i correlati obblighi contributivi riguardano anche «le imprese industriali degli enti pubblici, salvo il caso in cui il capitale sia interamente di proprietà pubblica», in quanto detta norma non ha introdotto disposizioni innovative rispetto al passato, ma ha valenza meramente ricognitiva dell’esistente e di sistemazione della materia” (così Cass., 9 maggio 2018, n. 11209).
Quindi la disciplina della CIG si applica alle società pubbliche a capitale misto, ma non anche a quelle il cui “capitale sia interamente di proprietà pubblica”, come risulta confermato anche dall’art. 19, co. 1, D. lgs., n. 175/2016 che, nel ribadire l’applicazione della disciplina privatistica ai rapporti di lavoro dei dipendenti delle società a controllo pubblico, precisa ulteriormente che questa applicazione riguarda anche le “leggi …, ivi incluse quelle in materia di ammortizzatori sociali”.
Da quanto fin qui accennato l’interprete può trarre alcune indicazioni in ordine all’individuazione dei datori di lavoro esclusi dall’accesso alla CIG-Covid perché non sono annoverabili tra quelli “privati”.
A ben vedere il fatto che il legislatore abbia applicato lo stesso filtro selettivo sia per i datori di lavoro che fruiscono della CIGO (art. 8, co. 1) sia per gli altri che ricorrono alle integrazioni salariali erogate dalla CIGD, dal FIS o dai Fondi bilaterali (art. 8, co. 2) rende evidente che l’esclusione non può essere stata formulata soltanto per le amministrazioni pubbliche destinatarie del D. lgs. n. 165/2001 che, a prescindere, sono sicuramente del tutto estranee alla CIGO.
Allora il riferimento ai datori di lavoro privati contenuto nell’art 8 si deve confrontare con la seguente alternativa: o è stato impropriamente utilizzato ed allora il legislatore in sede di conversione del DL n. 41/2021 dovrà rimuoverlo oppure deve intendersi rivolto anche alle società a controllo pubblico totalitario avendo il legislatore ritenuto di ribadire, pure per la CIG-Covid, lo stesso concetto contenuto nell’art. 10, co. 1, lett. l), D. Lgs. n. 148/2015 che definisce l’ambito di applicazione della CIGO alle “imprese industriali degli enti pubblici, salvo il caso in cui il capitale sia interamente di proprietà pubblica”.
In quest’ultimo caso la conseguenza che se ne deve trarre per quanto riguarda l’applicabilità del divieto di licenziamento alle società a totale controllo pubblico è che per esse tale divieto opera fino al 30 giugno secondo la previsione generale del co. 9 dell’art. 8, ma non si estende al 31 ottobre in quanto esse non sono riconducibili tra i datori di lavoro privati del co. 2 dell’art. 8.
5. Passando ad un altro problema applicativo generato dalla differenziazione dell’efficacia temporale del divieto di licenziamento, si deve prendere in considerazione la peculiare situazione del datore di lavoro (ad esempio un ente privato che gestisce un ospedale, una scuola materna oppure un call center impiegando ex detenuti o una casa famiglia madri-figli) che svolga attività non solo eterogenee quanto a contenuto e scopo perseguito, ma caratterizzate sul piano organizzativo anche da un’autonomia gestionale che rende le varie attività indipendenti l’una dall’altra.
In questo caso il datore di lavoro potrebbe non avere un’unica posizione contributiva secondo la regola generale, ma un doppio inquadramento previdenziale che solo per una parte dei dipendenti prevede la possibilità di ricorso alla CIGO e per gli altri l’accesso alle forme diverse di integrazione salariale.
Si tratta, allora, di capire con riferimento a questa situazione come opera il divieto di licenziamento tenendo conto che tale divieto si protrae fino al 31 ottobre 2021 per i soli datori di lavoro che non hanno accesso alla CIGO.
Riguardo a questo problema si possono ipotizzare due soluzioni, l’una opposta all’altra: a) secondo la prima il divieto di licenziamento avrà un’applicazione differenziata per il personale dipendente dallo stesso datore di lavoro, infatti alcuni lavoratori (quelli destinatari della CIGO) potranno essere licenziati dal 1° luglio, mentre per gli altri (quelli che non hanno accesso alla CIGO) il divieto di licenziamento proseguirà fino al 31 ottobre; b) la seconda soluzione, invece, contempla un’applicazione uniforme delle regole sul divieto di licenziamento a tutto il personale dipendente, individuando un unico termine di efficacia temporale di tale divieto (come si dirà nel prosieguo).
La prima soluzione appare, inizialmente, quella imposta come conseguenza indefettibile delle scelte effettuate dal legislatore in ordine alla differenziazione del regime di blocco dei licenziamenti.
Le ripercussioni sul piano applicativo di questa soluzione sono evidenti (anche volendo prescindere da quelle gestionali che, pure, non sono di poco momento).
La più eclatante si pone nel caso di una procedura di licenziamento collettivo avviata il 1° luglio 2021 che potrà riguardare solo una parte dei lavoratori (quelli per i quali opera la CIGO) con evidenti criticità per quanto riguarda le modalità applicative dei criteri di scelta dei lavoratori da licenziare che dovrebbero riguardare (ex art. 5, co. 1, L n. 223/1991) tutti i lavoratori “del complesso aziendale” che svolgono mansioni equivalenti (ad esempio quelle amministrative) a prescindere dalla loro collocazione nell’una o nell’altra attività gestita dal datore di lavoro. Regola che, invece, non potrà essere applicata in quanto i dipendenti per i quali opera il divieto di licenziamento fino al 31 ottobre 2021 dovranno essere esclusi dal perimetro dei lavoratori nel cui ambito dovranno essere individuati quelli da licenziare (come accade, ad esempio, alle donne per le tutele dovute per la maternità o per aver contratto matrimonio).
Le segnalate difficoltà inducono ad esaminare la seconda soluzione partendo dalla considerazione che l’art. 8, co. 10 applica il differimento del blocco dei licenziamenti in via residuale ai soli “datori di lavoro di cui ai commi 2 e 8”. Come già si è segnalato il criterio selettivo utilizzato dal legislatore ha carattere soggettivo riferendosi al datore di lavoro e non già al personale da lui dipendente. Ciò dovrebbe essere indicativo dell’intenzione del legislatore di individuare una regola destinata ad applicarsi in modo uniforme al datore di lavoro, quale soggetto passivo del vincolo legale.
Si tratta, allora, di vedere nel caso in esame quale sia il criterio deducibile dal dato normativo che consente di uniformare l’assoggettamento al divieto legale di licenziamento.
Si potrebbe dire che il differimento al 31 ottobre del divieto di licenziamento opera in via residuale rispetto alla regola generale che fissa il termine finale del divieto al 30 giugno, con la conseguenza che l’applicazione al datore di lavoro di quest’ultima regola comporterebbe, comunque, una preclusione a quella residuale che, quindi, sarebbe destinata ad operare esclusivamente quando non trovi applicazione, neppure parziale, quella generale (che, quindi, sarebbe assorbente).
Un temperamento a questa conclusione si potrebbe ipotizzare applicando un criterio di prevalenza che risolverebbe il concorso tra la regola generale (30 giugno) e quella particolare (31 ottobre), individuando quale delle due debba operare nel caso di specie.
Com’è noto, però, l’utilizzo dei criteri di prevalenza comporta sempre notevoli incertezze applicative che riguardano sia la scelta del criterio (da riferire al dato meramente quantitativo dei dipendenti per i quali opera la CIGO ? oppure alla rilevanza economica dell’una attività rispetto all’altra ?) sia la sua concerta applicazione.
Anche in questo caso, quindi, l’auspicio è che il legislatore, in sede di conversione del DL n. 41/2021, possa dare soluzione univoca a questo problema.
6. L’art. 8, co. 11, DL n. 41/2021 conferma la misura compensativa al blocco dei licenziamenti rappresentata dall’“accordo collettivo aziendale, stipulato dalle organizzazioni sindacali comparativamente più rappresentative a livello nazionale, di incentivo alla risoluzione del rapporto di lavoro, limitatamente ai lavoratori che aderiscono al predetto accordo. A detti lavoratori è comunque riconosciuto il trattamento di cui all'articolo 1 del decreto legislativo 4 marzo 2015, n. 22”.
Anche in questo caso non si ritiene di ritornare sui problemi applicativi sollevati da questa norma che riproduce, senza variazioni, quella introdotta per la prima volta dal legislatore nell’art. 14, co. 3, DL n. 104/2020, limitandoci a due osservazioni.
Con la prima si vuole evidenziare che gli accordi aziendali di risoluzione volontaria del rapporto di lavoro incentivata con il riconoscimento della NASpI sono ormai un modello che tende a generalizzarsi – e come si dirà ad acquisire una propria autonomia – affiancandosi (senza sostituirla) alla pratica molto diffusa (e, un tempo, senza alterative) che ricorre alle procedure di licenziamento collettivo disciplinate dalla L n. 223/1991. Procedure preordinate, d’intesa tra il datore di lavoro ed il sindacato, ad agevolare l’esodo di quei lavoratori che dichiarino di non opporsi al loro licenziamento per conseguire la NASpI (spesso integrata da incentivi economici pagati dal datore di lavoro).
Il modello degli accordi aziendali prodromici alla risoluzione volontaria dei rapporti di lavoro – come alternativa all’attivazione le procedure di licenziamento collettivo della L n. 223/1991 – era stato già utilizzato dal legislatore nell’art. 4, co. 1-7-ter, L 28 giugno 2012, n. 92 che li prevede “nei casi di eccedenza di personale”, “al fine di incentivare l’esodo dei lavoratori più anziani” che, però, sono soltanto quelli che “debbono raggiungere i requisiti minimi per il pensionamento, di vecchiaia o anticipato, nei quattro [oggi sette] anni successivi alla cessazione dal rapporto di lavoro”, ponendo a carico del datore di lavoro l’anticipazione ai lavoratori di “una prestazione di importo pari al trattamento di pensione”, nonché il versamento all’INPS della contribuzione previdenziale “fino al raggiungimento dei requisiti minimi per il pensionamento”.
Più recentemente il legislatore, modificando il contratto di espansione disciplinato dall’art. 41, D. lgs. n. 148/2015, ha previsto (al co. 5-bis) la possibilità di concludere “accordi di non opposizione e previo esplicito consenso in forma scritta dei lavoratori interessati” finalizzati alla “risoluzione del rapporto di lavoro” dei soli dipendenti “che si trovino a non più di sessanta mesi dalla prima decorrenza utile della pensione di vecchiaia … o anticipata”, obbligando in questo caso il datore di lavoro a riconoscere ai lavoratori “fino al raggiungimento della prima decorrenza utile del trattamento pensionistico, un’indennità mensile, commisurata al trattamento pensionistico lordo maturato dal lavoratore al momento della cessazione del rapporto di lavoro”. Ma “il versamento a carico del datore di lavoro per l’indennità mensile è ridotto di un importo equivalente” alla NASpI che sarebbe spettata al lavoratore.
Come si vede, quindi, il legislatore ricorre sempre più spesso agli accordi aziendali che incentivano l’esodo volontario dei lavoratori in forme diverse ed a condizioni specifiche. Gli accordi aziendali dell’art. 8, co. 11, DL n. 41/2021 costituiscono un’ulteriore evoluzione di questi modelli che si caratterizza per l’estrema semplificazione e l’assenza di qualsiasi condizione di accesso. Infatti a valle dell’accordo aziendale (che non deve neppure contenere una dichiarazione di esubero di personale) è consentita la risoluzione volontaria del rapporto di lavoro con il riconoscimento della NASpI a tutti i dipendenti (compresi i dirigenti) ed a tutti i datori di lavoro.
La seconda osservazione riguarda il collegamento tra gli accordi aziendali dell’art. 8 co. 11 ed il divieto di licenziamento.
Non c’è dubbio che il divieto di licenziamento ha indotto il legislatore ad adottare questa soluzione, come si è detto, in funzione compensativa, ma si può invece dubitare (ed è, comunque, auspicabile) che, quando verrà meno tale divieto, ciò si rifletterà automaticamente anche sulla disposizione relativa agli accordi aziendali.
Infatti l’art. 8, co. 11, DL n. 41/2021 si limita a dire che “le sospensioni e le preclusioni di cui ai commi 9 e 10 non si applicano … nelle ipotesi di accordo collettivo aziendale …”, volendo significare, semplicemente, che il divieto di licenziamento non preclude la risoluzione volontaria dei rapporti di lavoro in attuazione degli accordi aziendali, ma non anche che l’efficacia temporale della previsione che li riguarda è la stessa che opera per il divieto di licenziamento, proprio perché la disposizione relativa agli accordi aziendali non è specificamente sottoposta, direttamente o indirettamente, ad alcun temine.
Si potrebbe obiettare che la risoluzione consensuale dei rapporti di lavoro non era certamente preclusa dal divieto di licenziamento che, appunto, riguardava solo il recesso del datore di lavoro e non già ogni altra modalità (per dimissioni o per risoluzione consensuale) di estinzione del rapporto di lavoro e, quindi, la norma relativa agli accordi aziendali – alla stregua delle eccezioni al divieto di licenziamento contenute nello stesso co. 11 dell’art. 8 – è destinata a restare in vigore fin a quando sarà operativo il divieto di licenziamento.
Ma questa conclusione può valere per le eccezioni al divieto di licenziamento previste dal legislatore nel co. 11 dell’art. 8 che non hanno una propria autonomia perché la loro funzione si esplica soltanto in corrispondenza del divieto di cui costituiscono una deroga, ma ciò non vale per la disciplina degli accordi aziendali che ben può operare a prescindere dal divieto di licenziamento che, quindi, non ne condiziona la vigenza, ma rappresenta solo la motivazione dell’intervento del legislatore.
Ciò significa che il divieto di licenziamento verrà meno allo spirare del termine finale fissato dal legislatore, mentre la previsione degli accordi aziendali continuerà ad operare finché non sarà abrogata e la scadenza del termine del divieto non può certamente fungere da abrogazione tacita della disposizione avente ad oggetto gli accordi aziendali.
Del resto a rafforzare le argomentazioni fin qui accennate, si deve osservare che, a seguito della differenziazione del termine finale del divieto di licenziamento, il legislatore non ha ritenuto di differenziare simmetricamente la disciplina degli accordi aziendali, dimostrando così la loro autonomia funzionale.