TESTO INTEGRALE CON NOTE E BIBLIOGRAFIA
La disciplina del licenziamento è stata oggetto, in tempi recenti, di un profondo processo di riforma spinto dal desiderio di far fronte alla grave e perdurante crisi occupazionale che ha investito il nostro Paese, nonché dall’esigenza di andare incontro ad un sempre nuovo contesto occupazionale e produttivo.
Si assiste alla veloce e frenetica evoluzione delle tecniche di lavoro, dei rapporti sociali, lavorativi ed interpersonali, ed allo stesso tempo alla crescente difficoltà non solo delle possibilità di realizzazione professionale, ma anche di collocamento e ricollocamento nel mondo del lavoro.
È chiaro come questa “distruzione creativa” ponga ogni giorno nuove ed impegnative sfide riguardo la sostituzione della forza lavoro, la nascita di mestieri, ruoli e professioni .
Si pensi, a titolo meramente esemplificativo, al problema della c.d. “disoccupazione tecnologica” dovuta all’automatizzazione di mansioni che comportano un calo della domanda della professionalità correlata, alla precarietà delle posizioni lavorative nelle strutture organizzative, alla nascita di nuove identità lavorative dai profili incerti e difficili da definire .
Questa trasformazione richiede nuovi modi di pensare e di agire per forgiare forme di sostegno alla persona e permettere che questa si possa impegnare .
La flessibilità e la reattività si presentano come le uniche soluzioni possibili al fine di non perdere posizione sul mercato in un contesto di globalizzazione e competitività a complessità crescente.
È in questo scenario che si è inserita dapprima la riforma Fornero del 2012 e, poco dopo, il Jobs Act del 2015, nell’ottica di aumentare (anche) la flessibilità in uscita dei rapporti di lavoro subordinato a tempo indeterminato affinché questi divengano maggiormente appetibili.
La vera sfida della c.d. flexicurity è, quindi, la ricerca di un nuovo punto di equilibrio che possa bilanciare al contempo libertà economica e garanzie a tutela della persona.
Nel nuovo contratto a tutele crescenti, così, la possibilità di reintegra è stata limitata unicamente ai casi di licenziamento discriminatorio, nullo o inefficace perché intimato in forma orale, oppure quando sia dimostrata, “direttamente in giudizio” la totale insussistenza del fatto materiale alla base del licenziamento per giusta causa o giustificato motivo soggettivo.
È evidente come il legislatore si sia nettamente “schierato” a favore del meccanismo di tutela indennitaria, a cui si accompagna anche una marginalizzazione del protagonismo giudiziale nella scelta dei rimedi applicabili e nella quantificazione del danno, ridotto quasi ad un mero calcolo e della tutela reintegratoria sembra essere rimasto solo “un lumicino” .
Si è determinato, così, il passaggio da un regime di job property del lavoratore a un regime di liability dell’impresa, che consente all’obbligato libertà di scelta, responsabilizzandolo in riferimento alle “esternalità negative”, cioè obbligandolo a indennizzare chi subisca un pregiudizio per effetto della sua scelta. Questo meccanismo tutela la sicurezza economica e professionale di chi deve cercare una nuova occupazione, ma non la sua inamovibilità rispetto al vecchio posto di lavoro .
La job property veniva ormai vista come una sorta di “manomorta” , che rendeva non contendibili i posti di lavoro, impedendo alle nuove generazioni di avere accesso non solo allo stesso regime di tutele, ma anche ad un posto di lavoro che possa definirsi stabile .
Il legislatore, dunque, si è adeguato al «mantra» europeo del rapporto tra rigidità della job employment protection e livelli di occupazione , utilizzando tecniche che sono espressione tipica della law and economics.
La drastica riduzione dell’ambito della reintegrazione e la sua sostituzione con una indennità monetaria è correlata alla necessità di eliminare la indeterminatezza del firing cost legato alla incertezza della durata e dell’esito del processo (che, a distanza di molto tempo, potrebbe imporre la reintegra innalzando i costi di impresa) . Essa, inoltre, riduce, le conseguenze negative che potrebbero nascere dalle asimmetrie informative: si pensi che il datore di lavoro non conosce le competenze e le abilità del lavoratore al momento dell’assunzione e, se ha fatto una scelta sbagliata, deve poter licenziare il dipendente «senza costi (o con costi trascurabili). Ma questa flessibilità è proprio ciò che l’art. 18 impedisce» .
Il meccanismo permette all’impresa di compiere un’analisi costi/benefici, di valutare a priori se sia più conveniente interrompere il contratto senza ragioni giustificative (pagando somme ridotte e comunque certe) o se continuare nella relazione contrattuale.
In questo caso l’approccio seguito è stato visto come l’introduzione in campo giuslavoristico del principio della «rottura efficace del contratto» o «dell’inadempimento efficiente», secondo il quale è possibile violare la norma dietro corresponsione di un risarcimento economico, senza applicazione di punitive damages e senza imporre la specific performance , in questo modo si può scegliere se rispettare o meno la legge mediante compensazione finanziaria.
Anche l’offerta conciliativa, d’altronde, sembra ispirata allo stesso principio: la predeterminazione di un firing cost ridotto consente all’impresa di avere l’esatta individuazione del valore economico del recesso in cambio della rinuncia all’azione giudiziaria, evitando il rischio della condanna ad un risarcimento superiore comminata dal giudice; al tempo stesso il lavoratore ha la possibilità di ricevere una somma certa ed immediatamente disponibile, e avrà il vantaggio di evitare i costi di accesso alla giustizia ed i rischi di un possibile esito negativo della causa .
L’annosa questione che si pone riguarda, però, l’adeguatezza del rimedio indennitario alla luce dei principi costituzionali e sovranazionali.
Dalla prospettiva sovranazionale, sono due le fonti da analizzare: l’art. 30 della Carta dei diritti fondamentali, c.d. Carta di Nizza, che sancisce «il diritto di ogni lavoratore alla tutela contro ogni licenziamento ingiustificato, conformemente al diritto comunitario e alle legislazioni e prassi nazionali», e l’art. 24 della Carta Sociale Europea, che stabilisce il diritto dei lavoratori licenziati senza un valido motivo a ricevere «un congruo indennizzo o altra adeguata riparazione». Quindi, ciascuno Stato membro, pur godendo di ampio spazio discrezionale nella regolazione del licenziamento, non dovrà produrre l’effetto di “svuotare di sostanza” il diritto in questione .
Lo stesso Comitato OIL, nel «Protection against unjustified dismissal», interpretando l’art. 10 della Convenzione n. 158/1982, afferma che laddove il preferibile rimedio della reintegrazione sia sostituito da forme di monetizzazione (compensation), queste devono essere «adeguate».
La sanzione indennitaria contro il licenziamento ritenuto dal giudice ingiustificato sarebbe, quindi, compatibile con le succitate norme solo se comportasse un adeguato ristoro del danno conseguente dalla perdita del posto.
La problematica qui evocata sembra lasciare spazio ad una possibile collisione con la normativa europea ed internazionale non tanto sotto il profilo della compatibilità dell’indennizzo quale mezzo di reazione in caso di licenziamento illegittimo quanto invece al quantum dell’indennizzo stesso. Sorge, in sostanza, il fondato dubbio che la limitata tutela realizzata con la previsione di un’indennità risarcitoria fortemente attenuata, sia tale da non garantire il «contenuto essenziale» del diritto ad una protezione contro il licenziamento ingiustificato.
Secondo parte della dottrina , il nostro sistema sembrerebbe addirittura recessivo rispetto alla richiamata teoria della rottura efficiente, che postula un assetto risarcitorio tale da soddisfare pienamente la parte che subisce la violazione. Inoltre, non potrebbe avvicinarsi pienamente nemmeno alla tutela per equivalente che anziché presentarsi “come un minus, come un sostitutivo legale, come rimedio sussidiario della reintegrazione in forma specifica” è in realtà il modello funzionalmente più adatto ad eliminare gli effetti dell’evento dannoso . La tutela indennitaria prevista per il licenziamento illegittimo nell’ambito del contratto a tutele crescenti offrirebbe sotto questa luce una tutela proporzionalmente assai minore rispetto a quella garantita dal diritto comune dei contratti al fine di ristorare .
Il «decreto Dignità», n. 87/2018 ha provato a sopperire questa carenza, aumentando del 50% l’indennizzo per il licenziamento ritenuto dal giudice ingiustificato: da 2 a 3 mensilità per anno di anzianità, con minimo di 6 mensilità e massimo di 36.
Ci sarebbero, inoltre, alcune “prove contrarie” all’idea di una correlazione positiva tra occupazione e riduzione delle tutele in materia di licenziamento. Persino Pietro Ichino, che è uno dei sostenitori più strenui ed autorevoli della incidenza negativa della Employment Protection Legislation sul mercato del lavoro, ha affermato che “la scienza economica non ci offre alcuna evidenza del fatto che l’“equilibrio mediterraneo” (ndr: caratterizzato da forti tutele contro i licenziamenti) determini di per sé tassi di disoccupazione più elevati rispetto all’equilibrio tipico dei Paesi nordeuropei e di quelli di tipo statunitense». Una conclusione che, peraltro, è stata da tempo anche affermata dall’Ocse , così che «il ruolo del mercato del lavoro è molto meno importante di quello che si potrebbe pensare». A riguardo in dottrina si evidenzia il ruolo «passivo» del mercato del lavoro: «i livelli dell’occupazione e della disoccupazione sono decisi altrove», perché «l’occupazione aumenta quando le imprese utilizzano più lavoro e ciò avviene quando nel mercato (dei beni!) si accresce la richiesta dei prodotti delle imprese» . D’altronde, il Jobs Act non può avere la finalità «di creare direttamente nuovi posti di lavoro» e non esistono evidenze empiriche di un turn over superiore nelle imprese in cui non si applica l’art. 18 dello statuto dei lavoratori ed anzi vi sono risultati di segno contrario .
Bisognerebbe accettare che la law and economics non è una “scienza esatta” e che essa determina la negazione della stessa specificità del diritto, obliterando completamente la sua «dimensione assiologica, i suoi valori, i suoi principi» . Nel diritto del lavoro l'esecuzione della prestazione non è solo l'adempimento di un obbligo contrattuale, ma un vero e proprio strumento di realizzazione della personalità del lavoratore e di esercizio dei suoi diritti fondamentali. La stessa Corte di Cassazione afferma che «il prestatore, attraverso il lavoro, all'interno dell'impresa, da intendere come formazione sociale nei sensi dell’art. 2 Cost., realizza non solo l'utilità economica promessa al datore, ma anche i valori individuali e familiari indicati nell’art. 2, cit., e nel successivo art. 36» . L’esecuzione in forma specifica perseguiva proprio l'obiettivo di ripristinare integralmente la posizione soggettiva lesa in base alla considerazione che i valori protetti dalla norma giuridica avessero una tale importanza da non poter essere compensati da un mero risarcimento del danno, poiché «il diritto del lavoratore al proprio posto, protetto dagli artt. 1, 4 e 35 Cost., subirebbe una sostanziale espropriazione se ridotto in via di regola al diritto ad una somma» .
In conclusione, pur ribadendo l’importanza e la necessità di tener conto dei cambiamenti del mercato e dei principi economici che lo regolano, è necessario impedire che si determini una vera «tirannia dei valori economici» a discapito dei principi e dei valori alla base delle tutele contro i licenziamenti illegittimi, soprattutto alla luce dell’emergenza pandemica da COVID-19 e la crisi economico e sociale ad essa connessa, che rende ancora più forte la necessità di poter intravedere un barlume di stabilità quantomeno per il mantenimento dell’occupazione, esigenza che lo stesso legislatore ha recepito dando vita ad un temporaneo regime derogatorio.
Una soluzione potrebbe essere quella di puntare alla valorizzazione della flessibilità endo -aziendale, disciplina innovata da ultimo sempre tramite il Jobs Act del 2015 che ha riscritto l’art. 2103 c.c. I criteri che permettono di valutare le competenze dei lavoratori ai fini imprenditoriali non sono più soltanto le competenze specifiche, ma la diversificazione del c.d. know-how e delle soft skills del lavoratore, la capacità di apprendimento, l’impegno e la creatività che determinano di volta in volta una combinazione unica di valori al tempo stesso personali e professionali . Di conseguenza, un ruolo importante potrebbe rivestirlo la formazione.
Questa disciplina, allacciandosi ad un nuovo concetto dinamico di professionalità, pur mantenendo delle buone garanzie per il lavoratore, favorisce la capacità di adattamento e consente di innovarsi di continuo a fronte dei rapidi mutamenti economici, sociali e tecnologici.