Testo integrale con note e blbliografia
1. L’ultimo libro di Adalberto Perulli sistematizza e, soprattutto, mette in prospettiva le riflessioni svolte da uno dei più autorevoli studiosi europei del lavoro non subordinato attorno alle recenti tendenze del diritto del lavoro.
Prima di proporre qualche osservazioni di merito, pare doveroso porsi una domanda di carattere generale relativa all’impianto complessivo dell’opera.
Può risultare “avvincente” una pubblicazione di carattere giuridico, volta a indagare “la nuova tendenza espansiva del diritto del lavoro” e, dunque, l’odierno (e futuro) campo d’applicazione di una branca del diritto privato, provvista di una propria autonomia disciplinare all’incirca da un secolo, sulla scorta delle importanti novità legislative e giurisprudenziali dell’ultimo quinquennio? Leggendo il volume di Perulli Oltre la subordinazione. La nuova tendenza espansiva del diritto del lavoro, edito da Giappichelli nell’inverno 2021, si direbbe proprio di sì.
Si tratta, infatti, di un libro autenticamente avvincente, il cui principale protagonista non è – con ogni evidenza – l’operaio-massa, il prestatore di lavoro subordinato o, più prosaicamente, il maschio, adulto, bianco, occupato a tempo pieno e indeterminato nell’impresa di dimensioni medio-grandi, ma neppure il rider, il consulente informatico, l’informatore scientifico del farmaco, l’agente o il broker.
Oltre la subordinazione non è, insomma, un volume sulle nuove figure che popolano i “dintorni” della subordinazione, quelle di dubbia qualificazione giuridica, che sfuggono allo statuto protettivo del lavoro subordinato e a questo sono, in un modo o nell’altro, da ricondurre de iure condendo o grazie all’interpretazione evolutiva delle norme giuridiche . Oltre la subordinazione è, piuttosto, un libro sul diritto del lavoro in cerca del proprio rinnovato statuto scientifico. Ed è, al contempo, un volume sul più novecentesco dei diritti alla ricerca del tempo perduto, poiché il fondamento della “nuova tendenza espansiva” evocata dall’Autore, viene dal medesimo rintracciata, giustamente, sin nel corpo della Costituzione del ’48, e, in particolare, nell’art. 35 Cost. il quale, promettendo un impegno della Repubblica a tutelare il lavoro in tutte le sue forme e applicazioni non ha, in fondo, mai autorizzato l’indebita riduzione dell’oggetto del diritto del lavoro classico al solo lavoro subordinato, né imposto o suggerito la marginalizzazione del lavoro autonomo che pure si è, per gran tempo, registrata .
Questa forma di riduzionismo è stata, per l’A., il portato di un’illusione ottica, in parte giustificata dalla sovraesposizione, anche politica e sociale, del lavoro dipendente; in parte frutto – come altri ha osservato - di una sineddoche mendace: una confusione della parte per il tutto che ha spinto il legislatore a proteggere il solo lavoro caratterizzato dal vincolo di soggezione all’autorità del datore di lavoro e, per conseguenza, concedere accesso ai territori del garantismo soltanto a chi fosse munito del passaporto della subordinazione.
Lo sforzo di guardare oltre è, dunque, tanto ambizioso quanto dovuto. Non certo indebito. E tantomeno presuntuoso. L’A., mosso dal medesimo afflato teorico che lo spingeva, sul finire del secolo scorso, a parlare di lavoro senza aggettivi , si misura, oggi, con una molteplicità di norme e istituti giuridici più o meno recenti, concentrando la propria attenzione, anche in chiave comparata, sulle principali novità che gli ordinamenti giuridici europei, a partire dall’Italia, hanno posto a battesimo e poi raffinato anche grazie all’interpolazione del diritto vivente.
Gioca, così, un ruolo massimamente rilevante nella “narrazione”, l’art. 2 del d.lgs. n. 81 del 2015 sulle collaborazioni etero-organizzate , come modificato dalla legge n. 128 del 2019, che l’A. riconosce come principale – ancorché non unico – vettore della richiamata tendenza espansiva .
Non si tratta, però, del solo istituto giuridico affrontato e approfondito nel testo: a questo percorso di “estensione universalistica” cui è recentemente pervenuto l’ordinamento giuridico italiano se ne affiancano altri, sia domestici sia esteri: dalle tecniche estensive d’ispirazione universalistica proprie del Libro VII del Code Travail francese fino alle tecniche di estensione selettiva e mirata caratterizzanti il dependent contractor canadese o le nostre più risalenti collaborazioni coordinate e continuative (ex art. 409, n. 3, c.p.c.), passando per figure propriamente intermedie quale il TRADE spagnolo o il worker del Regno Unito, tutte ordinate lungo assi cartesiani ove si combinano, con gradazioni diverse, gerarchia e mercato .
Mappe concettuali, tabelle, grafici e schematizzazioni, utili a consentire un’ampia fruibilità alla riflessione di carattere sistematico, s’incuneano tra le pagine come illustrazioni di un elegante racconto dalla trama raffinata e rotonda, i cui personaggi trovano collocazione in una cornice armonica. Tutti tranne uno, per vero: la contrattazione collettiva. La responsabilità non è, però, dell’Autore giacché il personaggio paga, come noto, la caratterizzazione indebitamente assunta nell’ambito del diritto europeo, interpolato da un Giudice ancora troppo convinto che il lavoro autonomo genuino sia in tutto e per tutto assimilabile alle imprese operanti sul mercato, di talché un contratto collettivo avente ad oggetto i trattamenti economici e normativi dei rapporti intrattenuti da lavoratori non subordinati rischia di restare impigliato nelle maglie del diritto della concorrenza e andare a fondo .
2. L’Autore, sin dalle prime battute, rivolge a se stesso e al lettore una serie di domane, sia esplicite sia implicite, la prima delle quali dev’esser qui richiamata per fugare ogni fraintendimento: il tentativo di guardare “oltre la subordinazione” allude, forse, alla scomparsa o, quantomeno, alla tendenziale marginalità del lavoro subordinato nell’ambito dell’odierno stadio di sviluppo delle forse produttive e delle coeve forme di organizzazione d’impresa? E ancora: si annida, tra le pieghe della narrazione, l’auspicio di un superamento della centralità economica, politica, giuridica o anche solo quantitativa del lavoro subordinato?
Lo stesso Perulli chiarisce, subito, che il problema affrontato nel volume è un altro: “non riguarda la subordinazione in sé ma ciò che è rimasto escluso dal perimetro delle tutele e che oggi, nelle nuove forme in cui si manifesta, reclama la sua appartenenza al continuum che dalla subordinazione porta all’autonomia, e chiede riconoscimento da parte del diritto del lavoro” . Il tema di fondo risulta, pertanto, il campo d’intervento del diritto del lavoro che, per l’A., oggi persino più di ieri , non va circoscritto al solo lavoro reso in regime di subordinazione tecnico-giuridica, inidoneo a rappresentare un appagante criterio di selezione dei destinatari delle tutele, meritando di essere ampliato sui più vasti binari della dipendenza economica, dell’inserimento della prestazione di lavoro nell’ambito di un’altrui organizzazione, delle relazioni personali di lavoro destinate a un disegno imprenditoriale da cui altri trae beneficio.
In questa chiave si spiega un itinerario di pensiero che prende le mosse da una lettura critica delle categorie fondative del diritto del lavoro – lo schema “rigidamente binario su cui il diritto del lavoro è stato costruito, nel corso del Novecento” – per poi indagare non soltanto la crisi della subordinazione, ma pure la crisi che hanno vissuto i vettori di più risalenti “tendenze espansive”, a partire da quella inaugurata, in Italia, con legge n. 533 del 1973.
Se è indubbio che l’introduzione delle collaborazioni coordinate e continuative ex art.409 n. 3 c.p.c. abbia, a suo tempo, rappresentato indicatore della vis espansiva del diritto del lavoro, disposto a guardare, pur con finalità di tutela prevalentemente processuale, oltre i bastioni del solo lavoro subordinato , è altrettanto pacifico come il lavoro parasubordinato abbia finito per costituire, nei fatti, una via di fuga dalla protezione giuslavoristica. L’eterogenesi dei fini si deve, probabilmente, a una maniera particolare e discutibile d’intendere la nozione di coordinamento all’altrui organizzazione, ritenuto da una parte della dottrina – e dalla prevalente giurisprudenza – del tutto compatibile con l’esercizio di un potere unilaterale del committente e distinguibile dal più penetrante potere direttivo di cui dispone il datore di lavoro su di un piano essenzialmente quantitativo . Per questa via – come l’A. da tempo sostiene – le collaborazioni coordinate e continuative hanno finito per assumere il ruolo di mero “sostituto commerciale” del lavoro dipendente, assai vantaggioso perché sgravato dei costi economici e normativi propri di quest’ultimo.
Perulli non reclama, tuttavia, un mero aggiornamento delle tradizionali categorie di autonomia e subordinazione , né pare accontentarsi delle opportune precisazioni che il legislatore ha, finalmente, svolto con riguardo al lavoro parasubordinato, avendo questi notoriamente preso partito, nel 2017, per la non compatibilità del potere unilaterale del committente col lavoro autonomo coordinato, giacché nel caso delle collaborazioni coordinate e continuative le “modalità di coordinamento” sono sempre stabilite “di comune accordo tra le parti” (art. 15, l. n. 81/2017).
L’A. intravede e, al contempo, auspica, per contro, un tendenziale ma concreto superamento della grande dicotomia reciprocamente esclusiva lavoro subordinato versus lavoro autonomo, insistendo sulla collocazione delle due figure fondamentali agli estremi di un continuum unitario nel cui alveo sono distribuite tutte le attività di lavoro personale.
Se tale postura, indubitabilmente affascinante, poteva forse peccare d’astrattezza sul finire dello scorso secolo, fino a tradire, nella visione di qualcuno, un approccio intellettualistico, oggi gli elementi su cui Perulli attira l’attenzione del lettore indicano numerosi addentellati del ragionamento nella realtà sociale come nel mondo del diritto.
Sul piano fenomenologico, anche sulla scorta delle nuove tecnologie digitali applicate alla produzione e all’organizzazione del lavoro – su cui l’A. s’intrattiene specialmente nella prima parte del volume – è arduo smentire uno “spiazzamento” della soggezione personale all’autorità del capo come vettore d’integrazione della prestazione di lavoro nell’ambito dell’impresa : qui, rispetto al classico binomio gerarchia/mercato, risulta davvero difficile individuare forme di relazione contrattuale bianche o nere, mentre sempre più spesso “domina il grigio”.
Sul fronte normativo, è oramai altrettanto visibile la sussistenza di gradienti di protezione e tutele differenziati in base al tipo di rapporto (di potere) intrattenuto tra impresa e lavoro personale, che vanno dall’equiparazione quod effectum al lavoro subordinato delle collaborazioni etero-organizzate, fino alla disciplina leggera del lavoro autonomo non imprenditoriale che mutua, per lo più, il (parziale) riequilibrio delle relazioni asimmetriche che si osservano tra attori economici operanti nel mercato .
“Il sistema – osserva Perulli – ha allentato i vincoli tipologici che presiedono alla dinamica fattispecie-effetti grazie all’identificazione di un’area di lavoro “etero-organizzato” che, senza l’art. 2, rischierebbe di essere qualificato come autonomo, rimanendo quindi (per la rigida correlazione fattispecie-effetti) sprovvisto di adeguate tutele” .
Se ciò è vero, per paradosso solo apparente, quel che oggi rischia di rivelarsi astratto o intellettualistico – e ciò vale anche in senso autocritico – è insistere sulla permanente centralità della grande dicotomia che ha opposto, per un secolo, il lavoro autonomo al lavoro subordinato.
È dunque da condividere la risposta che l’A. fornisce al quesito di fondo, attinente al rapporto tra tipi contrattuali e protezione giuslavoristica: non siamo dinanzi a una nuova polarizzazione tra subordinazione e autonomia, come avvenuto, qualche anno or sono, dopo il varo del contratto di lavoro a progetto , bensì al cospetto di una ri-modulazione delle tutele che, almeno in parte, relativizza la tradizionale centralità tipologica “in una logica di progressivo superamento della grande dicotomia” . Questo oltrepassamento del confine categoriale – dice l’A. – si è attuato con un dosaggio legislativo di universalismo assimilativo (art. 2 co. 1) e di espansionismo selettivo delle tutele secondo diversi gradienti (art. 2 co. 2) . Il secondo comma dell’art. 2 si prospetta, in questa chiave, come una leva tesa a spingere la fonte di regolazione più adattabile e flessibile, ossia la contrattazione collettiva, a misurarsi con le concrete trasformazioni del lavoro in costante divenire. Una fonte di regolazione la cui forza, almeno potenziale, proviene dalla spada di damocle del regime assimilativo previsto dal primo comma, il quale pende – assai opportunamente – su committenti indisponibili a confrontarsi con il sindacato, per adattare la tutela giuslavoristica ad ambiti e comparti contrassegnati da specifiche esigenze.
In definitiva, mentre le proposte di superamento dell’assetto tradizionale a suo tempo avanzate con lo statuto dei lavori o l’introduzione di un genus intermedio tra subordinazione e autonomia correvano il rischio di svuotare il bacino del lavoro protetto , oggi la direzione imboccata dall’ordinamento giuridico del lavoro è effettivamente leggibile in termini di “tendenza espansiva”. A condizione che parti sociali siano effettivamente capaci di interpretare e leggere, nel giusto modo, sia le nuove forme d’organizzazione d’impresa, sia le vecchie e nuove domande di tutela che promanano dal sociale.
3. La ricostruzione del sistema italiano, condotta tramite l’indagine delle tecniche di universalismo assimilativo ed espansionismo selettivo delle tutele, non trascura alcuni rilevanti risvolti di carattere torico-prativo.
Merita di essere sottolineato, in proposito, un aspetto approfondito nel quinto paragrafo del secondo capitolo, ove l’A. si domanda, sulla scorta di una nota pronuncia della Cassazione in tema di lavoro etero-organizzato, se e quale pertugio il diritto vivente abbia aperto all’ipotesi – pure avanzata in dottrina – di applicazione non generalizzata ma selettiva delle tutele proprie del lavoro subordinato alle collaborazioni descritte dall’art. 2, comma 1, d.lgs. n. 81/2015.
Lo spunto di riflessione trae origine da una considerazione svolta dai giudici di legittimità i quali, nella nota sentenza n. 1663/2020, pur ritenendo che lo statuto protettivo dei lavoratori subordinati si applichi “in blocco” ai collaboratori etero-organizzati, escludono le (sole) norme “ontologicamente incompatibili” con la subordinazione, tanto da permettere alla dottrina di esercitarsi nello scioglimento di un passaggio argomentativo obbiettivamente ermetico.
“Il riferimento della Corte di Cassazione ad una incompatibilità ontologica – scrive Perulli – consente di discutere se l’effettiva volontà del legislatore sia quella di estendere tutte le norme del rapporto di lavoro subordinato alla fattispecie di cui all’art. 2, comma 1, o solo una parte, compatibile con la natura autonoma del rapporto” . L’A. esclude, poco oltre, che sia consentito schiavare, per esempio, l’applicazione della fondamentale disciplina dei licenziamenti – come indebitamente ritenuto dalla Corte d’Appello di Torino – in quanto “alcuna incompatibilità ontologica sussiste tra le limitazioni della facoltà di recesso… e la natura autonoma del rapporto”; ma invita, al contempo, a meditare su alcuni non secondari problemi di estensione dell’intero edificio delle norme di disciplina del rapporto di lavoro subordinato, con particolare riferimento ai poteri gerarchico-direttivi del datore di lavoro.
Qui, l’A. ha certamente ragione nell’escludere l’applicabilità del vincolo d’obbedienza di cui all’art. 2104 c.c., atteso che, in caso di sussistenza di un tale vincolo, consustanziale alla subordinazione, la medesima sarebbe indubbiamente da riconoscere, con coeva necessaria riqualificazione del rapporto in tal senso.
Non è però scontato che possa valere esattamente lo stesso ragionamento in ordine alla disciplina dello ius variandi, come regolato dall’odierno art. 2103 c.c.. È certo vero che la disposizione regola uno dei più penetranti e originali poteri unilaterali del datore di lavoro, trattandosi del potere di modificare, unilateralmente, l’oggetto stesso del contratto (le mansioni). Ciononostante, la rilevanza pratica della disposizione, nella concreta dinamica di un procedimento d’accertamento del carattere etero-organizzato della collaborazione, risiederebbe nella possibilità d’invocare la norma per la risarcibilità del danno alla professionalità del lavoratore, già riconosciuto da qualche pronuncia della Cassazione in caso di assegnazione di compiti dequalificanti a collaboratori coordinati e continuativi . Ad opinione della Corte, anche il lavoratore autonomo, nell’ambito di un rapporto di collaborazione coordinata e continuativa, è titolare del diritto a svolgere la prestazione di lavoro dedotta in contratto, cui si correla, in caso d’inattività del collaboratore, il diritto al risarcimento del danno (patrimoniale e non patrimoniale). Gli “elementi della continuazione e del coordinamento” – per la Cassazione – “comportano uno svolgimento di prestazioni lavorative idoneo a incrementare scienza ed esperienza, ossia le capacità professionali del prestatore, con la conseguenza che questi, a simiglianza del lavoratore subordinato in base all’art. 2103 c.c., può vantare nei confronti del committente (…) un diritto soggettivo alla effettiva esecuzione della prestazione nonché, in caso di lesione, il diritto al risarcimento del danno da perdita o mancato incremento di capacità di lavoro oppure da deterioramento dell’immagine professionale”.
Se ciò vale per il lavoro autonomo coordinato, non è forse peregrino ritenere che, per i collaboratori etero-organizzati, sia applicabile, con qualche adattamento, il regime previsto dall’art. 2103 c.c., almeno quando, a seguito di modifiche organizzative introdotte dal committente, la nuova forma d’integrazione dell’attività del collaboratore nell’altrui progetto imprenditoriale determini una mortificazione del suo bagaglio professionale.
4. Se l’impianto complessivo del volume suona persuasivo e convincente, è doveroso, in questa sede, provare a individuare quale aspetto problematico, ancorché solo di dettaglio.
Un primo elemento meritevole di qualche osservazione critica risiede nell’indebita sovrapposizione di due (diverse) ricostruzioni della ratio della disposizione di cui all’art. 2, comma 1, che la Corte di Cassazione qualifica come norma anti-elusiva e rimediale.
In un paragrafo del secondo capitolo, l’A. sottopone a severa critica tale prospettazione, osservando che, “se l’art. 2, comma 1, fosse una norma antielusiva (e rimediale) sarebbe finalizzata a contrastare un fenomeno di elusione della normativa di subordinazione. Ma se così fosse, bisognerebbe ulteriormente dedurne che – similmente a quanto avveniva per le collaborazioni a progetto prive di quel nuovo essenziale requisito (art. 69, comma 1) – l’art. 2 comma 1 è una norma rimediale che opera qualora si realizzi una fraudolenta disapplicazione della disciplina di subordinazione in casi concreti caratterizzati da indici tipici e significativi della subordinazione”, il che non è per “le differenze qualitative del potere di organizzazione di cui all’art. 2, comma 1 rispetto al potere direttivo del datore di lavoro” . Differenze che consentono, e anzi impongono, di identificare due diverse figure: quella del lavoro contrassegnato da eterodirezione (ex art. 2094 c.c.) e la nuova e diversa figura delle collaborazioni (meramente) etero-organizzate, equiparata alla prima soltanto ai fini della disciplina, in ragione della “evidente asimmetria tra committente e lavoratore” .
Il fatto che la disposizione non si profili – come giustamente sostiene l’A. – quale norma anti-elusiva non autorizza, tuttavia, a escluderne il carattere essenzialmente rimediale. La disposizione in discorso, difatti, conserva una natura rimediale nella misura in cui consente di accertare, in presenza di un rapporto qualificato come prestazione d’opera (art. 2222 c.c.), eventualmente coordinata e continuativa (art. 409, n. 2, c.p.c.), il carattere etero-organizzato della collaborazione, con conseguente applicazione dello statuto protettivo dei subordinati. È, del resto, difficile immaginare che le parti qualifichino, spontaneamente, un rapporto come rapporto di lavoro etero-organizzato, giacché non si vede quale interesse in tal senso possa avvertire l’imprenditore/committente il quale, ove fosse disposto a sobbarcarsi i costi economici e normativi della subordinazione, preferirebbe realisticamente assicurarsi, a quel punto, pure il vincolo obbedienza. In questa prospettiva, c’è persino chi ha avanzato, non senza ragione, l’idea che, dopo l’art. 2, l’accertamento della natura subordinata del rapporto di lavoro possa rispondere all’interesse dell’imprenditore-committente , con finalità di affiancare al dovere d’applicare l’integrale statuto protettivo dei subordinati, la supremazia gerarchica tipica del datore di lavoro propriamente detto.
Il carattere essenzialmente “rimediale” del primo comma dell’art. 2 può, tuttavia, sviluppare, anche in termini molto progressivi, la potenzialità del comma secondo, lett. a) che, come noto, consente a un CCNL sottoscritto dai sindacati più rappresentativi, la facoltà di sottrarre talune collaborazioni etero-organizzate al regime istituito dall’art. 2, comma 1, prediligendo “discipline specifiche riguardanti il trattamento economico e normativo, in ragione delle particolari esigenze produttive ed organizzative del relativo settore”. In tal caso, infatti – riconosce Perulli – “l’assimilazione realizzata dal comma 1 cede il passo a tanti possibili statuti settoriali ad hoc, regolati in virtù del principio di autonomia collettiva, onde la tendenza espansiva universalizzate – su cui l’A. esprime più di qualche riserva – si converte in una tendenza espansiva selettiva/modulare” . Detto altrimenti, il rischio di esporsi alla secca applicazione del primo comma dell’art. 2 potrebbe suggerire a imprenditori e committenti di pervenire a intese anche avanzate, consentendo di attingere a una fonte di disciplina dei rapporti di lavoro massimamente flessibile e adattabile, quale è il contratto collettivo , per rispondere, in maniera adeguata, alle continue e repentine modifiche dei modelli organizzativi che oggi caratterizzano l’attuale contesto economico-produttivo .
A condizione che, come è oramai ampiamente prevedibile , il diritto dell’Unione europea superi la tradizionale resistenze ad ammettere una contrattazione collettiva per i lavoratori autonomi, inopinatamente rinnovata, anche in tempi recenti, dalla giurisprudenza della Corte di giustizia .
Un secondo profilo critico risiede, poi, nella sottovalutazione che l’Autore riserva al concetto di “doppia alienità”, richiamato, nella prima parte del volume, con esclusivo riguardo alle tradizionali proposte di aggiornamento della nozione di subordinazione . Mentre viene trascurata l’ipotesi che tale concetto possa profilarsi quale vettore trans-tipico del riscontrato allargamento del raggio d’azione della tutela giuslavoristica.
Se è pacifico che le chiose attorno al “nocciolo duro” della subordinazione siano venute a luogo, in tempi risalenti , all’apice, per così dire, del trentennio fordista e in coincidenza col varo dello Statuto dei lavoratori, per poi essere testualmente riprese in una nota sentenza del Giudice delle leggi di metà anni ’90 , pare difficile non riconoscere, oggi, al concetto di doppia alienità un rinnovato vigore e una più comprensiva portata.
La condizione di doppia alienità, lungamente e colpevolmente trascurata dalla prevalente giurisprudenza in materia di subordinazione costituisce, nell’odierno quadro normativo, elemento comune a due diverse fattispecie: il lavoro subordinato ex art. 2094 e le collaborazioni etero-organizzate ex art. 2, comma 1, d.lgs. n. 81/2015. Per esser più chiari, se un tempo detta condizione non è bastata, secondo la prevalente dottrina e giurisprudenzia, a riconoscere la subordinazione, ove pure è indubbiamente presente, è oggi sufficiente a riscontrare la natura etero-organizzata della collaborazione, meritevole di analoga protezione. Il che non costituisce aspetto di poco conto.
L’inserimento della prestazione di lavoro in un’organizzazione produttiva altrui, del cui risultato altri è immediatamente legittimato ad appropriarsi è, infatti, condizione sostanzialmente analoga a quella ritratta dall’odierno art. 2, comma 1, tanto che la stessa Cassazione non esita a rappresentare il relativo rapporto come una “collaborazione funzionale con l’organizzazione del committente, così che le prestazioni del lavoratore possano, secondo la modulazione unilateralmente disposta dal primo, opportunamente inserirsi ed integrarsi con la sua organizzazione di impresa” (punto 32 della motivazione). Il che, peraltro, regolarmente avviene nelle più moderne strutture imprenditoriali organizzate tramite infrastrutture digitali, atteso che, per un verso, i servizi forniti dalle piattaforme sono gestiti e messi a frutto dalle (sole) piattaforme medesime; per altro verso, la proiezione organizzativa di tali infrastrutture limita l’autonomia di coloro che vi collaborano, escludendo ogni loro potere o controllo sull’organizzazione nella quale il lavoro personale s’inscrive .
Inoltre il legislatore, con le modifiche apportate all’art. 2, comma 1, d.lgs. n. 81/2015 da parte della l. n. 128/2019, ha sciolto ogni ambiguità, sicché non pare più revocabile in dubbio l’idea – su cui l’A. giustamente insiste – che l’ordinamento sia pervenuto ad un concreto ampiamento del campo d’applicazione della protezione giuslavoristica, oggi spettante a qualunque collaborazione personale e continuativa, funzionalmente iscritta in un’organizzazione unilateralmente predisposta dal suo titolare, anche quando manchi un assoggettamento del prestatore di lavoro al potere direttivo del creditore.
La fisionomia dell’ordinamento italiano è oggi finalmente rispondente a un’idea cara soprattutto a Massimo D’Antona il quale, sul finire dello scorso secolo, già invitava a considerare il lavoro come “istituto giuridico” , ossia – sintetizza Perulli – “una struttura riassuntiva dei fenomeni normativi che riguardano l’integrazione del lavoro umano nei processi produttivi e nelle organizzazioni imprenditoriali, per ri-modulare razionalmente e secondo equità i meccanismi di tutela storicamente riservati al solo lavoro subordinato”. Il sistema, in tal modo, allarga davvero il proprio sguardo “oltre la subordinazione”, estendendo i propri effetti all’intera gamma delle modalità attraverso cui si realizza “nelle molteplici forme consentite da una organizzazione produttiva oggi assai meno rigida del passato, un’integrazione del lavoro prevalentemente personale nell’attività economica altrui” .
Se il sistema non si è servito della nozione di dipendenza economica – che l’A. predilige – per perseguire questo obbiettivo, ha però fatto tesoro del concetto di doppia alienità, che può adesso essere legittimamente presentato come “area di continenza sovra-tipica” idonea a giustificare la piena protezione giuslavoristica.
Si è perduto molto tempo. Ma quel tempo non è trascorso invano.