Testo integrale con note e bibliografia
1. Premessa
Con ordinanza interlocutoria di fresca pubblicazione , la sesta sezione civile della Corte di cassazione riapre meritoriamente la delicatissima questione della delimitazione del labile confine che separa l’applicabilità del regime del quarto comma del nuovo art. 18 Stat. lav. (tutela reintegratoria attenuata) da quello del successivo quinto comma (indennità risarcitoria forte), in particolare in caso di illecito disciplinare non espressamente o esattamente tipizzato dal contratto collettivo con previsione di sanzione conservativa. Si tratta di un provvedimento tanto rinfrescante, nel clima interpretativo piuttosto appiattito e stantio prevalso dopo le note «sentenze di maggio» , quanto atteso e puntuale, per il pregevole sforzo con cui la Suprema Corte tenta finalmente di riannodare i fili della propria attività nomofilattica ai più recenti approdi della giurisprudenza costituzionale, segnati, ora, dall’importante sentenza n. 59/2021 .
Tale sentenza – la cui motivazione è opportunamente valorizzata nell’ordinanza in commento – segna invero un passaggio oggettivamente importante e per certi versi persino determinante nella tormentata giurisprudenza costituzionale di questi anni , in quanto restituisce in generale alla reintegrazione nel posto di lavoro quel rilievo baricentrico, nell’ambito dello sfilacciato sistema delle tutele contro il licenziamento illegittimo , che non si poteva invero cogliere nel pur incisivo intervento correttivo compiuto dalla sentenza n. 194/2018 sul d.lgs. n. 23/2015 . Essa riveste inoltre ai nostri fini un’importanza specifica che deve esser subito ben evidenziata: nel dichiarare l’illegittimità costituzionale del settimo comma dell’art. 18 nella parte in cui non imponeva al giudice di somministrare la tutela reintegratoria quando venga accertata la (manifesta) insussistenza del fatto posto a base del licenziamento per giustificato motivo oggettivo, la sentenza n. 59/2021 ha infatti censurato in pari tempo sia la scelta manifestamente irragionevole del legislatore del 2012, sia – e non meno ruvidamente – l’opzione interpretativa seguita dalla giurisprudenza di legittimità nell’improbabile tentativo di ancorare a un qualche criterio oggettivo l’opzione giudiziale, altrimenti libera (e in definitiva arbitraria), tra reintegra e indennizzo monetario.
Nella valutazione della Corte costituzionale «il richiamo alla eccessiva onerosità, che la giurisprudenza di legittimità ha indicato nell’intento di conferire alla previsione un contenuto precettivo meno evanescente», si rivela infatti cura peggiore del male: non solo perché «non pone rimedio all’indeterminatezza della fattispecie», resta «indeterminato e improprio e, per altro verso, privo di ogni attinenza con il disvalore del licenziamento»; ma soprattutto perché «presuppone valutazioni comparative non lineari nella dialettica tra il diritto del lavoratore a non essere arbitrariamente estromesso dal posto di lavoro e la libertà di iniziativa economica» , introducendo, a (paradossale) vantaggio del datore responsabile dell’illecito, incongrui parallelismi tra grandezze monetarie, regimi di tutela e statuti protettivi tra di loro del tutto eterogeni. Coglie allora il punto chi, nella scelta della Corte costituzionale di ricorrere alla tecnica della sentenza di accoglimento quando in astratto sarebbe stata forse ancora disponibile una lettura costituzionalmente orientata del disposto del settimo comma dell’art. 18 (e quindi una pronuncia interpretativa di rigetto), ha scorto una sorta di sanzione del cattivo uso della nomofilachia da parte della Cassazione : una censura, invero esplicita (visto il tenore della motivazione), per l’uso alquanto disinvolto di nozioni civilistiche generali che – squarciato il velo d’un tecnicismo apparente e formalisticamente fine a se stesso – sono apparse del tutto irrelate tanto allo specifico e autonomo sistema di tutela disegnato dall’art. 18, quanto ai valori costituzionali in gioco nella dialettica tra i contrapposti interessi protetti rispettivamente dagli artt. 4 e 35 e dall’art. 41, comma 1, Cost.
Questa ordinanza interlocutoria deve essere dunque letta alla luce della recente giurisprudenza costituzionale e in particolare della sentenza n. 59/2021, da cui risulta ispirata nel sollecitare un doveroso ripensamento anche degli irrazionali esiti interpretativi cui la Suprema Corte è in prevalenza giunta, dopo le sentenze del maggio del 2019, sul versante, questa volta, del licenziamento disciplinare nel dominio dell’art. 18 Stat. lav. Vedremo infatti che detti esiti soffrono – come limpidamente messo in evidenza dalla stessa ordinanza interlocutoria – di deficit di ragionevolezza non meno gravi di quelli che inficiavano la soluzione interpretativa censurata dalla Corte costituzionale nella sentenza n. 59/2021. E del resto, seppure sul terreno dei rimedi contro il licenziamento disciplinare illegittimo, ritorna, mutatis mutandis, la medesima problematica di fondo della coerenza e razionalità dei criteri desumibili dall’art. 18 al fine di sceverare tra tutela reintegratoria e indennitaria nell’ambito di un sistema che non può in nessun caso tollerare disarmonie contrastanti con il canone della ragionevolezza.
2. L’interpretazione sin qui prevalente nella giurisprudenza della Corte di cassazione
Il caso sottoposto all’esame della Corte esemplifica al meglio la questione che arrovella da anni gli sventurati esegeti dell’art. 18 post legge Fornero: si trattava, infatti, di condotta disciplinarmente rilevante che, sebbene di lieve entità perché agevolmente qualificabile secondo una valutazione ex ante come inadempimento di scarsa importanza, per usare il parametro offerto dal diritto comune (art. 1453 cod. civ.), non appariva, tuttavia, altrettanto chiaramente riconducibile alle fattispecie per le quali il contratto collettivo applicabile al rapporto di lavoro contempla la sanzione conservativa. In realtà, nel corso del giudizio di merito si erano alternate sul punto valutazioni di diverso segno, in quanto almeno il Tribunale (in sentenza) aveva ritenuto di dover ricondurre la condotta posta in essere dal lavoratore alla enucleazione operata dal contratto collettivo con previsione a spettro ampio delle condotte meritevoli di reazione sanzionatoria non espulsiva, ma la Corte di appello aveva poi diversamente opinato, sull’assunto di una diversa, e più restrittiva, interpretazione della medesima fonte collettiva. Ecco, dunque, il vero problema posto dal quarto comma dell’art. 18, che «in realtà si annida in questa area della scarsa importanza dell’inadempimento» , almeno tutte le volte in cui manchi – come assai spesso accade – una espressa e puntuale tipizzazione sub specie di illecito “minore” da parte del contratto collettivo.
Fino a quando non ha preso piede l’indirizzo restrittivo delle sentenze di maggio, un caso del genere avrebbe dovuto essere piuttosto agevolmente inquadrato nel quarto comma dell’art. 18, con applicazione della tutela reintegratoria attenuata, e ciò sulla base del concorrente argomento per cui, da un lato, le condotte rimproverate al lavoratore, ancorché non puntualmente tipizzate come tali dal contratto collettivo, avrebbero ben potuto essere assimilate, per la loro oggettiva tenuità, a quelle indicate in forma esemplificativa e generale dal medesimo contratto come punibili con sanzione conservativa , e, dall’altro, le suddette condotte non sarebbero comunque state astrattamente idonee a integrare la giusta causa di licenziamento per originario difetto di proporzionalità valutabile ex ante in termini per l’appunto generali e astratti . In base all’indirizzo consolidatosi a partire da quelle sentenze, invece, la soluzione corretta del caso dovrebbe, a rigore, essere quella fatta propria dalla Corte territoriale, che ha infatti somministrato la tutela indennitaria di cui al quinto comma sull’assunto di un difetto di specifica tipizzazione della condotta addebitata da parte del contratto collettivo, non colmabile in sede di interpretazione (neanche estensiva) del medesimo (essendo l’analogia senz’altro preclusa). Ed infatti, secondo tale orientamento, ormai prevalente in giurisprudenza , essendosi in presenza di una valutazione di proporzionalità non compiuta specificamente dal contratto collettivo con la previsione di una sanzione conservativa, ma rimessa al giudice in relazione al contesto, al lavoratore può spettare soltanto la tutela indennitaria di cui all’art. 18, comma 5, anche laddove possa ritenersi, in concreto, che tra la condotta tipizzata dalla fonte collettiva e quella, pur diversa, effettivamente posta in essere dal lavoratore non sussistano differenze sul piano del «disvalore disciplinare» .
I passaggi motivazionali che sorreggono tale conclusione sono noti e vengono comunque ripercorsi puntualmente anche nell’ordinanza in commento. Il punto di partenza del ragionamento è costituito dal divieto di applicazione analogica del contratto collettivo, il ricorso all’analogia essedo riservato esclusivamente agli atti aventi forza o valore di legge . La stessa interpretazione estensiva delle clausole del contratto collettivo – pur non preclusa – è tuttavia guardata con un certo sfavore nella misura in cui, ove praticata con larghezza, si porrebbe in contrasto con la ratio che sorregge il quarto comma dell’art. 18, che considera la reintegra l’eccezione rispetto alla regola del mero indennizzo . Ed invero, «l’apertura all’analogia o un’interpretazione che allargasse la portata della norma collettiva oltre i limiti sopra delineati … produrrebbe effetti esattamente contrari a quelli espressi dal legislatore in termini di esigenza di prevedibilità delle conseguenze circa i comportamenti tenuti dalle parti del rapporto» . E se dunque il contratto collettivo deve essere interpretato in modo rigoroso, ecco, «con coerente lucidità» , la conseguente conferma dell’assunto «per cui, affinché si applichi la tutela reintegratoria, è necessario che il fatto sia tipizzato dal codice disciplinare contrattuale come passibile di una sanzione conservativa» . Ergo, a rigore, seguendo questo ragionamento, il lavoratore che ha commesso una mancanza di lieve entità, non espressamente tipizzata dal contratto collettivo e pur tuttavia di disvalore equiparabile a quello proprio delle condotte per le quali quel contratto prevede la sola sanzione conservativa, non potrà giovarsi della tutela reintegratoria (prevista solo per tali ultime ipotesi) ma unicamente di quella indennitaria.
Sennonché, questa conclusione, in effetti formalmente ineccepibile rimanendo ben rannicchiati all’interno della circolarità autotelica che la produce, è anche sommamente ingiusta, per la irragionevole disparità di trattamento che così introduce, nell’area dell’inadempimento di scarsa importanza, tra fattispecie connotate, al di là del dato spesso inafferrabile della tipizzazione formale ad opera della fonte collettiva, dal medesimo (tenue) disvalore sostanziale. Ed è tutta nell’irruzione insperata di questo sentimento rimosso di giustizia – che si traduce banalmente nella pretesa che a condotte di analogo disvalore disciplinare, in ossequio al canone di uguaglianza/ragionevolezza , non possa che conseguire quella medesima tutela (reintegratoria) prevista dallo stesso legislatore – la “molla” motivazionale dell’ordinanza in commento.
3. Le buone ragioni della critica all’indirizzo prevalente
L’ordinanza in commento muove da una puntuale ricognizione critica della prevalente giurisprudenza di legittimità per sollecitarne il necessario ripensamento alla luce dell’art. 3 Cost. È posta ben in evidenza la insostenibilità della soluzione che si sta ormai consolidando nel “diritto vivente”, specie ove portata alle sue coerenti conseguenze, come avviene con la recente pronuncia che a tal punto considera «imprescindibile la tipizzazione dell’inadempimento suscettibile di sanzione conservativa che, per i contratti privi di tale tipizzazione», giunge «ad escludere in principio l’applicabilità della tutela reintegratoria di cui all’art. 18, comma 4» : un esito evidentemente paradossale, soprattutto se si pone mente alla circostanza che esso viene riferito in questi termini al settore bancario, tradizionalmente presidiato da una contrattazione collettiva ancora forte, radicata, di segno notoriamente garantista .
La critica mossa dall’ordinanza è peraltro articolata a partire dagli stessi principi classicamente elaborati dalla Corte nomofilattica, alla cui stregua è indubitabile «che la sussunzione dei fatti contestati al dipendente nell’una o nell’altra fattispecie contemplata dalla disciplina collettiva attenga alla interpretazione ed applicazione delle norme contrattuali, ed implichi un giudizio di diritto che compete al giudice di merito e, in modo diretto, a seguito della modifica dell’art. 360, comma 1, n. 3, cod. proc. civ. ad opera del d.lgs. n. 40 del 2006, anche al giudice di legittimità» . Onde «l’attività di sussunzione della condotta contestata al lavoratore nella previsione contrattuale espressa attraverso clausole generali non trasmoda nel giudizio di proporzionalità della sanzione rispetto al fatto contestato, ma si arresta alla interpretazione ed applicazione della norma contrattuale, rimanendo nei limiti di attuazione del principio di proporzionalità come già eseguito dalle parti sociali attraverso il contratto collettivo» .
Ma al di là di tale doverosa puntualizzazione, che se ben amministrata anche in sede nomofilattica già consentirebbe di ridimensionare almeno gli esiti più paradossali dell’orientamento criticato, resta il fatto che esso «presenti profili di irragionevolezza» . Il primo riguarda la già segnalata distorsione funzionale cui è sottoposta la contrattazione collettiva , laddove tale orientamento ignora, in contrasto a ben vedere con lo stesso art. 2106 cod. civ. (a tanto siamo ormai ridotti …) , che «le fattispecie punitive contemplate dai contratti collettivi non sono definite secondo una rigorosa applicazione del principio di tassatività, ma hanno in prevalenza carattere indeterminato, in relazione alla indeterminatezza degli obblighi contrattuali di diligenza e fedeltà del dipendente, alla cui violazione è connesso l’esercizio del potere disciplinare» .
L’indirizzo criticato, quindi, non solo svaluta la funzione di garanzia assolta dal codice disciplinare contrattuale, proprio attraverso l’uso di previsioni a contenuto aperto, ma la converte nel suo rovescio. Mentre «la circostanza che alcune condotte non risultino tipizzate dai contratti collettivi come suscettibili di sanzioni conservative, specie in presenza di formule generali o aperte oppure di norme di chiusura, non può costituire un indice significativo e plausibile della volontà delle parti sociali di escludere tali condotte dal novero di quelle meritevoli delle sanzioni disciplinari più blande, cioè conservative» .
Di qui il cuore delle osservazioni critiche rivolte alla giurisprudenza «che si va sempre più cristallizzando come diritto vivente»: essa è semplicemente incompatibile con il principio di uguaglianza, «sotto il profilo dell’ingiustificato trattamento differente di situazioni omologhe, laddove preclude l’accesso alla tutela reintegratoria per le fattispecie di pari o minore gravità rispetto a quelle tipizzate dai contratti collettivi» . E questa irrazionale disparità di trattamento non trova, con ogni evidenza, alcuna plausibile giustificazione; di certo non quella, che deriva dalla pre-comprensione ideologica che affligge l’intero costrutto qui criticato, giusta la quale la ratio giustificatrice andrebbe ricercata in una sorta di tutela dell’affidamento del datore di lavoro, che intimando il licenziamento per una condotta non espressamente tipizzata dal contratto collettivo, non sarebbe in grado di apprezzare con ragionevole certezza la illegittimità del proprio negozio di recesso, come accade invece nei casi in cui il codice disciplinare – ovviamente l’idealtipo presupposto a introvabile modello dalla Cassazione – è scritto a chiare lettere.
Torna qui il cliché immancabile della certezza del diritto e della prevedibilità dei “costi di separazione”, naturalmente concepito a stretta misura dell’unico interesse che riesce ad affacciarsi in questo compatto micro-universo interpretativo: quello del responsabile dell’illecito. Il tertium comparationis – in questa ottica – è infatti rigorosamente individuato nella posizione del datore che licenzia violando una precisa regola del codice disciplinare rispetto a quella di chi intima il recesso per una condotta che, sebbene di analoga o persino di minore gravità, non risulta sussumibile sotto quella regola. Solo così si può immaginare senza apparenti turbamenti, e in fin dei conti restando coerenti con la nota tesi del “torto marcio”, una giustificazione per il diverso trattamento sanzionatorio: appunto ignorando – semplicemente non vedendo – la posizione del lavoratore che subisce la disparità.
Ma la nostra Costituzione – come meritoriamente ricordato dall’ordinanza in rassegna – non ammette simili punti ciechi: nel disciplinare le conseguenze del licenziamento illegittimo il legislatore, nell’esercizio della propria discrezionalità, deve sempre operare «in conformità del criterio di ragionevolezza, che la Corte costituzionale … ha declinato “come necessaria adeguatezza dei rimedi, nel contesto di un equilibrato componimento dei diversi interessi in gioco e della specialità dell’apparato di tutele previste dal diritto del lavoro”» .
4. Per una nomofilachia costituzionalmente orientata
Naturalmente il testo del quarto comma dell’art. 18 non pone alcun ostacolo alla interpretazione che l’ordinanza interlocutoria suggerisce in modo già così limpido e perspicuo nel disporre la trasmissione del procedimento alla quarta sezione della Suprema Corte. In effetti, testualmente, il quarto comma dell’art. 18, non appena ci si discosti dall’ottica e dalla pre-comprensione ideologica delle sentenze di maggio, non esige affatto il livello di tipizzazione contrattuale dell’illecito disciplinare irrealisticamente e irragionevolmente preteso da quelle sentenze, e di sicuro non inibisce di interpretare i contratti collettivi desumendone, come peraltro è sempre avvenuto, quei criteri assiologici che hanno ispirato le parti sociali nel prevedere – con la tecnica delle clausole generali o con previsioni di carattere solo esemplificativo – le condotte che, per la modesta rilevanza disciplinare, siano passibili di mera sanzione conservativa. Esiste ad ogni modo sicuramente lo spazio per una interpretazione costituzionalmente orientata .
Va da sé che, ove mai la sezione lavoro della Corte di cassazione dovesse continuare ad opinare diversamente, cristallizzando in diritto vivente l’orientamento criticato nell’ordinanza in commento, diverrebbe a quel punto inevitabile sollevare questione di legittimità costituzionale per contrasto con gli artt. 3, 4 e 35 Cost. E qui il precedente deciso dalla Corte costituzionale con la esemplare sentenza n. 59/2021 è davvero illuminante: il livello di punitiva irragionevolezza della soluzione interpretativa accolta dalla Cassazione in relazione al quarto comma dell’art. 18 non è certo minore di quella astrusamente costruita per trovare un senso alla insensata previsione del settimo comma. Anzi, qui il deficit di razionalità – e la conseguente carenza di coerenza ed equilibrio normativo nella selezione della tutela adeguata – appaiono persino più gravi, visto che viene in gioco il nucleo duro della tutela della dignità della persona ingiustamente licenziata, a voler seguire note prospettazioni dottrinali.
E sarebbe a quel punto auspicabile che a sollevare l’incidente di costituzionalità fosse, almeno questa volta, e per una volta, la stessa Corte di cassazione.