testo integrale con note e bibliografia

1. Il tassello mancante: la povertà nonostante il lavoro. Il caso dei post-doc universitari.
Il fenomeno del lavoro povero purtroppo non è una novità dato che potrebbe ritenersi connaturato all’economia capitalistica, specie alle sue fasi di trasformazione . Tuttavia ora, in Italia, la povertà nonostante il lavoro pare diventata sempre più complicata e complessa , al punto da diventare un enigma equiparabile a una sorta di tassello mancante del diritto del lavoro e delle relazioni industriali.
I dati dell’ultimo decennio svelano (v. par. 2) una significativa accentuazione dell’infiltrazione dei salari poveri (individuali e/o familiari, assoluti o relativi) in larga parte del mercato del lavoro e un correlato incremento delle diseguaglianze (specie nei confronti dei soggetti c.d. “vulnerabili”: giovani, donne, immigrati).
Inoltre alla nozione di povertà nel lavoro – nella società attuale, definita dai demografi, “in declino demografico strutturale” – si aggiunge un significato inedito di impoverimento dello stesso potenziale della forza lavoro, cioè della componente giovanile. In un mercato affamato di forze-lavoro (a tutti i livelli), l’andamento demografico che indebolisce il segmento più strategico della forza lavoro, i giovani, incombe come una spada di Damocle sia sullo sviluppo del Paese, sia sulla sostenibilità del sistema sociale, in primis lato pensioni e salute .
Il tutto alimenta questioni ingarbugliate e centrali non solo per il diritto del lavoro; di più, non solo per l’economia, ma per l’intera società. Questa consapevolezza emerge come fil rouge nei risultati della ricerca PRIN 2017, intitolata“WORKING POOR N.E.E.D.S.: New Equity, Decent work and Skills”, da me coordinata come Principal Investigator .
La sensazione è che il tema del lavoro povero inquieti al punto da essere annoverato fra le ragioni determinanti dell’attuale riflessione teorica e filosofica sull’attualità dei valori fondativi e sulle idee di lavoro per la civiltà prossima ventura. Non a caso, perché il lavoro povero evoca una sorta di tragico ossimoro che combina elementi in aperta contraddizione di un’occupazione che non porta ricchezza, e di una indigenza che permane nonostante il lavoro. In sostanza, se il valore del lavoro va valutato tenendo conto del valore dell’impresa, quest’ultimo non può risultare sovrastante, bensì va coltivato in una logica di bilanciamento dei valori sottesi agli artt. 36 e 41 Cost., specie in un’ottica di trasformazioni sostenibili.
Un lavoro che non protegge dal rischio della povertà, non è dignitoso, contraddicendo la promessa fondamentale della nostra Costituzione, del diritto sociale europeo e persino delle fonti (e linee di azioni) sovranazionali . La povertà, inoltre, è anche privazione della libertà di sviluppare i propri talenti, con il rischio di esclusione sociale. Di più, il lavoro povero rende traballante il pilastro fondamentale della nostra democrazia, dell’accesso alla cittadinanza piena, sancito dalla Carta costituzionale del 1948.
Nonostante il lungo periodo di crescita economica iniziato dalla fine della seconda guerra mondiale, il tema conserva oggi una straordinaria importanza non solo giuridica ma anche sociale, economica, politica e culturale, ricalcata dall’attuale contesto di c.d. “permacrisi” (pandemia, guerre, alluvioni, siccità, ecc.) e di trasformazioni strutturali (in primis determinate dall’impatto dell’intelligenza artificiale) non solo grandi, ma accelerate.
Il fenomeno della povertà nonostante il lavoro è reso più resistente e profondo dalla complessità dovuta alla sua natura multi-dimensionale . È correlato a una varietà – estrema, trasversale e intersezionale – di situazioni, e quindi di cause, che spesso intrecciano e fondono temi apparentemente distinti.
Sul piano giuslavoristico, il lavoro povero interseca e corrode le diverse caratteristiche del rapporto di lavoro (da quello nero a quello subordinato, da quello autonomo a quello prestato per il tramite di piattaforme digitali); le variegate tipologie (non soltanto quelle atipiche, ma persino quelle standard); i differenti settori (da quello privato, a quello pubblico e loro diversificazioni interne); i gruppi sociali, i settori produttivi e persino i territori.
Il fenomeno non affiora più soltanto ai margini del mercato del lavoro. L’inadeguatezza della retribuzione la ritroviamo addirittura nel mondo dell’alta formazione e proprio nel momento più delicato nella vita dei migliori giovani studiosi. Ed è tale – associata alla lentezza delle carriere accademiche – da rendere finanche tale professione poco attrattiva, contribuendo ad alimentare il fenomeno della c.d. “fuga di cervelli” .
Basti segnalare la condizione dei giovani ricercatori (preziosa linfa vitale per la ricerca universitaria) nelle posizioni “pre-ruolo” (o “post-doc”) rappresentata dalla tortuosa vicenda degli assegni di ricerca, strumenti imperfetti, ma almeno agili e collaudati. Detti assegni – in attuazione delle riforme alla L. n. 240/2010, previste dalla L. n. 79/2022 – sono stati improvvisamente bloccati, poi prorogati per un biennio per gestire i fondi PNRR (con un incerto stillicidio di proroghe).
Dal 1° gennaio 2025, gli assegni di ricerca risultano aboliti, per essere sostituiti da una variegata serie di nuove figure contrattuali. Per ora sono applicabili soltanto quelle di ricercatore tenure track di sei anni e contratto di ricerca biennale e con contrattazione collettiva. Ma sono in pista di arrivo strumenti normativi: quali il contratto post-doc annuale (prorogabile fino ad un massimo di tre anni) e senza contrattazione collettiva; il contratto di professore “aggiunto” di tre anni per esperti di alta qualificazione anche appartenenti al mondo professionale; due figure di borse di assistenti di ricerca junior e senior. Alcune di esse prevedono una posizione sì più remunerativa rispetto agli assegni di ricerca, ma poche Università potranno permettersele, visti i tagli della legge di Bilancio 2025. E soprattutto tutte le posizioni prevedono una procedura altamente formalizzata e formalista tale per cui rischiano di risultare inapplicabili. E temo lo resteranno per la maggior parte del nuovo anno, mentre sullo sfondo si profila una riforma dei concorsi universitari (c.d. Abilitazione Scientifica Nazionale o ASN).
La vicenda presenta modalità e misure che sollevano serie preoccupazioni sul ridimensionamento dell’università e della ricerca pubblica . Una recente esperienza (come commissaria proprio in un concorso aquilano) mi ha confermato la profondità e la pervasività del precariato e del lavoro povero nel mondo universitario.
Il lavoro povero è, dunque, un concetto insidioso che richiede una miscela sapiente e accurata di interventi coordinati, con un’integrazione di processi e con una cassetta degli attrezzi adatta e adattabile al contesto di riferimento , altrimenti c’è il rischio concreto di alimentare spiacevoli effetti boomerang.
Se così è, per ritrovare il tassello mancante, l’indagine deve essere necessariamente inter e multi-disciplinare, incrociando le varie fonti e strumentazioni disponibili, come ha fatto, nell’ambito di questa ricerca giuridica, l’unità aquilana .
E, con onestà intellettuale, bisogna riconoscere che non esistono soluzioni semplici a problemi complessi. Come ha confermato questa ricerca, non esiste una tecnica – unica, semplice e magica – per estirpare la gramigna del lavoro povero. Proseguendo nella metafora, vanno messe in campo diverse strategie – anche preventive, sistemiche e selettive – al fine di rigenerare il terreno che porti a piena maturazione il valore della dignità del lavoro.
A conti fatti, la lotta al lavoro povero è il frutto di una società libera e democratica che ne asseconda la libertà dal bisogno e ne attiva le energie per la dignità e il benessere della persona, in primis nel mercato del lavoro.
Ma tale lotta è complicata dal carattere ambiguo e multifattoriale del fenomeno e dall’ambiguità dei dati.

2. Gli abbagli dei dati
A prima vista, i recenti dati del mercato del lavoro (a partire da quelli dei Rapporti annuali di Istat e Inps) sembrano – tra record e paradossi – sempre più lusinghieri nell’alimentare la speranza di un’evoluzione positiva. L’occupazione (anche stabile) cresce addirittura a un ritmo più veloce dell’attività economica misurata dal PIL, con un disallineamento anomalo, segnalato dagli economisti .
Ma questa illusione positiva è ridimensionata non solo dall’avanzata di profonde crisi industriali (v., per tutti, il caso Stellantis), ma anche da pesanti ombre sul versante vuoi della domanda, vuoi dell’offerta di lavoro, documentate dalle statistiche comparative . Queste statistiche ci vedono nelle posizioni di coda, specie per l’occupazione femminile e giovanile (peraltro fortemente impiegata con contratti a termine, in maniera discontinua e con part-time involontari). Mentre primeggiamo per i dati negativi, a partire dalle quote sia di inattivi (anche per effetto della cassa integrazione guadagni di lunga durata), sia di occupati in condizioni di vulnerabilità economica.
Quest’ultimo dato, la povertà da lavoro, segnala che il problema delle distorsioni strutturali del mercato del lavoro si intreccia e si fonde con quello della progressiva diminuzione della capacità del reddito da lavoro di proteggere individui e famiglie garantendo un’esistenza libera e dignitosa.
Su questo fronte – in aggiunta a una trentennale dinamica salariale “piatta” o stagnante (dati ILO) – risalta l’impatto della fiammata di inflazione dei primi anni ’20. Post-Covid e post-guerre “a pezzi”, lo straordinario rincaro del costo dei prodotti, specie energetici, è stato, come noto, per lo più assorbito da un trasferimento sui prezzi finali di beni e servizi, con correlata decrescita salariale, cioè perdita del potere reale di acquisto delle retribuzioni.
Anche su questo fronte, tuttavia, gli attuali dati (di un rallentamento del tasso di inflazione) sembrano alimentare aspettative lusinghiere. Ma l’illusione sfuma se si tiene conto che, anche se l’inflazione cala, i prezzi no! I prezzi per lo più restano più alti per sempre, senza possibilità di recupero, per effetto del segnalato trasferimento di costo.
E soprattutto, in Italia, restano alti i prezzi dei beni e servizi ad alta frequenza d’acquisto, a partire da quelli alimentari (come ben noto a chi si occupa degli acquisti familiari), con un impatto più significativo sui redditi delle fasce basse della popolazione. Ne deriva un impoverimento progressivo dei lavoratori più svantaggiati. Non a caso, i report della Banca d’Italia segnalano un incremento del credito al consumo, tipico segnale di indebitamento dei lavoratori poveri.
Per cogliere il carattere multidimensionale di questa perdurante tendenza basti segnalare il recente fenomeno della rinuncia da parte dei cittadini (inclusi i lavoratori) alle cure mediche e alla prevenzione delle malattie non solo per le lunghe file di attesa, ma anche per i costi elevati dei servizi. A questa povertà sanitaria si aggiungono nuove dimensioni di povertà educativa, formativa e culturale.

3. Le scelte dei protagonisti.
Sul versante giuridico delle politiche di contrasto alla piaga della povertà nel lavoro, fra vecchia e nuova economia, segnalo la diversità di scelte dei principali protagonisti.
Da un lato, risalta l’attivismo fine legislatura dell’Unione europea, con il varo della nota Direttiva n. 2022/2041/UE sui salari minimi adeguati. Direttiva, questa, che pur essendo cauta e debole, risulta ora pericolosamente insidiata da un ricorso promosso dalla Danimarca e sostenuto dalla Svezia (causa C-19/23) che chiede alla Corte di giustizia UE l’annullamento della stessa .
Dall’altro, fa da contraltare l’assenza del legislatore italiano (peraltro in folta compagnia), in un contesto di inattuazione (legislativa) degli artt. 36 co. 1 e 39 co. 2-4 Cost. Nonostante la legge delega n. 15/2024 abbia previsto il recepimento della Direttiva 2022/2041, il termine per il suo recepimento è spirato a vuoto (il 15 novembre 2024).
Dopo un primo tempo di rimpallo della questione fra il Governo Meloni e il Cnel presieduto da Brunetta , in cui si prende atto che l’estensione della contrattazione collettiva nazionale supera l’80% dei lavoratori , interviene la Cassazione, con un famoso sestetto di sentenze del 14 settembre 2023 (nn. 27711, 27769, 27713, 28320, 28321, 28323), sulla nozione di salario minimo costituzionale , ricalcando la possibilità per il giudice di merito di disapplicare il trattamento insufficiente, anche se corrisponde a un contratto collettivo nazionale di lavoro firmato dai sindacati maggiormente rappresentativi, riconoscendo la possibilità di utilizzare quale parametro anche un contratto di un settore affine o per mansioni analoghe e, nell’ambito dei tradizionali poteri riconosciuti al giudice (ex art. 2099, comma 2, c.c.), di fare riferimento a indicatori economici e statistici, secondo quanto suggerito dalla cit. Direttiva.
In tal modo la magistratura si candida a diventare, in caso di controversie, una sorta di autorità salariale di ultima istanza. Ovviamente, tale presenza soffre di un elevato rischio di soggettivismo. Di più, enfatizza una perdita di centralità del classico ruolo interpretato dall’attore principale del sistema di relazioni industriali, che si aggiunge alla recente frattura sindacale sui contenuti della legge: il salario minimo (per Cgil e Uil) o la partecipazione (per Cisl)?. L’indebolimento del sindacato e della contrattazione collettiva è un effetto che non aiuta a risolvere la questione del lavoro povero.
I contorni della vicenda sono ben noti , e indagati anche in questa rivista , da quasi un lustro. Pertanto mi limito a sintetizzare il percorso della ricerca appena conclusa e l’attualità del contributo dell’unità udinese.

4. La ricerca sui (nuovi) bisogni dei lavoratori poveri.
La ricerca dedicata ai bisogni dei lavoratori poveri, sin dalla formulazione originaria intendeva proporre strumenti e politiche per una “nuova equità, lavoro dignitoso e professionalità” (come recita il suo titolo) essendo stata concepita in un frame di c.d. società del rischio , in cui il prezzo del lavoro si mostra incapace di garantire una retribuzione adeguata ai parametri costituzionali ed europei, anche per effetto delle prolungate ricadute economico-sociali della crisi finanziaria del primo decennio del secolo.
La scelta del fenomeno indagato è risultata anticipatoria e azzeccata, quale enigma stabile, crescente e diffuso di sofferenza dei lavoratori, delle lavoratrici e delle loro famiglie. Difatti, nell’avvio del secondo decennio (periodo di effettuazione della ricerca), i segnali negativi classici sono aumentati e peggiorati, specie a partire dalla fase pandemica, diventando sempre più preoccupanti.
Non a caso, se consideriamo i dati statistici delle cause iscritte a ruolo ora risalta l’importanza del tema della retribuzione per chi un lavoro lo possiede ma non riesce a trarne una retribuzione adeguata rispetto addirittura a quelle relative al tema della perdita del posto di lavoro.
Di conseguenza gli intenti dell’indagine si sono dilatati e, al contempo, sono diventati più mirati alle variegate caratteristiche delle situazioni e del contesto da bonificare. Gli obiettivi della ricerca, riconducibili alle misure di contrasto del fenomeno del lavoro povero, sono risultati così arricchiti in tutte le loro sfaccettature e problematiche.
Nel contempo, la ricerca ha evidenziato che il tema del lavoro povero riveste una centralità e criticità anche di tipo ambientale. Pertanto l’indagine ha coltivato l’obiettivo di fornire soluzioni praticabili a una questione, cruciale e complessa, di povertà nel lavoro che mina non soltanto la libertà e la dignità della persona, ma pure la competitività del sistema economico, nonché la sostenibilità sociale e ambientale.
Da qui la consapevolezza che il lavoro povero costituisce un grave freno per le prospettive di sviluppo sostenibile in tutte le sue dimensioni: economica, sociale, tecnologica e ambientale.
La ricerca si è trovata dinanzi a un passaggio epocale, di transizioni e di trasformazioni profonde e veloci, con sfide vecchie e nuove, che hanno indotto a concentrarsi sui nuovi bisogni, desideri e scelte delle persone (e delle famiglie) e sullo sviluppo delle loro capacità e competenze (in particolare informatiche e digitali), in un’ottica di benessere, nonché di ibridazione delle professioni.
In questa direzione, l’unità udinese ha centrato l’attenzione su una specifica famiglia di politiche: la professionalità per l’occupabilità, nella convinzione che la formazione (e l’aggiornamento delle competenze) rappresenti una leva strategica per valorizzare il personale del settore sia privato, sia pubblico.
La ricerca ha privilegiato la rilevanza della professionalità e dell’aggiornamento e/o adattamento tramite la formazione a 360 gradi: per tutti i livelli di inquadramento e per tutti i settori produttivi e dei servizi.
Tali politiche sono state calate in un mercato del lavoro che cambia, con un’evoluzione profonda e incessante dei modi di lavorare, con una progressiva interazione persona-macchina nell’organizzazione del lavoro. E, nel contempo, con una forza lavoro che – per effetto del c.d. inverno demografico – invecchia inesorabilmente.
Da qui, la consapevolezza che il rischio della perdita o (per restare in tema) dell’impoverimento della professionalità è oggi, rispetto al passato, molto più elevato e diffuso. L’originale angolatura di indagine considera la professionalità (e la correlata formazione) quale potenziale antidoto non solo alla disoccupazione (per non perdere l’occupazione o per favorire il passaggio da un’occupazione all’altra), ma alla stessa povertà nel lavoro (garantendo l’adeguamento, lo sviluppo di nuove competenze o di capacità diverse per es. le c.d. soft skills).
Da qui una prospettiva di sviluppo delle competenze che dovrebbe portare al miglioramento della carriera lavorativa e, consequenzialmente, all’incremento della retribuzione.
In tale direzione, il costo del lavoro del lavoro risulta crescente. Basti considerare che il tempo impiegato per la formazione obbligatoria – per effetto delle novità apportate in materia della direttiva Trasparenza n. 1152/2019/UE (art. 13) e del D. Lgs. n. 104/2022 (art. 11) – risulta ora incluso, anche per i lavoratori assunti con forme non standard, nella stessa nozione di orario di lavoro , seppur con qualche residua zona di incertezza . Ma ci sono spiragli di ulteriore innovazione. Come segnala l’evoluzione sul tema del contratto collettivo dei metalmeccanici del 2021, lo sviluppo delle competenze della persona che lavora può essere considerato un “investimento e un valore condiviso” tra lavoratore, sindacati e azienda (art. 7, sez. IV, tit. VIII) .
Nella nostra indagine, la materia della professionalità (e della relativa formazione) viene interpretata come strumento non solo per migliorare l’occupabilità nel e per il mercato del lavoro, anche anticipando le esigenze del mercato, ma pure per incrementare il livello retributivo. In quest’ottica, la formazione costituisce uno strumento per aumentare il benessere e, con esso, la produttività e la competitività delle imprese.
Allo stesso modo, nella persona che opera in un mercato del lavoro spesso frammentato e opaco sta maturando il nuovo bisogno di sapere e di conoscere le caratteristiche delle condizioni di lavoro, retribuzione inclusa.
La nuova parola d’ordine della trasparenza nel diritto del lavoro, se coltivata per migliorare effettivamente le condizioni di lavoro (specie in relazione alle informazioni non note ai lavoratori), può incidere sull’organizzazione del lavoro, contrastando alcuni rischi sistemici e dischiudendo prospettive di grande interesse per riequilibrare le diseguaglianze visibili e invisibili . Seppur con la consapevolezza che la trasparenza non sarà la bacchetta magica per dischiudere le scatole nere dell’intelligenza artificiale.
Dall’articolata ricerca emerge una visuale innovativa del problema del contrasto alla povertà, che considera non soltanto il classico approccio di tipo welfaristico (del settore privato e financo pubblico) dall’angolazione di sicurezza sociale, ma anche quella più mercato-lavorista, nonché di diritto sindacale e di disciplina (lavoristica e civilistica) dei contratti individuali di lavoro e collettivi, in un’ottica di prevenzione della povertà lavorativa. Il tutto sviluppando anche nuove strategie di occupabilità, al fine di raggiungere uno sviluppo equo, inclusivo e sostenibile.
In estrema sintesi, la soluzione inedita che emerge è che il costo del lavoro elevato non contrasta con i valori e gli interessi dell’impresa. Anzi può essere un efficace stimolo all’innovazione produttiva e sociale, quale leva per far crescere la produttività e la competitività e, nel contempo, aumentare il benessere double face, personale e organizzativo, e in tale prospettiva anche il benessere sociale.
L’analisi si è sviluppata in una prospettiva originale che eleva a cardine il canone della dignità lavorativa e dell’accesso alla partecipazione alla vita politica, economica e sociale ex art. 3 Cost., senza mortificare il valore dell’organizzazione aziendale ex art. 41 Cost. L’indagine inoltre va oltre il perimetro tradizionale di protezione confinata all’interno dell’area del lavoro subordinato, per estendersi al lavoro “in ogni forma e applicazione”, come recita (parzialmente inascoltato) l’articolo 35 Cost.
In questo frame, l’indagine mette al centro delle policy la formazione (nuova e permanente) quale leva per lo sviluppo del capitale umano e, quindi, del benessere (personale, organizzativo e sociale) con possibili ricadute positive anche sulla debole produttività del nostro Paese. Invero, la ricerca ha coltivato obiettivi molto ambiziosi, ma non per questo tali da indurci a rimanere ciechi di fronte alle difficoltà che si prospettano o incapaci di mettere in cantiere le reazioni necessarie e opportune per far fronte alle emergenze attuali e future.
A conti fatti, l’indagine per risolvere il rebus del lavoro povero ha coltivato un fenomeno ampio, complesso ed esponenziale che ha portato a indagare un segmento importante non soltanto del mercato e (del diritto) del lavoro, specie italiano, ma del Paese e della vita di molte persone, obbligandoci allo sfidante confronto con il lato oscuro delle trasformazioni del la

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