testo integrale con note e bibliografia

1. L’invecchiamento della popolazione come fenomeno globale

Il costante invecchiamento della popolazione registrato nell’ultimo secolo ha condotto l’intera umanità all’inedita situazione rappresentata dalla concreta possibilità per la maggioranza degli individui di raggiungere un’età avanzata. I fattori all’origine di questo radicale mutamento demografico sono molteplici, rappresentando il progressivo aumento dell’età media il risultato della combinazione tra la drastica riduzione dei tassi di mortalità infantile, il progressivo allungamento dell’aspettativa di vita e la forte contrazione degli indici di natalità.
Questa profonda trasformazione che è destinata inevitabilmente a riflettersi – come si vedrà – sul mercato del lavoro, sulla sostenibilità dei sistemi sanitari e previdenziali e, più in generale, sull’organizzazione dell’intera società, non interessa soltanto i paesi economicamente più sviluppati, sebbene questi ultimi siano certamente quelli che hanno manifestato per primi questo cambiamento demografico. Come rilevato da numerose analisi in materia, l’invecchiamento della popolazione costituisce un fenomeno che, fatta eccezione per il continente africano, è destinato ad interessare nel prossimo futuro anche i Paesi che ancora registrano un’età media non particolarmente elevata .
Dinanzi a questo epocale mutamento della struttura demografica della società sono in molti ad interrogarsi sui necessari adattamenti che ne derivano rispetto a modelli e abitudini tuttora radicati ma risalenti ad epoche in cui l’invecchiamento costituiva una condizione riservata soltanto ad una quota minoritaria della popolazione.

2. Dalla prima alla seconda rivoluzione della longevità

I probabili effetti dell’invecchiamento della popolazione sulle strutture economiche e sociali di ciascun Paese sono invero ancora in parte da decifrare e non pochi dubbi sussistono anche in ordine ai limiti biologici della durata dell’aspettativa di vita, ritenendo una parte della scienza medica che il limite massimo di longevità sia stato già raggiunto .
Ciò che appare chiaro da tempo invece è che «invecchiare in una società in cui la maggior parte delle persone è anziana è fondamentalmente diverso dal farlo in una società in cui la maggior parte delle persone è giovane» . E ciò per la semplice ragione che l’allungamento dell’aspettativa di vita costituisce un fenomeno socialmente ed economicamente sostenibile soltanto se si accompagna ad una proporzionale dilatazione della durata dei periodi di salute .
È quanto dire che, una volta realizzata la «prima rivoluzione» della longevità rappresentata dal rapido e generale incremento dell’aspettativa di vita, l’attenzione non può che concentrarsi su quella che è stata giustamente definita come la «seconda rivoluzione» della longevità ovvero la progressiva e proporzionale dilatazione della durata dei periodi di salute durante la vecchiaia onde assicurare la sostenibilità economica dell’intera società .
Si tratta invero di un profondo cambiamento di prospettiva anzitutto culturale che implica il definitivo superamento della tradizionale identificazione della vecchiaia come un periodo irrimediabilmente caratterizzato dalla malattia e dal bisogno. Numerose evidenze scientifiche dimostrano come la qualità della salute durante la vecchiaia sia condizionata dal patrimonio genetico soltanto per una quota minoritaria, mentre rilievo determinante rivestono le abitudini di vita e le condizioni economiche e sociali dell’individuo durante l’intera vita, dovendosi così distinguere l’età anagrafica che di per sé non è modificabile, da quella biologica che assume al contrario una dinamica flessibile e modificabile dal comportamento individuale .
Da status oggettivo predeterminato la vecchiaia assume così il diverso significato di condizione soggettivamente modificabile dalle scelte e abitudini dell’individuo.
Una conferma in questo senso è offerta dal fatto che lo stesso significato di anzianità è andato sensibilmente modificandosi nel corso del tempo, identificandosi nei Paesi economicamente più avanzati con un’età anagrafica sempre più elevata e ciò non soltanto per ragioni di ordine culturale ma anche e soprattutto per evidenti conferme derivanti dalle più elevate capacità cognitive degli attuali anziani rispetto ai loro coetanei del passato .
Ciò dimostra altresì come le condizioni che contraddistinguono l’invecchiamento siano per loro natura flessibili e migliorabili al punto da modificare il significato anagrafico dello stesso concetto di vecchiaia. E altrettanto reversibili possono ritenersi, di conseguenza, anche le analisi che considerano l’invecchiamento della popolazione come la causa dell’inevitabile contrazione delle economie più avanzate che prelude alla insostenibilità dei relativi sistemi sanitari e pensionistici con conseguente aumento del debito pubblico .
A queste fosche previsioni è stato obiettato che la maggiore consapevolezza dell’allungamento dell’aspettativa di vita condurrà molto probabilmente ad una più elevata propensione al risparmio durante la vita lavorativa , oltre al fatto che il miglioramento delle condizioni di salute durante la vecchiaia derivante dal progresso scientifico potrà garantire una maggiore partecipazione degli anziani al mercato del lavoro, generando in questo modo un secondo ed anche un terzo “dividendo demografico” .
Sennonché, questi possibili risvolti positivi del processo di invecchiamento richiedono per essere realizzati un radicale ripensamento dei modelli di organizzazione del mercato del lavoro e previdenziali onde rimuovere, o quantomeno mitigare, gli effetti derivanti dalla forte diseguaglianza nelle condizioni di salute della popolazione anziana dovuta principalmente a fattori socioeconomici come il livello di istruzione, di reddito e di occupazione dai quali deriva – come si vedrà – una profonda disparità di trattamento specialmente sul piano pensionistico in danno dei lavoratori con precarie condizioni di salute e minore aspettativa di vita .

3. Gli effetti dell’invecchiamento sul mercato del lavoro

Le conseguenze dell’invecchiamento della popolazione sul mercato del lavoro e sull’andamento dei tassi di occupazione per classi di età sono già particolarmente evidenti specialmente nel nostro Paese.
Secondo le ultime rilevazioni dell’ISTAT il tasso di occupazione sul totale della popolazione in età attiva è aumentato negli ultimi venti anni di circa quattro punti percentuali, passando dal 57,4% del 2004 al 61,5% del 2023, ma detto aumento deriva in realtà dalla combinazione tra il minore tasso di occupazione dei lavoratori con meno di 24 anni che ha subìto nello stesso periodo una riduzione del 7%, e il forte aumento pari al 20% del tasso di occupazione dei lavoratori ultracinquantenni .
La diretta conseguenza di questo cambiamento demografico è costituita dal significativo aumento dell’età media degli occupati che è cresciuta in misura superiore rispetto a quella dell’intera popolazione, la quale negli ultimi due decenni è passata da 42,3 anni del 2004 a 46,6 anni del 2024, e altrettanto rapida è stata la crescita nello stesso periodo dell’indice di vecchiaia ovvero del rapporto tra la popolazione di età superiore a 64 anni e quelle di età inferiore a 14, che è aumentata di oltre 64 punti percentuali, raggiungendo il valore del 199,8%. Se la popolazione di età inferiore a 15 anni è diminuita di oltre un milione di individui dal 2004, quella con più di 65 anni è aumentata di oltre 3 milioni di persone fino a raggiungere un numero superiore a 14 milioni di individui .
Non occorrono particolari spiegazioni per comprendere come un siffatto cambiamento interessi inevitabilmente ogni aspetto della società, coinvolgendo diversi ambiti scientifici nella ricerca di soluzioni in grado di valorizzarne gli aspetti positivi, limitandone, per quanto possibile, le conseguenze negative.
Ferma restando la necessaria multidisciplinarietà del fenomeno e la conseguente diversificazione degli strumenti idonei a governarne gli effetti , preme in questa sede concentrare l’attenzione, per ovvie ragioni di specializzazione, sulle capacità di adattamento del mercato del lavoro nella duplice prospettiva che indaga, da un lato, l’adeguamento della organizzazione del lavoro alla longevità e, dall’altro, la capacità del lavoro di diventare esso stesso strumento di promozione di quest’ultima .
Ciò non significa che la tematica dell’invecchiamento interessi soltanto la condizione occupazionale dei lavoratori anziani, assumendo importanti e più generali risvolti anche sul piano costituzionale per le conseguenze che ne derivano per la effettività dei diritti della persona e la partecipazione sociale degli anziani, sicché l’invecchiamento attivo dovrebbe essere più correttamente inquadrato nella più ampia prospettiva della garanzia del godimento dei diritti fondamentali .
È quanto emerge dalla stessa evoluzione delle strategie elaborate dalle istituzioni europee che dalla iniziale prospettiva limitata al mercato del lavoro hanno privilegiato in seguito «un approccio che rispecchia l’impatto universale dell’invecchiamento demografico e ne rileva le più ampie implicazioni personali e sociali», elevando la demografia a priorità dell’agenda politica dell’Unione Europea .
È altrettanto evidente come il maggiore impatto del cambiamento demografico sulla coesione sociale dipenda dal «rischio di carenza di manodopera» che «rende a sua volta difficile mantenere la produzione e l’erogazione di servizi» con inevitabili effetti «sulla prosperità e sul benessere di tutti» . La maggiore partecipazione al mercato del lavoro dei lavoratori anziani è stata così ritenuta la misura prioritaria di contrasto agli effetti della riduzione della popolazione lavorativa, sebbene l’efficacia di tali strumenti – come da tempo rilevato in dottrina – dipenda dalla effettiva capacità di adattamento dell’organizzazione del lavoro alle esigenze di una popolazione lavorativa sempre più anziana .
Da questo versante la più recente letteratura scientifica ha approfondito le dinamiche all’origine della recente crescita quantitativa dei c.d. age-friendly job dovuta alla trasformazione tecnologica dei processi produttivi, rivelando, al contempo, importanti risvolti delle ricadute sul piano occupazionale di questa evoluzione dell’organizzazione del lavoro .
Se la promozione dell’occupabilità durante l’intera vita lavorativa costituisce la misura fondamentale per rafforzare le opportunità di lavoro anche in età avanzata , è altrettanto evidente che questo obiettivo non può essere perseguito soltanto con le misure pure certamente importanti di contrasto alle discriminazioni per età , risultando fondamentale la creazione di un ambiente lavorativo «salutare e sicuro» in grado di incentivare la permanenza al lavoro dei lavoratori più anziani che si distinguono dai più giovani non soltanto per condizioni di rischio diverse , ma anche e soprattutto per differenti esigenze e preferenze occupazionali .
Alcune indagini in materia rivelano che i lavoratori più anziani tendono a preferire, anche a costo di una minore retribuzione , attività di carattere cognitivo e di modesto impegno fisico che garantiscano maggiore autonomia, flessibilità oraria e la possibilità di lavorare a distanza . E sulla base di queste caratteristiche è stato verificato – con riguardo al mercato del lavoro statunitense ma analoghe considerazioni possono essere estese, seppure con le dovute differenze, ad altri contesti nazionali – che l’evoluzione tecnologica e la trasformazione delle organizzazioni produttive hanno condotto negli ultimi trent’anni ad un considerevole aumento – suscettibile di misurazione secondo parametro oggettivi (Age-Friendliness Index) – delle occupazioni con queste caratteristiche .
Diversamente da quanto è lecito attendersi, tuttavia, a beneficiare maggiormente delle occupazioni age-friendly non è stata la popolazione lavorativa più anziana ma le lavoratrici e i lavoratori più giovani con titolo di studio universitario. Le ragioni di questo disallineamento tra la maggiore disponibilità di age-friendly job e l’occupazione dei lavoratori anziani non sono difficili da spiegare e risiedono principalmente nel fatto che la maggiore autonomia e flessibilità spazio-temporale dell’attività lavorativa rappresentano caratteristiche particolarmente appetibili anche per le lavoratrici e i lavoratori giovani più istruiti, oltre al fatto che la popolazione lavorativa più anziana rivela una minore propensione ai cambiamenti occupazionali e all’acquisizione di nuove competenze tecnologiche, risultando altresì maggiormente occupata in attività di natura manuale .
Se i processi di automazione industriale non sono indifferenti ai cambiamenti demografici ed anzi paiono da questi influenzati e incentivati , la diffusione dei lavori age-friendly non sembra invece andare nell’auspicata direzione dell’aumento dell’occupazione dei lavoratori anziani che pure dovrebbero essere i primi a beneficiarne, con il risultato che eventuali politiche volte ad incentivare questo tipo di occupazioni potrebbero avere un impatto molto limitato per questa categoria di lavoratori a causa della concorrenza di altri gruppi demografici .
La conseguenza di queste dinamiche sulla capacità del lavoro di diventare fattore di promozione della longevità appare evidente: i lavoratori più anziani e con bassa scolarizzazione che, a causa della maggiore morbilità e della minore aspettativa di vita, dovrebbero accedere in misura proporzionalmente maggiore ai lavori age-friendly, costituiscono invece la categoria con minore accesso a questo tipo di occupazioni e un’analoga inversione di dinamica si riscontra nei sistemi pensionistici.

4. Longevità e sistema pensionistico

Dal versante pensionistico la questione dell’invecchiamento della popolazione è stata generalmente affrontata dai diversi ordinamenti europei attraverso l’aumento generalizzato dell’età pensionabile secondo una prospettiva che privilegia evidentemente l’esigenza della sostenibilità finanziaria in luogo di quelle della equità e adeguatezza della tutela pensionistica .
L’elevazione dei requisiti anagrafici per l’accesso alla pensione è apparsa in questo senso la diretta conseguenza della dilatazione dei periodi di godimento delle prestazioni derivante dalla maggiore durata della vita media, oltre che la misura necessaria a preservare l’equilibrio intergenerazionale nella distribuzione delle risorse dei sistemi pensionistici .
Sennonché, l’indistinta applicazione di questa misura non tiene conto del fatto che nella prospettiva della longevità il fattore determinante non è costituito soltanto dalla durata dell’aspettativa di vita, quanto soprattutto dalla qualità della sopravvivenza ovvero dal rapporto tra i periodi di salute e la maggiore speranza di vita. È quanto dire che l’elevazione dell’età pensionabile costituirebbe la misura logicamente consequenziale all’aumento dell’aspettativa di vita soltanto se a quest’ultima corrispondesse effettivamente un proporzionale aumento dei periodi di salute.
È su questo piano infatti che la generale elevazione dell’età pensionabile presenta aspetti di evidente criticità, posto che non solo la durata dell’aspettativa di vita ma anche la qualità della sopravvivenza rivelano differenze particolarmente significative che derivano – come già ricordato – da diversi fattori di natura socioeconomica come il livello di reddito e di istruzione, la qualità dell’occupazione, la zona geografica di residenza e le abitudini di vita.
Il generalizzato aumento dell’età pensionabile in base all’aspettativa di vita media genera così profonde disparità di trattamento, oltre ad una evidente inversione della funzione redistributiva del sistema previdenziale, dal momento che quanti potrebbero proseguire l’attività lavorativa grazie a migliori condizioni psicofisiche accedono al pensionamento alla stessa età di quanti a causa di sfavorevoli condizioni di salute subiscono, invece, una minore aspettativa di vita, con il risultato che i primi sono ammessi a godere della prestazione pensionistica per una durata anche di molto superiore rispetto ai secondi .
Il passaggio dalla società dell’invecchiamento a quella della longevità lascia così emergere forti diseguaglianze nelle condizioni di salute che imporrebbero non solo di colmare o ridurre tali divari ma anche di differenziare l’accesso al pensionamento in funzione della effettiva qualità dell’invecchiamento o di incentivare la permanenza al lavoro di quanti godono di migliori condizioni di salute, prefigurando così il superamento della presunzione di bisogno legata al raggiungimento di un’età anagrafica indistintamente calcolata sulla media generale dell’aspettativa di vita.
È di tutta evidenza, d’altra parte, come una simile prospettiva implichi un radicale cambiamento del consueto assetto che definisce il passaggio dall’attività lavorativa al pensionamento, non potendo la questione della longevità essere affrontata con i tradizionali strumenti del passato e in assenza di un approccio olistico in grado di coniugare gli aspetti lavoristici e previdenziali dell’occupazione dei lavoratori anziani con quelli più generali riguardanti la promozione della salute durante l’invecchiamento .

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